questa nostra vita in serie
«Il padrone non aveva i soldi per darci la tredicesima. Noi avevamo proposto una dilazione da lui accettata e cioè eravamo disposte a prendere una parte dei soldi in dicembre e un’altra in febbraio. Ma il giorno che ce li doveva dare ha detto: «Sono in rovina, non ho una lira» e ha dichiarato il fallimento. Ma lavoro ce n’era e avevamo tante commesse. Volevamo avere dei chiarimenti da lui, ma quando ci incontrava si faceva prendere da collassi e controcollassi così che è sempre stato impossibile».
«Il padrone aveva centinaia di milioni di debiti. È finito in galera una settimana per truffa. Se mi fosse capitato a me sarei stata condannata all’ergastolo».
«Dichiarato il fallimento abbiamo occupato la fabbrica per più di un mese, poi abbiamo chiesto ed ottenuto l’esercizio provvisorio, ma è funzionato poco… altre fabbriche ci boicottavano non mandandoci più il materiale; le operaie e gli operai però ci hanno aiutato. Abbiamo organizzato mostre fotografiche, fatto discussioni e dibattiti sulla condizione della donna in fabbrica, abbiamo cercato di coinvolgere tutto il quartire nella nostra lotta».
«Poi abbiamo ripreso l’occupazione. Poche di noi potevano passare la notte ad occupare perché ci sono le famiglie e molte abitano fuori Milano».
«Mio padre è del PCI, quindi tante cose le capisce è d’accordo sulle lotte operaie etc… ma quando è toccato a me non vedeva di buon occhio la mia lotta».
«Molte operaie sono state costrette ad interrompere l’occupazione per gli urli, i rimproveri che ogni giorno dovevano subire. Solo 2 di loro sono riuscite a trovare un’altro lavoro, le altre sono disoccupate».
«Le nostre famiglie ci consigliavano di andare a cercare un’altro lavoro. Se davamo retta a loro a quest’ora non avremmo certo vinto la nostra battaglia».
«Mio padre mi diceva: «C’hai il diploma fallo valere allora! e non star lì con quei barboni (i compagni)». Credeva che passassi la notte in fabbrica per fare la civetta con i compagni. «Non hai voglia di lavorare, ma solo di divertirti» mi urlava.
«L’occupazione è durata da luglio a dicembre. La fabbrica non è riscaldata e d’inverno non si riusciva a lavorare dal freddo. Il comune ci ha promesso il riscaldamento ma poi non è successo niente. Le bronchiti che ci siamo prese! La notte a dormire sui tavoli duri e di coperte ce n’erano pure poche!».
«Io qualche volta durante l’occupazione portavo mio figlio in fabbrica. Ora me lo tiene una mia vicina alla quale do 30.000 lire al mese».
«Mio figlio lo tiene la nonna, ma quando si è sposati e ci sono dei bambini si è comunque meno liberi di prima. Ci sono mille doveri da compiere ogni giorno».
«Mio marito non mi ha mai fatto scenate, era evidente che non era contento. Tutti i mariti si arrabbiano se una moglie non prende cura della casa».
«Per me lavorare in fabbrica mi ha aiutato a capire tanti problemi di questa società. Se mio marito torna a casa e ne parla so che dice. Ma tutte noi siamo anche casalinghe. Nel suo piccolo mio marito mi aiuta, nel suo piccolo sottolineo».
«I nostri mariti e padri lavorano e hanno anche loro problemi per il posto di lavoro. Capivano la nostra lotta, ma non le nostre esigenze e difficoltà di donne. Ci scoraggiavano su cose che se fossero capitate a loro sarebbero state chissà che… importantissime, urgentissime, al primissimo posto».
«Abbiamo rilevato la fabbrica rimettendoci il salario e la tredicesima. Ora siamo una cooperativa e decidiamo tutti insieme. Ancora sono poche le fabbriche che ci danno commesse, non si fidano di noi credo».
«Abbiamo organizzato tutto: ritmi, ore, giorni di lavoro, turni».
«Prima i ritmi erano strettissimi. Il padrone ti stava sempre dietro. Gridava per niente, a volte gli scappavano pure degli schiaffi».
«Quando due o tre anni fa ha assunto donne giovani ha dovuto smetterla di fare tanto il galletto, non eravamo
disposte a farci mettere i piedi in testa. Credo che maledica ancora il giorno che ha messo gli annunci sul giornale per le nuove assunzioni».
«All’inizio si ribellavano le più forti, poi, piano, piano abbiamo tutte trovato il coraggio. Prima avevamo perfino paura di parlare».
«La fabbrica è stata aperta nel ’52. Nel ’69 è entrato il sindacato. All’inizio se si faceva uno sciopero non tutti partecipavano perché c’era la paura di essere licenziate, o meglio essere costrette a licenziarci. Questa era una tattica del padrone, faceva di tutto per renderti la vita impossibile finché te ne andavi».
«Avevamo il terrore di chiedergli un permesso. Se poi riuscivi a trovare il, coraggio non ti rispondeva neppure, e questo era il meglio che ti poteva capitare perché era il suo modo di risponderti affermativamente».
«Contava le volte che dovevamo andare al gabinetto e ci concedeva solo pochi minuti».
«Se non era contento del tuo lavoro mandava le raccomandate a casa per farlo sapere in famiglia. A una compagna ne ha mandate 36 in un anno».
«Ora abbiamo tutti lo stipendio, la paga sindacale e se ci avanzano dei soldi li investiamo, compriamo nuove macchine, ma dobbiamo pagare parte dei debiti del padrone e le liquidazioni di quelle di noi costrette a licenziarsi durante l’occupazione».
«Impariamo tutte le fasi del lavoro». Ci hanno sempre detto: «tu sei una ragazza e quindi sei buona solo a fare questo». Ho lavorato in una ditta elettronica e qui per 10 anni ma di elettronica non capisco niente. Ora lavoriamo in gruppi con diversi compiti. Se un giorno una di noi non se la sente di fare un particolare lavoro può mettersi d’accordo con un’altra compagna e scambiarsi i compiti».
«Abbiamo deciso di fabbricare un prodotto finito, una radio a modulazione di frequenza che riesce benissimo a captare anche le radio libere. Le vendiamo direttamente noi in fabbrica per ordinazioni o a privati. La radio l’abbiamo ideata noi, mica un ingegnere l’ha disegnata. Abbiamo creato tutte le componenti noi».
La radio della COELETRON costa 15.000 lire più IVA.
La si può richiedere alla COELETRON Via General Govone, 23 – Milano.