animazione
riflessioni su donne e burattine
«proponiamo
queste nostre riflessioni
sull’attività svolta a Venezia
nel quartiere
della Giudecca – Sacca Pisola
come inizio di un dibattito
dal quale potrebbero
scaturire indicazioni
per una possibile metodologia
del lavoro, per una creatività
che non si chiuda all’interno
del gruppo ma diventi
pratica sociale».
il gruppo di animazione C.A.A.B.A. (Cooperativa Animatori Accademia Belle Arti) aveva avuto l’incarico da parte dell’Assessorato della Pubblica Istruzione e della Cultura di Venezia di operare nel quartiere della Giudecca nei mesi di Luglio e Agosto. Il progetto di intervento nel quartiere del gruppo tendeva a ricercare e a far emergere momenti di cultura nel territorio, ad abituare la gente ad usare in modo diverso il proprio tempo libero rifiutando la separazione tra tempo-produzione e tempo-fuga, la frattura tra cultura e divertimento imposta dal sistema tardo capitalistico. All’interno di questa attività le donne del gruppo di animazione e alcune compagne della Giudecca hanno deciso di portare avanti una attività volta a creare un rapporto con le donne del quartiere.
La scelta operata dalle donne del gruppo di animazione, di lavorare solo con le donne è dovuta alla convinzione che nel tempo «dell’altra metà del cielo» queste divisioni non esistono o esistono in misura minore, non certo perché sono state superate, bensì perché gran parte delle donne non hanno tempo libero, o meglio quello che sembrerebbe tale, in effetti non lo è perché non è quasi mai separato dalle voci: figli, casa, marito. D’altra parte riteniamo che sarebbe ancora una volta una violenza raggiungere le donne con problemi e tematiche senz’altro importanti che riguardano il quartiere ma che non partono direttamente da loro. Se l’alienazione delle, donne ha una sua specificità anche la riappropriazione della propria identità, della propria storia, della propria cultura e del proprio tempo libero non può che avere modi e tempi specifici. Da qui a passare all’attività pratica è tutto da inventare ed è molto difficile, perché non abbiamo modelli, perché tendiamo a rifiutare gli strumenti tradizionalmente maschili, perché in tutti i modi ci sembra di fare un lavoro «sulle» donne anziché «con» le donne, perché se da una parte è importante un tentativo di questo genere all’interno dell’istituzione, l’altra faccia della medaglia è un campo minato.
chiara e lilla
L’idea iniziale che avevamo proposto ad alcune compagne di Sacca Fisola era di cominciare con alcune interviste e questionari da fare personalmente alle donne della Giudecca e, servendoci dei primi materiali raccolti, elaborare alcune scenette da realizzare con le burattine e da portare in giro per tutta la Giudecca. Usare cioè questo mezzo di comunicazione come modello di approccio per introdurre un rapporto con le donne. Abbiamo individuato nel consultorio asilo nido uno spazio per trovarci, spazio che, dopo alcune diffidenze da parte del quartiere, ci è stato concesso. Il salone delle assemblee del, consultorio è, stato usato come laboratorio per la costruzione delle burattine. L’elemento , più significativo di. tutta l’attività è stato dato dal tipo di rapporto che si è creato fra di noi e che è nato dal lavoro collettivo fra. donne che fino a quel momento non conoscevamo;, anche se può sembrare trionfalistico dirlo tali divisioni e realizzazioni non sono mai esistite, tutte abbaino costruito: burattine, cucito vestiti, preparato la baracca, collaborato alla realizzazione del testo e animato le burattine.
Il peso che avvertivano e che ci creava e ci crea l’angoscia e il dubbio di un’occasione perduta era la paura dell’isolamento, l’idea di sprecare uno spazio che poteva aprirsi a tutte le donne, tanto più che avevamo un obiettivo concreto da proporre alle donne poiché in autunno ci sarà l’apertura del consultorio familiare (che adesso funziona solo come ambulatorio ginecologico) e questa poteva essere l’occasione per favorire l’aggregazione di un gruppo di donne che avrebbe potuto intervenire fin dal momento della stesura dello Statuto e operare sia in questa fase preparatoria, sia in seguito per esercitare un controllo sui tecnici ed a far sì che questo consultorio diventi da servizio per. la «famiglia» un punto di riferimento per le donne del quartiere. Le risposte al perché siamo rimaste praticamente recluse nel consultorio per circa quindici giorni credo siano molte: la prima, la più ovvia, è che il nuovo gruppo era esso stesso Al risultato dell’iniziativa di animazione in quartiere ed aveva bisogno di consolidarsi, ma d’altra parte mentre si consolidava rischiava di essere vissuto da noi come interno ovvero estraneo al quartiere, come se noi non vi facessimo parte. Per quanto riguarda inoltre i questionari e le interviste abbiamo raccolto i materiali che ci sono serviti alla realizzazione del nostro primo spettacolo, un po ‘perché, come ho già accennato all’inizio, vivevamo come maschili questi strumenti che forse come primo «avvicinamento» non sono del tutto da scartare. C’è ancora da dire che non abbiamo ricevuto in questo senso il minimo aiuto da parte delle donne del consiglio di quartiere, probabilmente perché non erano d’accordo con la nostra attività separata e neanche lo ritenevano un loro compito.
Il mese di Agosto non è stato dei più felici.
Al di là di queste difficoltà il nostro progetto iniziale di agit-prop burattine per calli, corti e campielli aveva subito per debolezza e ingenuità da parte nostra una deviazione. Infatti per dare continuità all’intervento nel quartiere avevamo accettato di inserirci con il nostro spettacolo in alcuni momenti di comunicazione-festa che nel frattempo gli animatori, con un gruppo di ragazzi del quartiere, stavano organizzando; L’inserirci in una struttura non nostra ci ha creato problemi di collegamento che oltre a portarci a momenti di incontro-scontro con gli organizzatori per evitare una ricomposizione per noi inaccettabile, hanno tolto spazio e tempo alla realizzazione del nostro programma. Inoltre i nostri interventi in queste feste funzionavano solamente come provocazione e nello stesso tempo erano molto limitanti nei confronti delle altre donne. Infatti il dato emergente, l’argomento di cui tutti parlano, nonostante che questi momenti di comunicazione-festa ne affrontassero molti altri, al di fuori dello spettacolo delle burattine, riguarda la divisione dei sessi.
cinzia
Tirare le somme sul lavoro di un mese, sulle sensazioni e le delusioni provate in un mese è una cosa abbastanza problematica e che, se non altro, richiede un sacco di spazio. Devo però essere concisa e perciò riassumo in tre punti principali. All’inizio: la contentezza, la sensazione di piacere provata nel vedere realizzato un desiderio che da tempo covavo: lavorare con delle donne, cercare di costruire qualche cosa e scoprire nelle altre la stessa mia voglia, tutto coronato dal fatto che non ci si è disperse in sterili discussioni, ci si è accettate tutte reciprocamente, senza atteggiamenti voluti dall’esigenza di difendersi dal giudizio «estraneo», con la consapevolezza di poter dire e proporre tutto quello che ci si sentiva dentro. Lo scoprire giorno per giorno che si lavorava bene insieme, che si riusciva a fare qualche cosa. L’esigenza di vederci, di stare assieme. In seguito: la paura di uscire (per lo meno da parte mia) di avere dei contatti al di fuori del nostro gruppo e nello stesso tempo la voglia di farlo, dal momento che era anche il fine che ci eravamo proposte. Il constatare che era tutto molto più difficile di quanto mi ero immaginata. L’impatto con la diffidenza, l’incomprensione e nello stesso tempo la nostra fatica e incapacità nel farci capire, l’enorme difficoltà nel coinvolgere le donne su quanto stavamo facendo. L’angoscia provocata da tutta questa situazione: volevamo coinvolgerle fin dall’inizio anche nella costruzione delle burattine, in tutta la preparazione dello spettacolo e non potevamo farlo se prima non ci facevamo conoscere attraverso questo; un giro vizioso. Il pregiudizio riscontrato nel constatare che questo tipo di spettacolo è riservato «ai bambini», non è per «adulti».
Alla fine: la paura che quei pochi contatti avuti con le donne non possano avere uno sviluppo, che questo lavoro sia servito solo a noi come esperienza di gruppo, che però non ci ha ancora permesso di avere in mano dei mezzi validi per poterci avvicinare ad ‘altre donne (da pari a pari e non come delle «strane» persone che hanno voglia di perdere tempo). Il timore che tutto si fermi a questo punto, senza un ulteriore sviluppo, di arrendersi di fronte al primo fallimento, di lasciare che i «fattori esterni» ci dividano.
antonella
Ci aggreghiamo e ci disgreghiamo con incredibile facilità. Siamo deboli e fortissime. Onnipresenti e assenti allo stesso modo.
Mi voglio chiedere quali strumenti siano più adeguati per la nostra lotta, perché voglio sapere che strumenti voglio usare. Nell’ultimo anno (non posso che basarmi sull’esperienza personale) l’autocoscienza non è stata raggiunta attraverso lo scambio verbale di informazioni sul privato o attraverso avvicinamenti emozionali (ho scoperto che ti amo). Piuttosto ci siamo spesso riunite in gruppi di interesse: collettivi teatrali, di cinema, radio, scritture collettive, collettivi editoriali, ecc. Cioè al posto del collettivo basato sull’autocoscienza prima maniera, del collettivo commissione di gruppo doppio-militantemente (politicamente) omogeneo, del collettivo eterogeneo e nulla facente (fuorché le necessarie e adorate manifestazioni, che sono talmente belle e forti da lasciare dietro di sé un doppio vuoto), al posto di tutto ciò abbiamo optato per gruppi di interesse. Il che è stato la diretta conseguenza del superamento della linea teorica che vedeva certi strumenti come «maschili». Ce ne siamo appropriate. Ma dobbiamo tener presente che, se è già un trionfo il fatto che alcune di noi li sappiano usare, è ora di iniziare ad applicarli a realtà concrete.
Abbiamo imparato ad usare strumenti culturali «classici»: libro, giornale, radio, manifestazione, cinema, teatro, ecc. Per usarli però in senso culturale complessivo, che comprenda tutti gli aspetti del pubblico e del privato, abbiamo la possibilità di inserirci in iniziative di quartiere, cioè della zona in cui viviamo. Il binomio «lavoro di quartiere» risveglia in me un insopprimibile brivido che in genere provo quando una parola è stata sfruttata retoricamente senza darci niente di fatto. Proviamo a rivalutarlo: ne vale la pena. Questo soprattutto perché molte donne, quelle che dobbiamo raggiungere, sono diventate impermeabili allo stimolo dei mezzi di comunicazione nei loro confronti, sia che lo stimolo parta direttamente da noi (ed allora trovo opposizione nella mentalità delle donne), sia che venga filtrato dai mezzi di comunicazione maschile, Cioè le donne sanno che esistono «le femministe», ma ne sono prevenute o addirittura spaventate e rifiutano in blocco i rimasugli di liberazione che riusciamo a far pervenire loro dalla merda in cui siamo. È necessario un contatto più- diretto che ad esempio l’animazione (Utilizzata in un quartiere può dare. Nell’animazione, infatti’, può confluire l’uso di tutti quegli strumenti che abbiamo imparato ad usare. Forse il lavoro di quartiere (considerato progressivamente) implica un rapporto maggiormente impersonale rispetto al collettivo di autocoscienza e al gruppo di interesse, ma mi sembra che entrambi abbiano rappresentato una tendenza sempre maggiore all’apertura dal privato ad un pubblico che contenga in sé il privato. Follie escatologiche? Paranoia nera. Queste considerazioni sono anche dovute al fatto che molte compagne hanno scelto come lavoro l’animazione e sono attualmente in possesso di strumenti che possono essere utilizzati in senso femminista, senza perdere l’occasione di far coincidere parzialmente il lavoro (in genere c’è poco controllo da parte, delle istituzioni nel lavoro svolto) con le proprie esigenze di donne.