esteri
liberarsi con la guerriglia
in afghanistan le donne hanno cominciato a scrivere la loro “storia” ma forse è troppo tardi
Dalla finestra dell’albergo dove alloggiavo a Kabul, al di là di una terrazza, c’era un appartamento abitato da un uomo e dalle sue due giovani mogli. Una famiglia benestante, secondo il livello di vita afghano. Il marito, con il suo berretto di karakul ben calcato sulle orecchie anche se era estate, andava al lavoro ogni mattina, vestito all’occidentale. Il soggiorno era proprio di fronte alla mia finestra: una stanza senza mobili, con molti tappeti e grandi cuscini lungo le pareti. Sull’unica credenza moderna c’era uno specchio. E le due donne, più bambine che donne, passavano il tempo provandosi a turno i loro vestiti, ammirandosi allo specchio, truccandosi e scambiandosi i gioielli… Avevano una dozzina di abiti moderni, eleganti, dai colori vivaci. Passavano ore e ore di fronte a quello specchio, giorno dopo giorno. Una di loro era incinta. Non uscivano mai sole. Una vecchia serva appariva di tanto in tanto e il resto del tempo immagino provvedesse ai bisogni della casa, peraltro molto modesti, dato il basso tenore di vita degli afghani e la semplicità dell’arredamento delle loro case. A volte il marito le portava fuori, verso sera, e il venerdì, giornata di festa, partivano in macchina.
Quando uscivano erano sempre avvolte dalla testa ai piedi nel “tchaderi” il colorato mantello, uniforme delle donne afghane. Viola, lilla, amaranto, blu o porpora, scende a plissé da una calotta ricamata e le avvolge completamente. Solo una finestrella ricamata con un punto a rete all’altezza degli occhi permette loro di vedere, agli altri di indovinare i loro sguardi curiosi. Le due donne camminavano sempre qualche passo dietro al marito. Una donna afghana si muove sempre come l’ombra dell’uomo.
Ho amato moltissimo l’Afghanistan e a distanza di dieci anni ho ancora vivissime le immagini delle varianti infinite dell’ocra della terra e delle rocce, i cespugli fioriti del deserto, le macchie nere delle tende dei nomadi, le siluettes irreali dei cammelli, le nuvole di polvere sollevate dalle pecore, la bellezza dei nomadi pashtu, donne e uomini, il cui viso è solo parzialmente coperto dalla fascia che scende dal turbante o dal velo.
Una vita fuori dal tempo. Una serenità che allora ho vissuto come sfida ad un mondo moderno di cui laggiù non si sente il bisogno.
Pagman, nome che oggi ricorre sovente nelle cronache della guerriglia. Un’oasi piena di giardini e fontane dove gli abitanti di Kabul erano soliti trascorrere le giornate di festa: giostre di legno spinte a mano, tiro al bersaglio, il gioco delle monete… Gli uomini danzavano al ritmo di insoliti strumenti a corda, le donne sedevano in disparte, con il tchaderi rialzato sul capo.
Ovunque c’è una goccia d’acqua in Afghanistan scoppia, come un fuoco d’artificio, il verde di un’oasi. Viti, alberi da frutto, gelsi… Le strade dei villaggi sono di solito coperte da pergolati e stuoie di paglia e gli artigiani lavorano accucciati sulla soglia di basse case di fango.
A queste immagini se ne sovrappongono altre, le poche che ci giungono attraverso il mezzo televisivo: carri armati, elicotteri, fucilazioni, tendopoli di profughi, bimbi mutilati da giocattoli bombe.
Il mondo mussulmano non è certo luogo adatto ad una femminista. Ma al di là di ogni riflessione sulla povertà, arretratezza, semplicità della vita del popolo afghano, non potevo comunque impedirmi di avere un interesse particolare per la condizione della donna. Aziza era stata alcuni anni in Italia con il marito, archeologo. Insegnava a Kabul in una scuola elementare ed è venuta a cercarmi quando ha saputo che ero italiana. Non portava il tchaderi, era istruita, aveva viaggiato, prendeva la pillola. Con il marito, suo cugino carnale, aveva un rapporto di parità e quando ricevevano ospiti, nella casa del padre che era più grande della loro, lei e le sue sorelle sedevano alla tavola comune. La madre di Aziza invece rimaneva in disparte e solo la cortesia e il dovere di ospitalità, sacro per gli afghani, le inducevano a vincere la timidezza e a venirci a stringere la mano con un sorriso. Grazie ad Aziza ho incontrato altre donne dell’elite afghana. Lunghe ore passate a rispondere alle loro curiosità a parlare dei costumi e modi di essere delle donne del loro paese. Con loro ho pure visitato alcuni accampamenti di nomadi alla periferia di Kabul. Ho cercato di conoscere, di capire, senza permettermi di giudicare. Lo scopo della vita di una donna afghana è di sposarsi, fare figli e aiutare il marito nel lavoro dei campi o nella cura del bestiame. Un tipo di vita simile a quello di una monaca di clausura, chiusa al contatto con chiunque non appartenga alla sua cerchia famigliare. Una vita di lavoro durissimo, di dolore, xli schiavitù, sottoposta alla volontà di un marito che non si è scelta, spesso molto più vecchio di lei. Una donna non viene considerata come individuo indipendente, con volontà propria ed un proprio sistema di valori. Il tchaderi viene portato proprio per far dimenticare agli estranei che dentro c’è una persona, tanto che non si può guardare una donna per cercare di individuarne i lineamenti e non si può fermarla per chiedere la direzione, senza suscitare l’ira del marito. Nelle strade di Kabul si impara ad ignorare le donne, perfino a dimenticare che esistono. Solo le donne delle classi più alte vanno a scuola e non portano il velo.
Le donne afghane non hanno una loro “storia”. Una élite si è posta il problema della loro emancipazione, ha cercato di fare emanare delle leggi, ha fondato movimenti di donne. Ma sempre questi movimenti si sono dovuti arrendere di fronte ad un magma di problemi sociali che nessun regime politico afghano è stato in grado di sciogliere. E la situazione non è certo cambiata quando le truppe straniere, da sempre detestate, sono venute ad imporre al paese, uomini, donne e bambini, uniti nella religione e nella tradizione, un regime politico che la maggior parte della popolazione non accetta.
Il re Amanoullah (1919-1929) aveva incoraggiato l’emancipazione delle donne nell’ambito di un progetto grandioso di modernizzazione del suo paese.
Erano i tempi di Ataturk e del risveglio dei nazionalismi arabi. E il re, di ritorno da un viaggio in Europa, durante una cerimonia ufficiale, aveva tolto il velo a sua moglie Soraya, di fronte a tutti i dignitari del regno, e promulgato nuove leggi sul matrimonio e sul ripudio, abolendo la poligamia. Ma i mollali si sentirono minacciati e le truppe dei signori locali marciarono su Kabul. Partito Amanoullah in esilio, il nuovo re rimise il velo alle mogli.
Nel 1946 la regina Homaira, moglie di Zaher Shah (1933-1973) creò la prima “Associazione delle donne afghane” una specie di San Vincenzo che intendeva proteggere le donne e i bambini e che raggiunse solo una minima parte della popolazione femminile privilegiata. Il tchaderi, abbandonato dalle donne della borghesia e della nobiltà, venne però adottato dagli altri ceti sociali nelle città. Solo le donne dei nomadi continuano a non portarlo. Durante l’Anno Internazionale della Donna (1975) il Presidente Daoud annuciò che i matrimoni non si sarebbero potuti celebrare se non con il consenso di entrambi gli sposi. In realtà la maggior parte dei matrimoni continua ad essere combinata dai genitori.
Nel 1965, anno di fondazione del partito comunista del popolo, quattro donne furono elette al Parlamento. Una di loro, Anahità, decise con alcune studentesse universitarie di fondare “l’Associazione democratica delle Donne dell’Afghanistan”, il cui scopo era di raggiungere le donne delle regioni più lontane e di aprire loro la strada dell’istruzione. Il 92 per cento delle donne afghane sono infatti analfabete. Nel 1965 le socie dell’Associazione erano sette. Nel 1978 più di mille. Anahità fu nominata Ministro degli Affari Sociali nel primo governo comunista di Taraki. Messa poi in disparte da Babrak Karmal, è ritornata in patria con i russi…
Le donne che ho conosciuto e frequentato durante i pochi mesi passati a Kabul, riponevano le loro speranze in un regime socialista. Non ho più saputo niente di loro dopo l’invasione sovietica. I nomi delle loro famiglie sono però quelli dei capi dei patrioti afghani. Certo non era questo il modo in cui speravano di emancipare le donne del loro paese…
Oggi esiste l’Unione Rivoluzionaria delle Donne Afghane”, un’organizzazione clandestina che ha fatto conoscere la sua esistenza nel maggio del 1979 a Kabul. Il 13 maggio di quell’anno, infatti, alcune donne parenti di prigionieri politici avevano manifestato davanti alla prigione di Poli-Tcharki. La polizia aveva sparato e una ragazza, Djamila, aveva perso la vita. Qualche giorno più tardi è cominciata a circolare una “shabnama”, lettera notturna, clandestina, incisa poi su delle musicassette. Un’altra lettera intitolata “l’epopea delle giovani del nostro paese ha fatto tremare il dorso del drago rosso” è stata pubblicata qualche mese dopo da questa stessa organizzazione che diffonde anche un giornale “Il messaggio delle donne”. Manifestazioni di donne hanno avuto luogo nell’aprile e nel settembre del 1980 e il 10 ottobre 1981. In seguito a quest’ultima manifestazione una trentina di donne sono state ferite, 350 arrestate e un centinaio di ragazze accusate di “condotta disordinata” sono state espulse dalle scuole e dall’Università. Le donne nelle città sono molto attive nella resistenza. Keshwar Kamal, di ventisette anni, è una delle leaders di questa nuova Organizzazione.
“Possiamo confrontare la nostra situazione con quella delle donne occidentali di due secoli fa — ha dichiarato a Des Femmes Hebdo — la poligamia e il matrimonio forzato sono la condizione comune di tutte le ragazze e l’accesso al mondo del lavoro è ancora molto limitato. La guerra e l’occupazione sovietica hanno però modificato questa struttura. Essendo gli uomini alla macchia, le donne sono responsabili della famiglia e assicurano, in città come in campagna, il commercio e la produzione agricola. Oggi, alle penose condizioni di vita delle donne in base alla tradizione, si aggiungono le violenze e i sopprusi dell’armata di occupazione. Le donne sono le prime vittime della guerra: i soldati violentano le ragazze, le case vengono saccheggiate i campi bruciati, i corsi d’acqua avvelenati. Nessuna famiglia afghana sfugge a questa situazione imposta dalle truppe di occupazione”.
Anche la famiglia di Keshwar ha subito la repressione ed ha abbandonato la casa paterna. Keshwar vive in clandestinità e di ritorno nel suo paese rimetterà il tchaderi, non per seguire la tradizione, ma per sfuggire ai controlli polizieschi, per nascondere armi e messaggi da portare ai combattenti.
“Il nostro obiettivo è l’indipendenza nazionale e la democrazia. Esistono, in seno alla resistenza afghana, delle forze retrograde, integraliste. Alcuni dei partiti che hanno base a Pechawar in Pakistan vogliono instaurare un regime tipo quello di Khomeini in Iran. Noi donne afghane rifiutiamo queste forze oscurantiste ostili alla democrazia che rifiutano ogni diritto alle donne”.
Le donne afghane hanno dunque dato inizio alla loro “storia”, combattendo al fianco dei loro uomini, eguali di fronte alla morte che li minaccia. Ma forse è già troppo tardi, se è vero che il governo burattino di Babrak Karmal ha bisogno di non più di due milioni di afghani per mantenere il suo potere. Il massacro continua da troppo tempo. E solo chi è vissuto qualche tempo in Afghanistan sa che uomini e donne si faranno uccidere tutti prima di accettare la logica dell’invasore.
La prima “shabnama” dell’Unione Rivoluzionaria delle Donne Afghane
Felice la madre che ti ha portato sulle sue ginocchia. Ella ti ha insegnato l’amore per la patria e tu, figlia del popolo, puoi essere fiera… Come Malàlaì, e Giovanna D’Arco tu Djamila(2) hai innalzato la bandiera della patria, mostrando al mondo che l’imperialismo dei Sovietici e il loro esercito omicida non possono fermare la giusta lotta del popolo per la sua libertà. Tu hai dimostrato che le donne e le ragazze afghane che hanno il senso dell’onore, non hanno niente a che vedere con le marionette del Parcham e del Khalqo) che si sono gettati nelle braccia dei sovietici. Tu hai mostrato loro la fierezza e la resistenza e hai dato prova che le donne e le giovani afghane sono con il popolo che lotta per la sua indipendenza. Con il fucile hai liberato alcune terre del tuo paese e vi hai accolto tante tante sorelle nella lotta.
Maialai ha fatto del suo “tchaderi” coperto di sangue una bandiera della libertà. Come i nostri compagni, suoi fratelli, ella ha lottato contro gli inglesi. E li ha obbligati a lasciare l’Afghanistan. La sua storia è una stella luminosa della nostra memoria. Voi, liceali e studentesse che lottate per la patria, resterete per sempre nella nostra memoria, nella memoria di tutti. Il giorno in cui avevate fatto un giusto sciopero, il nemico ha sparato su di voi. Avete gridato “fratelli, voi avete dato molti martiri alla patria, spetta a noi ora continuare la resistenza”. I nostri fratelli e il nostro popolo non lo dimenticheranno mai. Sorelle, fratelli di lotta, siete la nostra fierezza. Con questo scritto rendiamo omaggio ai vostri genitori e porgiamo loro le nostre condoglianze. Siamo certi che mai dimenticheremo il sangue dei loro figli… Laveremo ogni goccia di sangue dei nostri martiri con fiumi di sangue nemico. Chiediamo vendetta contro i nemici che uccidono la nostra gioventù. E tu Babrak(4), lacchè dei sovietici, non hai denunciato le azioni di coloro che uccidono i nostri ragazzi e le nostre ragazze armate solo di quaderni e matite? Sii maledetto tu che uccidi i nostri giovani. Su loro hai diretto il fuoco dei carri, delle mitragliatrici, degli elicotteri. Hai riempito le prigioni. Hai fatto piangere migliaia e migliaia di famiglie e le loro lacrime formeranno fiumi che trascineranno te e i tuoi padroni.
Amin e Taraki uccidevano la nostra gioventù di notte, nell’ombra. Vergogna a te Babrak che li uccidi in piena luce, e in piena luce vediamo la maschera di democrazia che i tuoi padroni ti hanno cucito sul volto! Quando eri al Kremlino, ti comportavi come un cane davanti al suo padrone. La nostra gioventù ti credeva leale. E quando sei ritornato con i carri abbiamo visto che eri alleato di Breznev. La verità è apparsa chiara come il sole. Ma sparirai, come sono spariti Amin e Taraki: è il tuo destino. Tu volevi prostituire le nostre figlie. Ma loro hanno coraggio. Volevi giocare con loro, ma è come giocare con il fuoco. La lotta dei nostri giovani e delle nostre figlie è un pugno dato alla gola degli uragani rossi e dei loro servitori.
Il popolo è fiero di voi, della nostra gioventù vigorosa, anche se ferita e imprigionata. Spera che voi non lascerete mai cadere la bandiera della libertà.
Ragazze del nostro paese, voi non siete capaci soltanto di badare ai bambini, oggi voi distruggerete il Kremlino. La vosta lotta non è terminata, voi non smetterete di urlare “Fuori i sovietici dall’Afghanistan!” Noi vogliamo un Afghanistan libero e indipendente da ogni superpotenza. Donne del nostro paese, raggiungete i vostri fratelli e le vostre sorelle. Siamo sulla via dell’indipendenza contro il social-imperialismo sovietico. Avanti!
NOTE
- Donna afghana che ha lottato contro gli inglesi nel 19° secolo.
- La giovane morta durante la manifestazione.
- Partiti che appoggiano Mosca.
- Babrak Karmal, attuale presidente.
Pubblicata su Des Femmes en mouvement — Hebdo, n ° 32,13 giugno 1980.