Simone De Beauvoir, non basta il socialismo
Ha pubblicato il suo primo libro, un romanzo, ‘L’invitata’, alla fine della seconda guerra mondiale. è del 1949 la sua opera destinata a produrre una svolta: ‘Il secondo sesso’, un saggio che analizza dalla preistoria ad oggi la condizione femminile. I suoi volumi autobiografici restituiscono intera la vita e la personalità di una donna (vissuta e narrata in prima persona): ‘Memorie di una ragazza perbene , ‘L’età forte , ‘La forza delle cose , ‘Una morte dolcissima’, ‘A conti fatti’. Ha pubblicato un saggio fondamentale sulla vecchiaia, ‘La terza età’, e, dal 1970, ha preso parte militante al movimento di liberazione della donna, autodenunciandosi per aborto, presiedendo l’associazione ‘Choisir’ (per la libera scelta della maternità). Nel n. 239 di ‘Les temps modernes’ (monografico sul femminismo) ha dato vita, con la rubrica ‘Il sessismo ordinario’ alla Lega dei diritti delle donne.
«Un individuo che chiami altri ‘sporco negro’ — scrive — può essere portato in tribunale e condannato per ingiurie razzialli. Se un uomo grida in pubblico a una donna ‘puttana’ o accusa la Donna di perfidia, stupidità, volubilità, debolezza mentale, comportamento isterico, non corre alcun rischio. Non esiste il concetto di ingiuria sessista’». Sono stati raccolti molti esempi di sessismo: dichiarazioni di militari, di scienziati, di politici di destra e, quel che è più inquietante, di sinistra, immagini e slogans pubblicitari, articoli di giornali di ogni tendenza… «Niente può difendere la donna dalla diffamazione, dallo sfruttamento, dalla discriminazione se non la loro lotta».
— Dal tempo in cui ho scritto e pubblicato II secondo sesso ad oggi, la mia attitudine è cambiata totalmente. Ero una teorica, sono diventata una militante. Analizzavo la condizione della donna, piuttosto che sentirmene partecipe. Sono, queste parole che mi sta dicendo Simone De Beauvoir, abbastanza straordinarie, ed ammirevoli, nella misura in cui denunciano se non altro la sua volontà di ridurre la distanza tra l’intellettuale De Beauvoir e le donne, una distanza che avevo avvertito, sgradevolmente, ambiguamente, tutte le altre volte in cui l’avevo incontrata: la prima nel 1960, l’ultima nel 1969. Allora, sempre, Simone De Beauvoir m’era apparsa protetta, rinchiusa nel guscio che la fortuna (se non il privilegio) d’essere la compagna autonoma e pure immutabile, da decenni, di Jean-Paul Sartre, sembrava avere creato attorno alla sua persona. Non è un’indiscrezione, porre in rilievo un elemento della storia privata di una «persona pubblica», quando, come nel caso di Simone De Beauvoir, la sua opera è stata alle origini di un movimento di riva- lutazione della «soggettività», di collegamento tra «pubblico» e «privato» che oggi dal femminismo si va estendendo ad altri settori della cultura. Eppure sempre, prima d’oggi, Simone De Beauvoir m’era apparsa come un intellettuale che ha scritto delle donne, che ha lavorato sopra di loro, e che quindi obiettivamente le ha aiutate, ma, per l’appunto, come un antropologo aiuta, con i suoi studi, un popolo sottosviluppato, diffondendo la conoscenza dei loro costumi tra i «civilizzati» e così via. E che la mia non fosse un’impressione superficiale, un fatto di non-simpatia, un’irritazione di pelle (ingiustificabile, d’altronde, data la cortesia e la disponibilità con cui Simone De Beauvoir ha sempre acconsentito agli incontri), me lo confermano, oltre quest’intervista, anche le ultime pagine del suo libro più recente, A conti fatti.
«Il secondo sesso — scrive a pag. 437 — può essere utile alle militanti: ma non è un libro militante». E ricorda una frase che scrisse nel terzo volume della sua autobiografia, La forza delle cose: scriveva: «…ho evitato di rinchiudermi nel femminismo». Oggi scrive: «Mi dichiaro femminista».
— Il fatto è — continua e spiegarmi — che tutti i movimenti o associazioni di donne che esistevano prima del’68, mi interessavano assai poco: ma dopo il’68 in Francia sono nati dei movimenti estremisti e radicali, assai duri anche nei confronti dei gauchistes, maschi, del maggio’68, e nei contatti che ho preso con le ragazze che hanno fatto in Francia il MLF (è stato a proposito della battaglia per l’aborto che mi fu chiesto di firmare quello che poi sarebbe diventato il manifesto di autodenuncia di 343 donne), è stato in quei contatti con le giovani femministe francesi che ho visto finalmente un’occasione per passare dalla condizione di teorica della situazione della donna a quella di militante femminista.
Ho capito allora definitivamente, cosa che non avevo capito affatto scrivendo II secondo sesso, che non si può contare sulla lotta di classe per ottenere la liberazione della donna. Ho capito che bisogna condurre la lotta non soltanto sul piano politico marxista ma anche sul piano politico femminista. Non bisogna lottare soltanto contro il capitalismo ma anche contro il maschismo. I nemici della donna non sono soltanto i padroni, che sfruttano anche gli uomini, ma gli uomini stessi: c’è stato un grande cambiamento in me perché pensavo che non era necessario battersi per le donne e come donna in quanto tale, dato che, pensavo allora, la donna battendosi a fianco degli uomini per il socialismo, avrebbe emancipato se stessa…
Nel suo ultimo libro la De Beauvoir scrive, facendo l’autocritica de «Il secondo sesso» : «Pensavo che la condizione femminile sarebbe evoluta contemporaneamente all’evoluzione della società… (Ma oggi) le donne hanno constatato che i movimenti di sinistra ed il socialismo non hanno risolto loro problemi. Cambiare i rapporti di produzione non è sufficiente a trasformare i rapporti degli individui tra loro e, in particolare, in nessun paese socialista la donna è diventata uguale all’uomo».
— Non voglio neppure parlare di liberazione — dice ora Simone — ma proprio e soltanto di parità. In nessun paese
socialista o che si pretende tale è stato abolito quel lavoro nero
tipicamente attribuito alle donne che è il lavoro domestico.
Da questa analisi — le chiedo — non esclude neppure la Cina? In Cina — mi risponde — sono stati evidentemente fatti dei grossi sforzi per la liberazione della donna, e il problema si è posto all’inizio della rivoluzione. E si continua a farne. Moltissimo è stato fatto per unificare l’educazione. I bambini, maschi o femmine, ricevono una educazione identica. Ma resta il fatto che le leve di potere sono per tre quarti in mano agli uomini. E poi non vi è certo una grande libertà sessuale… Dipenderà anche dalla tradizione dei costumi del paese, che non sono certamente i nostri, ma senza dubbio vi è anche una forte repressione di Stato. è vero che la donna cinese non è ridotta al ruolo di casalinga, che la divisione di lavoro, tra i due sessi, s’è attenuata o è scomparsa, in una misura che non si è verificata in nessun paese socialista, o che si pretende tale.
— Nel passaggio da teorica a militante del femminismo, non ha avuto la sensazione di essere rifiutata proprio dalle militanti, in ragione dell’ideologia femminista che diffida dei grossi nomi, dei grossi personaggi? Non ha cioè dovuto affrontare nel rapporto con le donne come generalità, ciò che capita a molti intellettuali di sinistra nel momento in cui cercano di affiancarsi agli operai? Ciò che in qualche misura ha affrontato anche Sartre dopo il maggio’68?
Essendo legata d’amicizia con alcune delle militanti del MLF ciò mi è stato evitato, devo tuttavia ammettere che alcune femministe si sono tenute e si tengono ancora distanti da me proprio a causa di questa diffidenza per V esperto. In ogni caso tutto il movimento indistintamente mi si rivolge quando ha bisogno di aiuto: per esempio, se c’è da ottenere una autorizzazione per un corteo, sono io che vado in Prefettura…
E ciò non le dà la sensazione di essere sfruttata?
No, perché lo faccio di tutto cuore.
Allargando il discorso da quelle che possono sembrare, ad osservatori esterni, perfino delle idiosincrasie femministe — come questa per esempio del rifiuto dell’esperto a cercare di prevedere la svolta che senza dubbio attende il femminismo dopo questi primi anni di esplosione, vorrei sapere cosa ne pensa Simone De Beauvoir del rapporto tra femminismo e cultura, cultura ovviamente preesistente ai movimenti di liberazione della donna.
Secondo me non bisogna assolutamente rifiutare in blocco il patrimonio culturale che tutti, come esseri umani, abbiamo alle spalle. è lo stesso errore fatto, al principio, dai gauchistes: no alla cultura borghese. S’è visto invece che il proletariato può positivamente strumentalizzare a proprio vantaggio la cultura borghese. Lo stesso, anche se è più difficile, devono fare le donne, distinguere, nel patrimonio culturale che ci precede, e anche in quello contemporaneo, ciò che ha un carattere universale da ciò che porta il marchio del maschismo. D’accordo che perfino la grammatica è maschista, ma sta a noi rivedere tutto nella nostra ottica. Il faut se méfier, d’accord, mais pas de tout refuser… Nello stesso modo, la teoria del rifiuto dell’esperto, la teoria dello spontaneismo à tout-prix, la teoria del tutto ciò che dice una donna è ben detto, possono portare alla fine del movimento… Non esiste, per esempio, la possibilità di pubblicare tutto: s’è aperta ora, da pochi mesi a Parigi, uni libreria con casa editrice femminista: il loro principio è: pubblicheremo tutto ciò che le donne ci inviano. Ma esiste un limite, che è il limite del finito: delle tante pagine di un volume, del numero dato di pagine di una rivista. Come è possibile pubblicare tutto? Lo stesso principio avrebbe dovuto ispirare il numero di Les Temps Modernes che il comitato di redazione, di cui io faccio parte, ha voluto dedicare al femminismo. Les filles, le ragazze, erano partite dall’idea di pubblicare tutto: ma la rivista ha soltanto 380 pagine. Era inevitabile una scelta: è sempre inevitabile una scelta. Ciò che è importante è definire nuovi, e nostri, criteri di scelta: se non si vuole continuare a giudicare con i criteri estetici precedenti, bisogna inventarne di nuovi. Non si può rinunciare al giudizio, alla scelta. Il criterio irrinunciabile, poiché qualsiasi scritto è sempre diretto alla comunicazione con gli altri, il criterio irrinunciabile è quindi quello della efficacia della comunicazione: bisogna che ciò che dice una donna possa essere compreso: se una donna lancia un grido esso ha valore se è intellegibile, se è inarticolato può avere un valore di segno, ma è del tutto in balia dell’interpretazione altrui.
Lei ha preso i primi contatti col movimento di liberazione della donna, in Francia, sulla questione dell’aborto. Ha fatto l’autodenuncia, è stata tra le creatrici di Choisir, s’è battuta per l’assoluzione di Marie-Claire, la ragazza di Bobigny. Ma, se è vero, come è vero, che l’aborto è un obiettivo irrinunciabile della lotta femminista, non c’è d’altra parte il rischio, per il movimento, di fossilizzarsi e quasi isterilirsi in una dimensione esclusivamente rivendicazionista? L’aborto, gli anticoncezionali ecc.
Bisogna distinguere i due aspetti della questione: aborto libero e gratuito ed anticoncezionali gratuiti sono due momenti irrinunciabili della nostra lotta: la realtà dei nostri paesi, sia dell’Italia come della Francia, è assai arretrata su questi punti e non possiamo permetterci delle distrazioni…
A proposito della Francia, le recenti decisioni di Giscard d’Estaing, sulla liberalizzazione e gratuità degli anticoncezionali, la sua decisione di affidare a una donna un sottosegretariato per lo sviluppo della donna, che significato hanno?
Penso che sia, da una parte, della demagogia, dall’altra l’esigenza mondana di Giscard d’Estaing che l’hanno spinto a queste decisioni: il femminismo, purtroppo, rischia di diventare di moda. In ogni caso non credo che riusciremo ad ottenere una legge seria sull’aborto…
Sempre restando nel tema dell’aborto in Francia, quale è il suo giudizio sull’attività dello MLAC che ha praticato una quantità di aborti illegali e militanti a Parigi ed altrove?
Ritengo che sia stata una esperienza straordinaria, tuttavia in questo momento è assai rallentata, perché le ragazze erano debordate dalla quantità di richieste che ricevevano: a questo punto non era più tanto un fatto politico quanto un’opera di pronto soccorso, con la quale si finiva col cercare di riparare alle carenze (volontarie) dello Stato in questo settore. In ogni caso io ritengo essenziale che il diritto all’aborto sia di esclusivo dominio delle donne: vi è già, come è noto, una certa tendenza, in paesi altamente industrializzati, ad imporre qualcosa di simile all’aborto programmato… In un modo o nell’altro, sia che si imponga alle donne di non abortire, sia che si imponga l’oro di abortire, è certo che la persona della donna ne risulta totalmente calpestata. L’aborto in sé e per sé non è rivoluzionario, è rivoluzionaria invece la pretesa della donna a possedere totalmente se stessa. Per questo io ritengo che V aborto è ben lungi dal costituire un fine del femminismo. Altri obiettivi per i quali bisogna battersi, è c’è ancora da battersi, sono la parità totale di istruzione tra l’uomo e la donna — ciò che non è fatto nemmeno in Branda — l’eliminazione dei ruoli, l’eliminazione della divisione del lavoro, che carica esclusivamente sulle spalle della donna il lavoro domestico. Ma tutto ciò va visto nel quadro della restituzione completa alla donna della propria identità.
Lei è stata attaccata spesso perché, pur teorizzando l’oppressione femminile, e dichiarando la necessità di indipendenza della donna, la sua vita si è svolta in qualche modo all’ombra di un uomo, Jean Paul Sartre. Si può quindi considerare gli uomini degli oppressori ed amarli?
Io non sono d’accordo con le femministe che professano, programmaticamente, l’odio per gli uomini. Pur riconoscendo che bisogna essere molto prudenti e che vi è sempre il pericolo di cadere in trappola, ingannate dal fatto che però vi sono degli uomini eccezionali ecc. ecc. Ciò che io apprezzo comunque nelle femministe radicali, è la rettitudine che fa loro rifiutare qualsiasi complicità coll’uomo. Io credo che lo stesso criterio di rettitudine dovrebbe governare anche noi, noi donne che non rifiutiamo programmaticamente l’uomo: voglio dire avere il coraggio di lasciare un uomo che si rivela comunque in qualsiasi momento un maschista. Le femministe che odiano gli uomini diventano in genere omosessuali: anche se non tutte le omosessuali odiano gli uomini. Ma in quest’ultimo caso la loro è una scelta istintiva e non politica: non sono femministe, ma soltanto lesbiche.
Lei quindi non crede che l’omosessualità femminile sia sempre femminista?
Io penso che l’omosessualità femminile va sempre più diventando un fatto politico, so che una quantità di donne sono diventate omosessuali per scelta politica, e in generale esse non riproducono nei loro rapporti reciproci, il rapporto superiore-inferiore che è tipico della coppia eterosessuale o omosessuale ma non politicizzata. Naturalmente vi sono le eccezioni.
E l’omosessualità maschile può realizzare un eguale rapporto egalitario?
Può darsi ma io credo che non vi possa essere lotta comune tra il femminismo e l’omosessualità maschile. L’omosessuale maschio in genere odia le donne, le emargina assai più coerentemente dell’uomo etero, rifiutandole anche a letto. Perciò i tentativi che si sono fatti in Francia di unificare i movimenti omosessuali maschili e femminili sono falliti.