Perché ridare voce a effe oggi
Da quando abbiamo chiuso effe nel 1982, molto è cambiato nel mondo, soprattutto attraverso i processi di globalizzazione e la diffusione di Internet e dei social networks. In una società così potentemente trasformata ha ancora un senso, tuttavia, rileggere gli articoli di effe perché in questi tre decenni sono stati fatti molti progressi in alcuni ambiti, ma in altri i problemi per noi donne si sono aggravati rispetto agli anni Settanta, in particolar modo dopo la crisi economica del 2008. Pertanto, vorrei brevemente descrivere tre aree in cui le donne italiane hanno fatto grandi progressi – salute, educazione e liberazione sessuale – e tre in cui permangono forti criticità, accresciute anche dai processi di globalizzazione e mediatizzazione della società – lavoro, politica, e violenza contro le donne. In tutti questi ambiti, gli articoli di effe ci possono offrire idee per lotte ancora oggi attualissime!!
Disparità di genere nel mondo
Il Global Gender Gap Report, introdotto dal World Economic Forum nel 2006, mostra l’ampiezza e la portata della disparità di genere in tutto il mondo. Il World Economic Forum analizza la situazione del gender gap nel mondo focalizzandosi su quattro settori: salute e durata della vita, educazione, economia ed empowerment politico. Per ogni nazione l’indice fissa uno standard del divario di genere basandosi su tali criteri e fornisce una classifica dei paesi. Rispetto al gender gap le percentuali basse indicano un divario di genere più grande, le percentuali alte una maggiore parità: da 0 massima ineguaglianza a 100% massima parità.
Nel 2014 Il Forum ha esaminato 142 paesi e ha documentato come i paesi scandinavi occupino i primi posti con in testa l’Islanda (86%), seguita da Finlandia (85%) , Norvegia (84%), Svezia (82%) e Danimarca (81%). Tra i primi dieci ci sono Nicaragua (79%) Ruanda (79%), Irlanda (79%) Filippine (78%) e Belgio (78%). L’Italia si aggiudica solo il 69° posto con un indice di eguaglianza del 69%.
I risultati del 2014 (nota 1) a livello globale mostrano che il gender gap è minore per quanto riguarda la salute e la longevità (96%), con ben 35 paesi che hanno raggiunto la parità. Anche il divario di genere dell’educazione si attesta al 94% globalmente con 25 paesi che hanno superato il divario di genere completamente. Tuttavia in campo economico il divario rimane alto (60%) e altissimo nel settore politico (21%), nonostante questo indicatore abbiano registrato il maggiore progresso dal 2006.
Nessun paese al mondo è riuscito a raggiungere il livello di parità chiudendo il divario di genere in campo economico e politico, dove si esercita il potere decisionale più ampio e dove il potere maschile é sempre stato straripante. L’Italia è in una posizione bassa rispetto alla classifica generale, con un divario globale del 70%.
Aree in cui la parità di genere è migliorata in Italia
Il divario di genere educativo è basso, ma vi è una segregazione di genere nelle scelte universitarie
Per l’istruzione siamo al 62° posto, con un tasso di parità del 99%: le ragazze e i ragazzi frequentano in ugual misura le scuole di ogni ordine e grado. Anzi il numero di ragazzi che abbandonano alle superiori è maggiore di quello delle ragazze. Le ragazze si laureano con migliori punteggi e conseguono più dottorati di ricerca dei maschi. Tuttavia rimane un’elevato divario nella tipologia di studi: le donne si laureano meno nei settori tecnologici e scientifici e sono invece la stragrande maggioranza degli studenti nei corsi di laurea che offrono sbocchi lavorativi meno pagati, meno prestigiosi e più precari come scienze della comunicazione, psicologia, sociologia, scienze della formazione e altri percorsi che preparano al prendersi cura di persone o di cose (restauro). Nelle scelte di studio sembrano prevalere gli stereotipi di genere denunciati da effe già negli anni Settanta e ancora molto attuali! Inoltre in questi ultimi anni sono diminuiti gli studenti che si iscrivono all’università, in particolare nel Mezzogiorno, e sono aumentati gli abbandoni nelle facoltà umanistiche e tra le studentesse.
Divario di genere minore in salute e longevità
Nel campo della salute delle donne a cui effe ha dedicato molto pioneristico spazio negli anni Settanta, l’Italia occupa oggi il 70° posto nella classifica dei 142 paesi. Raggiungiamo un tasso di uguaglianza del 97%, dunque abbiamo quasi conquistato la parità di genere.
Le donne soffrono meno di malattie cardiovascolari, Parkinson, cancri e diabete dei maschi e li superano per quanto riguarda le aspettative di vita, i tassi di depressione, ansia e Alzheimer. Tra i grandi anziani (sopra 85 anni) le anziane prevalgono e tra loro molte sono vedove e povere, considerato che oggi i tagli nei servizi hanno reso più arduo l’accesso ai servizi domiciliari e alle cure mediche. La cura delle donne anziane pesa prevalentemente sulle figlie, e sulle badanti, anche loro donne.
Abbiamo un basso tasso di mortalità da parto, ma un elevato tasso di parti cesarei e di gravidanze a rischio anche a causa dell’aumento di primipare sopra i 40 anni. Inoltre molte donne si trovano costrette a rinviare la maternità: la percentuale di donne con più di 40 anni che hanno avuto accesso a tecniche di procreazione medicalmente assistita in Italia è salita dal 20,7 per cento del 2005 al 30,7 per cento del 2012.
In generale, in diverse regioni italiane è difficile accedere all’aborto e ai nuovi medicamenti abortivi, curare un disturbo mentale, fare controlli medici preventivi e prendersi cura di un parente malato, e la situazione rischia di peggiorare con i nuovi tagli nei servizi sanitari.
Liberazione sessuale: molti progressi e qualche nuovo problema
Questo è uno dei campi dove il progresso è stato costante. Oggi molto più di tre decadi fa, quando effe scriveva molti articoli controversi su questo tema, donne e uomini godono di una maggiore libertà sessuale, possono più di prima rivelare apertamente il proprio orientamento sessuale, come eterosessuali, bisessuali, lesbiche o trans gender. In Italia siamo sempre in attesa di una legge che regolamenti le unioni omosessuali, il che significa che resistenze e pregiudizi rimangono. Ma abbiamo ottenuto la legge 66/1996 che include i reati sessuali tra i reati alla persona, la legge 38/2009 sullo stalking e nel 2003 è stato modificato l’articolo 51 della Costituzione per promuovere maggiormente le pari opportunità tra uomini e donne.
Abbiamo fatto grandi progressi culturalmente. Ormai nei media vengono spesso raccontate storie di donne lesbiche, omosessuali e transgender e anche i ragazzini sanno che ci sono diversi modi di godere della propria sessualità. Tuttavia, a volte, questa grande libertà genera qualche confusione. Per esempio, in una classe di seconda media dove si svolgeva un corso di educazione sessuale e i ragazzi inviavano bigliettini scritti con le loro domande “difficili”, un ragazzino ha chiesto se il percorso normale per i maschi andava da omosessuale, bisessuale, eterosessuale a transgender o viceversa! Aveva visto un trans nel Grande Fratello e da allora stava riflettendo sulla sua possibile evoluzione futura.
La diffusione di internet e la creazione di speciali social networks e siti ha grandemente aumentato l’accesso a possibili nuovi partner e creato nuove possibilità per incontri erotici e affettivi. Tuttavia è anche cresciuta l’accessibilità a siti pornografici che glorificano forme di sessualità violenta che umilia le donne, inculcando nei giovani e giovanissimi fruitori modalità di dominio nei rapporti sessuali. Inoltre sono apparse nuove forme di dipendenza patologica dal sesso virtuale. Nei social networks come Facebook aumenta la gelosia tra partner che si spiano a vicenda nei rispettivi profili, e annunciano la nascita e la morte dei loro amori pubblicamente (nota 2).
Aree in cui la parità di genere è ancora lontana
Divario di genere diminuito ma le donne politiche incontrano ancora molti ostacoli
Per quanto riguarda l’empowerment politico il Global Gender Gap Report del 2014 documenta che in Italia abbiamo fatto grandi progressi partendo da posizioni iniziali molte basse: siamo passati dallo 0,08 del 2006 al 0,24 e dal 72° al 37° posto tra i 142 paesi. Superiamo la media internazionale per numero di donne in parlamento e di ministri mentre abbiamo un punteggio 0 per quanto riguarda primi ministri o presidenti donne! Il balzo è dovuto soprattutto all’aumento del numero di ministre negli ultimi governi, dato che Berlusconi, Monti, Letta e Renzi hanno scelto diverse donne come ministri. Ma essere elette o diventare ministre non significa ancora in Italia avere la possibilità effettiva di incidere molto nelle scelte politiche, dato che le donne sponsorizzate da un leader sono “costrette” a seguirne le direttive, se deviano incontrano ancora molti ostacoli.
Da varie indagini in Italia, incluse due che hanno utilizzato sia interviste che strumenti standardizzati a livello internazionale che ho coordinato (nota 3) a cui hanno partecipato 233 politici eletti in parlamento (46% donne), 425 politici eletti a livello locale (56% donne), 626 militanti (44% donne), e 3249 elettori (45% donne), emerge, infatti, che senza differenze significative, donne di destra e sinistra, elette a cariche locali e nazionali, con compiti legislativi ed esecutivi in città grandi e piccole, al Nord, al Centro e al Sud, indicano come prevalenti gli stessi ostacoli.
Al primo posto, comportamenti ostili da parte dei loro colleghi maschi e questi ultimi sono d’accordo nell’indicare il persistere di questa problematica, attribuita soprattutto ai leader intermedi nei vari partiti, “che mal vedono l’ascesa di donne competenti che potrebbero togliere loro le posizioni a cui questi maschi aspirano da anni”). Al secondo posto vengono indicate le maggiori difficoltà nell’accedere ai media, “che prediligono la presenza di leader o di personaggi di colore, e donne di bella presenza che fanno audience”. Meno peso viene attribuito ad altri ostacoli più “interni”, quali gestire senza troppi sensi di colpa famiglia e lavoro politico e mantenere un’elevata autoefficacia e un senso di empowerment che permetta di raggiungere traguardi ambiziosi. Emerge inoltre che durante la loro carriera le donne incontrano ostacoli durante tutto il percorso e non in misura maggiore ai livelli più alti.
Molte politiche hanno sottolineato un divario di genere per quanto riguarda le modalità di concepire l’attività politica. Hanno dichiarato di sentirsi a disagio e distanti da un modello guerresco di una politica basata ancora prevalentemente su paradigmi di paura, sconfitta e catastrofe. La loro visione della politica è per contro diversa, essa viene percepita come una sfida per il miglioramento della qualità della vita. Le donne auspicano leadership plurime, una maggiore attenzione alla dimensione simbolico-affettiva e più rapporti diretti con gli elettori (primarie, blog politici ecc).
Tuttavia, le politiche intervistate si rendono conto che, oggi, il principale riferimento dell’elettore non è più il soggetto collettivo partito, bensì il leader del partito. Esse lamentano il fatto che anche i mass media rafforzino tale personalizzazione della leadership politica. Così sui leader si concentrano tutte le aspettative e le richieste, ed essi finiscono per vivere “vite impossibili”, “vite mutilate”, “soli e sempre attaccati ai telefonini per risolvere i problemi di tutti”, “soli a decidere sui due piedi in un clima di continue emergenze, a volte fasulle”.
Un terzo delle intervistate specifica di non voler assumere ruoli di leadership in politica proprio per i sacrifici nella sfera affettiva e familiare che essi richiederebbero, nonché per il peso dell’eccessiva responsabilità che questi ruoli comportano. Esse dichiarano di preferire di fare da spalla a un leader piuttosto che affrontare i disagi legati alla competizione per le cariche ai vertici: “Mi piacerebbe far parte del Consiglio dei Ministri, ma non vorrei essere primo ministro, o segretaria del mio partito”. La competizione non viene vissuta come un’occasione per far emergere capacità e qualità fino a quel momento inespresse, ma come un rischio di esporsi ad attacchi personali che possono provocare scissioni e rotture di rapporti.
Dai risultati delle nostre indagini emerge un’importante differenza di genere: infatti, per i politici uomini la competizione è una risorsa, è eccitante e viene paragonata a una gara sportiva. Così essi dichiarano in misura maggiore delle donne di sapere separare il personale dal politico, di rimanere amici anche con colleghi con cui si sono scontrati, mentre per le donne la competitività risulta essere un problema.
Le donne politiche parlamentari non si mascolinizzano ma mantengono valori femminili
Negli articoli di effe alcune donne non volevano che le donne entrassero nella competizione politica per cariche elettive perché temevano che le donne si mascolinizzassero in un contesto culturale dominato da valori maschili. Pertanto nelle nostre indagini abbiamo voluto appurare se le donne che arrivano a cariche politiche mantengono questi valori e priorità o se, come sostengono ancora oggi alcune teoriche femministe, le donne che raggiungono posizioni di potere in questo mondo politico “guerresco”, rischiano di dover o voler assomigliare ai politici uomini.
I nostri risultati, che hanno utilizzato misure internazionali standardizzate, sono incoraggianti: indicano che le donne non si “mascolinizzano”, quando elette a cariche politiche locali e nazionali, ma in media, mostrano di essere “diverse” dai loro colleghi, con tratti di personalità e valori che le rendono più adatte a far uscire la politica dalla palude della corruzione e della lotta per il potere personale.
Infatti, nei valori di base, che sono quelli che indirizzano le nostre scelte nella vita e gli obiettivi che perseguiamo, gli uomini politici hanno punteggi più elevati per quanto concerne edonismo, desiderio di potere e di sicurezza (per cui sono più pronti a percepire, ma anche a esagerare, minacce ambientali). Le donne politiche hanno invece punteggi più alti dei loro colleghi nei valori di benevolenza e universalismo, cioè tendono all’auto-trascendenza, a occuparsi del benessere degli altri, della natura e del mondo, come in genere fanno le donne comuni, tendendo a essere gratificate dal riuscire a “portare a casa” risultati concreti.
I politici da noi intervistati, uomini e donne, hanno anche affermato che le donne sono più oneste. L’onestà è una caratteristica non solo delle politiche italiane. The Annual Corruption Barometer (Barometro annuale sulla corruzione) prodotto da Transparency International ha mostrato da vari anni che le donne sono meno disposte degli uomini a farsi corrompere. Anche uno studio della Banca Mondiale ha concluso che le donne erano più degne di fiducia e avevano più interesse al bene comune dei politici uomini e che per questo era auspicabile una maggiore presenza femminile nei parlamenti dei 150 Paesi esaminati.
Quando non riescono più a esprimere nel loro lavoro i loro valori, molte donne militanti o elette a cariche politiche preferiscono lasciare la politica attiva. Purtroppo la politica pop – cioè la politica-spettacolo, con la sua estrema personalizzazione, la concentrazione dei poteri decisionali nelle mani dei leader e il valore dato alla visibilità più che al raggiungimento di obiettivi concreti – porta molte donne ad abbandonare l’impegno politico. Invece noi femministe dovremmo sostenere gli sforzi di coloro che vogliono avere più donne elette a cariche politiche, ma anche appoggiarle quando sono elette per aiutarle a superare i numerosi ostacoli che incontrano.
Ancora grandi disparità di lavoro e opportunità economiche, mentre la crisi ha aumentato le famiglie monoreddito con a capo una donna
L’Italia si classifica al 114° posto (indice di parità del 57% sotto la media di 59%) evidenziando come il nostro punto debole maggiore sia, come effe già denunciava negli anni Settanta, ancora costituito dalle minori opportunità di lavoro retribuito per le donne. Il Global Gender Gap Report riporta un peggioramento nel nostro paese, mentre l’Italia era al 97° posto per opportunità economiche nel Global Gender Gap Index del 2013, è scesa al 114° posto nel 2014.
In particolare tra gli indici considerati nel rapporto siamo particolarmente lontane dalla parità con i maschi per quanto riguarda posizioni lavorative di management e leadership (35%), nell’avere ugual paga per ugual lavoro (48%), nell’opportunità di guadagno nella vita (57%), mentre superiamo la media dei 142 paesi nel numero di donne professioniste e tecniche (84%). Inoltre, le donne sono più disoccupate degli uomini, fanno un maggior numero di lavori part-time, dispongono meno frequentemente di un conto corrente bancario e usano meno Internet. Tuttavia sono aumentate durante la crisi le famiglie monoreddito nelle quali guadagna solo la donna (meno di una su 10 prima della crisi, una su 8 nel 2014).
Le donne hanno ottenuto in Italia una maggiore uguaglianza formale di diritti che hanno permesso l’accesso a professioni che prima non potevano scegliere. Le politiche di pari opportunità hanno prodotto alcuni progressi. Tuttavia in Italia persiste una segregazione orizzontale, che riguarda l’ineguale distribuzione di genere in diversi settori occupazionali. Le donne predominano nei settori “femminili” e meno remunerati. Sono presenti in gran numero nel terziario e meno in altri settori come il metalmeccanico, l’artigianato, l’edilizia e il lavoro operaio specializzato dove sono in netta minoranza.
Permane inoltre una segregazione geografica: vivere al Sud rappresenta uno svantaggio maggiore per le donne poiché sia la disoccupazione femminile che il lavoro in nero sono più elevati. Persiste inoltre un altro tipo di segregazione di tipo verticale: essa riguarda lo scarso numero di donne ai vertici delle organizzazioni nelle posizioni di maggior prestigio, potere decisionale e con retribuzioni elevate. Negli anni della crisi dal 2008 ad oggi si rileva un aumento sia dell’occupazione che della disoccupazione femminile, con un aumento del differenziale salariale tra uomini e donne, le donne si vedono costrette a fare lavori con paghe più basse (nota 4).
Uno dei pochi mutamenti positivi in questo ambito è documentato nel rapporto Consob On Corporate Governance of Italian listed Companies, uscito a novembre 2014. Oggi il 17% dei posti di consigliere di amministrazione è ricoperto da donne (a fine 2011 erano il 7,4 %) e in 198 imprese (135 a fine 2011) almeno una donna siede nel consiglio di amministrazione. Circa quattro consigli su cinque hanno entrambi i generi rappresentati. Questi numeri sono il risultato della legge 120/2011, che ha introdotto in Italia l’obbligo temporaneo di rispettare un’equa rappresentanza di genere nei consigli di amministrazione e collegi sindacali delle società quotate e partecipate pubbliche. La quota di rappresentanza di genere è fissata al 20 per cento per il primo mandato e al 33 per cento per i successivi due. La presenza di donne nei consigli di amministrazione delle società quotate è sempre stata molto bassa, ben al di sotto del 7 per cento fino al 2011. La legge ha dunque accelerato un processo di lentissima evoluzione della presenza femminile nelle società quotate, che rappresentano comunque una percentuale molto limitata del totale delle imprese italiane.
Una problematica molto presente nei numeri di effe e ancora molto attuale è la non valutazione del lavoro domestico e di cura non retribuito. Su effe ci sono molti dibattiti sul salario alle casalinghe, auspicato da alcuni gruppi femministi e osteggiato da altri. Purtroppo i dati del Global Gender Gap Report mostrano che le donne italiane ancora nel 2014 fanno il triplo del lavoro non pagato degli uomini!
Ma soprattutto è per quanto riguarda la conciliazione tra la cura dei figli e il lavoro fuori casa che gli articoli di effe sembrano ancora scritti oggi. La situazione è addirittura peggiorata per alcuni aspetti. I tassi di natalità e di occupazione femminile sono sempre tra i più bassi in Europa. Troppe donne in Italia si trovano a dover scegliere tra lavoro e maternità: mancano i servizi di sostegno alla famiglia, gli orari di lavoro sono rigidi e l’organizzazione delle aziende è troppo poco flessibile. E nonostante i giovani padri siano più presenti nella ripartizione del lavoro domestico, il maggior peso ricade ancora sulle madri (INAIL 2013). La legislazione sui congedi paternità è molto carente rispetto ad altri paesi europei. Inoltre i congedi di paternità vigenti sono poco utilizzati dai maschi per lo scarso prestigio e rispetto dato ai compiti di educazione dei figli, e per la perdita di possibilità di carriera in aziende orientate al solo profitto.
Mentre negli altri paesi europei l’occupazione femminile aumenta al crescere dell’età dei figli, in Italia è molto difficile rientrare nel mondo del lavoro dopo una gravidanza in particolare per le più giovani e le meno scolarizzate. La legislazione sulla maternità si rivolge alle lavoratrici tradizionali, ossia dipendenti a tempo indeterminato, che oggi rappresentano una minoranza delle giovani donne che lavorano. Le donne giovani oggi hanno in larga parte contratti precari e non godono dei diritti previsti dalla legge in caso di maternità: circa il 43% delle donne italiane con meno di 40 anni, e il 55% di quelle con meno di 30 (nota 5).
Particolarmente difficile è la situazione per le lavoratrici autonome con partita Iva (più di un milione), per cui fare un figlio significa affrontare la possibilità concreta di perdere clienti e avere meno reddito quando ne avrebbero maggior bisogno. La legge Fornero del 2012 ha previsto dei voucher di circa 300 euro mensili per pagare baby sitter o nido anche per le lavoratrici autonome, ma i fondi stanziati sono talmente scarsi che l’INAIL (2013) ha calcolato che solo il 3,5% delle madri potranno beneficiarne.
La maternità continua a essere un momento critico anche nel rapporto tra dipendente e datore di lavoro, si moltiplicano i casi di mobbing, aumenta l’uso delle dimissioni forzate. Purtroppo negli ultimi anni sono stati tagliati i fondi per le Consigliere di Parità, istituite nel 1991, che si sono occupate con successo di lavoratrici madri che subiscono demansionamenti, atteggiamenti discriminatori, vessazioni, scorrettezze e minacce da parte dei datori di lavoro durante la gravidanza e quando tornano al lavoro dopo il congedo di maternità (nota 5).
Particolari problemi incontrano inoltre le donne italiane che vivono in nuclei mono-genitoriali che oggi superano i due milioni. Queste madri si trovano a sostenere l’intero menage familiare sia a livello organizzativo che economico, ma anche ad affrontare da sole paure, ansie, preoccupazioni legate agli inevitabili problemi incontrati nella crescita dei figli.
La rivoluzione culturale che effe auspicava, per cambiare i ruoli nella famiglia, presentando anche esperienze innovative come le comuni familiari, purtroppo si è solo parzialmente realizzata e tutti gli articoli pubblicati da effe su questo tema pongono problematiche e offrono proposte di cambiamento ancora estremamente attuali!
Violenza contro le donne
Secondo le ultime rilevazioni Istat (2015) le diverse forme di violenza sono diminuite negli ultimi anni, anche se rimane elevato il numero di donne (6 milioni e 788 mila), che in Italia hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Sono 652 mila le donne che hanno subìto stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri. La violenza fisica è più frequente fra le straniere (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane (21,5% contro 16,2%). Ci sono inoltre forme di violenza meno visibili di quella fisica o sessuale come la violenza psicologica che sperimentano le donne che devono subire menzogne, tradimenti, rancorosi silenzi, rifiuti di contribuire al lavoro domestico o educativo nella crescita dei figli, pedinamenti e minacce, sottrazione di documenti. Poi ci sono varie forme di violenza economica, come non permettere di lavorare, controllare il denaro guadagnato dalla partner o non dare l’assegno di mantenimento dopo la separazione.
Tutte queste forme di violenza sono leggermente diminuite negli ultimi anni grazie alle nuove leggi, al lavoro dei centri antiviolenza e al rilievo dato dai media al problema per femminicidio. Occorrerebbe moltiplicare i centri contro la violenza, che invece stentano oggi ad avere fondi e riconoscimento per l’importante lavoro che hanno svolto nella trasformazione di una cultura maschilista e patriarcale che genera e giustifica la violenza maschile contro le donne, come effe documentava già negli anni Settanta! Le violenze più cruente avvengono, infatti, per mano di partner, presenti e passati, familiari e amici di famiglia, dunque all’interno di rapporti affettivi intimi. È interessante notare che questa violenza tra intimi rimane elevata anche nei paesi scandinavi che hanno raggiunto tassi di parità molto elevati. Pertanto, come effe sosteneva, non basta mirare alla parità di genere: per arrivare alla liberazione delle donne occorre scavare più a fondo nelle radici sociali e psicologiche della violenza.
La cultura della violenza contro le donne ha radici antiche ma è oggi continuamente riproposta nei media dominati dai maschi
Nei dieci anni di effe abbiamo spesso parlato delle radici antiche delle narrazioni che legittimano una cultura di violenza contro le donne, predominanti in tutte le diverse forme di società in cui vige il patriarcato, cioè la concentrazione di tutti i poteri nelle mani di pochi maschi. Nei secoli, sono cambiate le fonti del potere patriarcale (forza, religione, legge, ricchezza, conoscenza, privilegio ereditario, merito individuale ecc.), ma ai vertici sono arrivati sempre dei maschi in lotta spietata tra di loro, che usavano una combinazione di queste fonti per mantenere i maschi di ceto inferiore e soprattutto le donne sottoposti/e.
In particolare abbiamo esaminato come il dominio maschile sia stato legittimato dalle alte gerarchie ecclesiastiche delle tre grandi religioni occidentali: ebraismo, cristianesimo e islamismo. Queste tre religioni monoteistiche centralizzano il potere in unico Dio onnipotente che non divide il suo potere con nessuna Dea: infatti Dio non ha moglie come invece accade in altre grandi religioni orientali o nell’antica Grecia. Per i teologi, il maschio della specie umana doveva esercitare il potere sulla terra perché Dio l’aveva creato a sua immagine e somiglianza, mentre le donne erano meno vicine all’essenza divina: biologicamente inferiori, malvagie, pericolose, irrazionali e tentatrici sessualmente insaziabili, dunque meritevoli di punizioni. Pandora, Eva, Lilith sono le prime ragazze cattive, curiose, avide di conoscenza e ribelli.
Queste caratteristiche negative delle donne rendevano indispensabile che i maschi le controllassero usando tutte le forme di potere inclusa la violenza. Se Papa Francesco vuole davvero operare un cambiamento epocale, oltre a chiedere scusa per gli abusi sessuali dei preti pedofili, dovrebbe chiedere perdono per come le donne sono state svalutate nella Chiesa Cattolica e permettere che le donne possano accedere al sacerdozio. Questo atto non sarebbe solo uno straordinario evento storico e mediatico, per un papa abile nell’uso dei media, ma un sostanziale immenso contributo positivo per il miglioramento del nostro mondo globalizzato, che Papa Francesco mostra nei suoi discorsi di volere fortemente.
Per millenni non solo i teologi, ma anche alcuni filosofi – da Aristotele a Platone, da Pitagora a Galeno, da Rousseau a Locke – hanno legittimato l’idea che la donna fosse inferiore. Per secoli molte donne hanno interiorizzato le opinioni delle gerarchie dominanti biasimando se stesse e sentendosi inferiori. Le ribelli sono state punite con ogni forma di violenza. Il femminismo ha contributo a proporre una nuova narrativa che rimane ancora minoritaria, perché i maschi del ventunesimo secolo controllano la stragrande maggioranza delle narrazioni che sono proposte dai media tradizionali, dai siti Internet e dai social network.
Non a caso oggi alcune giovani femministe hanno concentrato le loro analisi critiche in questi ambiti (nota 6). Dalle loro indagini emerge che nel giornalismo il 70% degli articoli di prima pagina sono firmati da uomini. Scrittori maschi, secondo una ricerca condotta da VIDA-Women In Literary Arts, avevano il 400% di probabilità in più di essere recensiti nelle più importanti pubblicazioni letterarie internazionali e i recensori erano al 70% maschi. La. marginalizzazione delle donne avviene anche settore editoriale dove lavorano più donne che uomini, ma la maggioranza delle posizioni di potere sono saldamente in mani maschili. Anche nei cosiddetti classici, letti a scuola, prevalgono autori maschi e bianchi. I libri più premiati e venduti a bambini e bambine hanno il doppio di personaggi maschili rispetto a quelli femminili.
Ma le cose vanno anche peggio per le donne nel cinema, come già sottolineavano alcuni articoli di effe. I 250 film di maggiore incasso nel 2012-2013 avevano il 91% di registi e l’85 % di sceneggiatori maschi. I dieci attori più pagati hanno guadagnato 2 volte e mezzo i compensi delle dieci attrice più pagate. Questi film hanno per l’80% protagonisti maschi. Nelle grandi serie di successo come Star Wars, Lord of the Rings, James Bond e Harry Potter dominano protagonisti maschili. Spesso vengono riproposti in diverse versioni per decenni film misogini, in cui i protagonisti maschili esaltano l’uomo che si fa da sé come The Lonely Ranger, che prende spunto da un libro del 1915, divenuto nel 1933 show radiofonico, di cui si sono fatte otto versioni cinematografiche, l’ultima nel 2013. Zorro dal 1919 ha avuto 40 versioni che propongano la solita donna salvata da un maschio! Anche il misogino Sherlock Holmes creato nel 1887 ha usufruito di 120 adattamenti cinematografici con 7 diversi attori protagonisti.
Nella maggioranza dei film vengono ripresentate tre tipologie tradizionalmente stereotipiche: la donna giovane da salvare, la tentatrice che manipola i maschi e li conduce alla rovina e, con minor frequenza, la vecchia strega, dato che le donne anziane sono raramente protagoniste di un film. Nel 2011 nei 100 maggiori film ad alto incasso, le donne sono solo un terzo dei protagonisti e solo l’11 % dei protagonisti principali, e nonostante o film con maggiore equilibrio di genere incassino di più. Negli Usa è stato elaborato il Bechdel Test che esplora se in un film ci sono almeno due personaggi femminili che hanno una conversazione che non verta sugli uomini. La maggioranza dei film fallisce test per cui i film raccontano raramente storie in cui le ragazze trovino modelli femminili positivi a cui ispirarsi.
Per fortuna con Internet sono accessibili anche i film di registe che propongono donne diverse da quelle presenti nei film d’azione ad alto tasso di violenza che vanno per la maggiore. Nel mio libro Amarsi da grandi (2010) documento come esaminare i nostri romanzi mediatici generazionali (i film, i cartoni animati, i programmi tv visti nella prima adolescenza) e personali (i film, cartoni animati, siti, social networks di cui ci cibiamo quotidianamente) e scegliere di cambiare le nostre abitudini mediatiche possa diminuire la propensione all’uso dei vari tipi di violenza nei rapporti intimi (nota 7).
Noi donne dobbiamo dunque fare un maggior sforzo per produrre e diffondere anche tramite i nuovi media, narrazioni che aiutino a cambiare la cultura dominante, che perpetua la glorificazione della violenza in tutti gli ambiti nel privato e nel pubblico. Abbiamo problemi urgenti da affrontare, come le guerre che imperversano in Afganistan, Somalia, Sudan, Libia, Iraq e Siria, la difficile situazione di rifugiati e migranti, il terrorismo dilagante, le guerre di religione, il divario tra ricchi e poveri, giovani e anziani, e il peggioramento del nostro ambiente. Tutti questi temi sono già presenti in molti articoli di effe, che li guardano però da un’ottica femminista, e pertanto propongono soluzioni molto diverse da quelle che i nostri vertici politici e mediatici offrono oggi.
Io spero che questo sito fornisca non solo un archivio storico, ma promuova anche iniziative di riflessione e di lotta per uscire dallo sconforto individuale e collettivo in cui oggi molte di noi vivono. Dobbiamo ritrovare l’entusiasmo e la voglia di cambiare in meglio insieme – donne anziane e giovani, nonne e nipoti – che traspare da molte pagine di effe e ritrovare la gioia di vivere che sperimentavamo allora in una decade pur colma di crisi pubbliche e private!
Note
1) World Economic Forum Report (2014). Accessibile on line www.World Economic Forum official site.
2) Muise A, Christofides, E. e Desmarais, S. (2009), “More information than you ever wanted: does Facebook Bring out the Green-eyes monster of Jealousy?”, in Psychology and Behavior , Vol. 12, n° 4.
3) Francescato D., Mebane M. (2011), “Donne politiche” in P, Catellani e G. Sensales (a cura di), Psicologia della Politica Raffaello Cortina, Milano, pp.253-270; Francescato D. (2009), “‘Le fuori casta’ potranno salvare l’Italia? Potenzialità e problematiche della rappresentanza femminile in politica”, in Psicologia di Comunità, 5, 1, pp. 27-44
4) Mebane M. (2008) Psicologia delle pari opportunità, Unicoepli, Milano; Pietrafesa E., Brunetti C., Castriotta M. (2013), Lavoro, sicurezza e benessere femminile, INAIL, Milano, Dicembre 2013; Roberta Carlini (2015), Come siamo cambiati, Laterza, Bari.
5) Valentini C. (2012), O il figli o il lavoro, Feltrinelli, Milano; e Pietrafesa et al., 2013 op.cit.
6) Laurie P. (2014), Unspeakable things. Sex, Lies and Revolution, Bloomsbury, New York,
7) Moss T. (2014); The fictional woman, Harper and Collins, Sidney
7) Francescato D. (2010), Amarsi da grandi, Mondadori, Milano; Francescato D. (2012), Quando l’amore finisce III edizione Il Mulino Bologna; Saraceno C., Naldini M. (2008) Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna.