polemiche
dono d’amore o forza lavoro?
Perchè ostinarsi a chiamare le attività domestiche lavoro? E se il lavoro domestico non fosse lavoro? A questi interrogativi di Paola Piva e Ritanna Armeni su ORSAMINORE non riesco a rispondere se non con dei controinterrogativi: E perchè mai non dovremmo chiamarlo lavoro? Perchè mai dovremmo ritornare ad una concezione antidiluviana del lavoro domestico come incoercibile bisogno interiore di dedizione e di sacrificio da parte dell’essere femminile? Solo perchè le autrici scoprono che questo bisogno potrebbe essere trasferito (ma con quali mezzi?) anche all’essere maschile? Solo perchè il lavoro extradomestico (soldi a parte) può rivelarsi ancora più insopportabile di quello casalingo? Solo perchè le autrici scoprono che il “fare domestico” può anche regalarci dei momenti di gioia, che imboccare un bimbo è un piacere (però, che fortunate, non devono mai aver avuto a che fare con figli disappetenti!), che fare una torta può essere creativo, che dopo una faticosa giornata di lavoro fuori casa non possiamo fare a meno di lavorare anche in casa per fruire di un cibo decente e di un letto pulito e di un minimo di confort, che anche le donne professionalmente affermate qualche volta fanno a meno di delegare a terzi qualche mansione domestica? Ma chi ha mai definito come lavoro solo le attività particolarmente afflittive e repellenti, esclusivamente determinate da una costrinzione esterna, magari dalla frusta dell’aguzzino che si abbatte ogni dieci secondi sul malcapitato lavoratore?
Se così fosse, vivremmo in un mondo di fannulloni. Invece ogni datore di lavoro sa benissimo che è opportuno lasciare al lavoratore dei margini di libertà, di creatività e di responsabilità, così come ogni lavoratore tende a cercare nel lavoro la possibilità di un minimo di soddisfazione e di realizzazione di sé. Questo compromesso fra necessità e libertà, fra autonomia e coercizione esiste in quasi tutte le attività umane, anche se in misura diversa: fra l’artista e il mecenate, fra il committente e l’artigiano, fra il padrone e l’operaio. A maggior ragione esiste per il lavoro domestico, anche perchè si tratta di un lavoro di relazione con esseri umani, che facilmente comporta un coinvolgimento affettivo. Ma anche lo schiavo domestico si affezionava al suo padrone, così come l’insegnante si affeziona ai suoi allievi e l’infermiere ai suoi malati. Ma nessuno mette in dubbio che si tratti di attività più o meno eterodirette, proprio perchè consistono nel riprodurre altri esseri umani secondo mezzi e finalità estranee al lavoratore stesso, non determinate da lui e la cui logica gli è spesso estranea, quando non gli è addirittura contro. Analogamente le condizioni dell’esser donna non sono determinate da una naturale inclinazione, ma dal proprio dislivello di potere con l’intera organizzazione sociale, che si alimenta insaziabilmente di questo enorme flusso di amore-lavoro tutto a senso unico, in cambio del quale non è disposta a darci, in media, nulla più di una sopravvivenza con scarse possibilità di autodeterminazione reale e di rapporti affettivi meno determinati dalle esigenze dell’economia. Né la situazione cambia molto con l’assunzione di un secondo lavoro retribuito, che vuol dire anche meno forze e meno tempo per lottare contro entrambi gli sfruttamenti. Occorrerebbe perciò riuscire ad imporre una revisione anche teorica del rapporto fra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro, fra erogazione di forza-lavoro e riproduzione della forza-lavoro stessa, per cui mi sembra fondamentale che come donne ci si riconosca come il principale soggetto del lavoro di riproduzione, uscendo da ogni dimensione intimistica, per avere il potere di contrattarne le condizioni complessive, in casa e fuori. Oggi che perfino dall’interno del sindacato si leva qualche timida affermazione circa la necessità di una revisione anche teorica del rapporto fra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, fra erogazione di forza lavoro e riproduzione della forza lavoro stessa, mi sembra fondamentale riconoscerci in quanto donne come il principale soggetto politico. Questo tacere delle autrici di fronte al problema dei rapporti di potere svaluta persino la parte finale dell’articolo, pur ricca di felicissime intuizioni, in cui si afferma che la nostra qualità di detentrici della professionalità e dignità culturale delle attività domestiche ci pone anche come soggetti privilegiati di una cultura del cambiamento, per un miglioramento reale della qualità della vita. Ma questo non sarà possibile fino a quando questa cultura e professionalità continuerà ad essere così largamente negata e svenduta, in casa come nei posti di lavoro esterno: uffici, scuole, ospedali, ecc.
Nessuna di noi si augura, credo, una società di soli servizi sociali. Inoltre bisognerebbe parlare della qualità di questi servizi e il discorso sarebbe lungo. Si pensi, ad esempio, alla progressiva scomparsa di sempre più posti di lavoro nell’industria e alla sempre crescente massa maschile in caccia affannosa di posizioni di prestigio e di potere nel settore dei servizi, con conseguente tendenza a una crescente burocratizzazione e irregimentazione della nostra vita.
Perciò vedrei anch’io con favore l’emergere di nuovi modelli di organizzazione sociale, di nuove forme di autogestione, cooperazione e socializzazione dei bisogni di cui parlano le autrici e di cui già esiste qualche modello fuori d’Italia.