1975: anno della donna?
il femminismo governativo
Il femminismo, ormai, è esploso. Da movimento” underground” è diventato un” fatto” culturale e politico con cui nessuno, oggi, può evitare di fare i conti. Lo stesso” Anno della Donna”, proclamato dall’ONU, è un implicito riconoscimento che il sistema non può esimersi dal dare una risposta alla questione femminile. Ma la risposta del sistema — non facciamoci illusioni — è la strategia del recupero, di cui l’operazione-donna frettolosamente varata dall’ONU non è che un episodio. Il pericolo maggiore che oggi deve affrontare il” femminismo rivoluzionario” è proprio questa manovra di riassorbimento, questo appropriarsi delle tesi femministe per restituirle, stravolte e manipolate, al grosso pubblico. La conferenza sulla Donna a Città del Messico, due mesi fa, è stato un esempio addirittura sfacciato di questa tattica. Persino le fasciste cilene, all’occasione, si sono spacciate per femministe «lo non accetto la condanna fatta al Cile — ha detto Alicia Ramon, capo delegazione del governo Pinochet — perché in quanto donna non ho partecipato alla storia e perché questa condanna è fatta in termini di politica maschile». Alla faccia dell’«innocenza storica» delle donne La lezione di Città del Messico, secondo molte di noi, è che è giunto il momento di fare chiarezza: oggi più che mai c’è bisogno di femminismo, ma non di quello propinato per tale in Messico. Dobbiamo riaffermare con forza, sulla base di analisi rigorose e nostre (non imposte da interessi estranei) che cosa intendiamo per femminismo. E’ il compito che oggi ci spetta, il lavoro da fare insieme. Analizziamo qui la conferenza dell’ONU, come contributo al dibattito su questi problemi.
analisi di una conferenza
La conferenza di Città del Messico era divisa in due parti, secondo gli ormai collaudati canoni Onu: un convegno ufficiale e una tribuna parallela, aperta (in teoria) a tutti.
Al convegno ufficiale che si svolgeva a Tlatelolco (la famosa piazza delle tre culture) hanno partecipato 1870 delegati di 133 paesi: donne, per la maggioranza, capovolgendo la tradizione delle assisi ONU in cui le donne quasi non compaiono. Il presidente della conferenza, però, era un uomo, Pedro Ojeda Paullada, procuratore generale del Messico: ci vuole sempre un uomo, lassù in cima, per tenerci a bada. Premio di consolazione, tuttavia, il segretariato della conferenza, assegnato a Helvi Sipila: unica donna che, all’ONU, abbia incarichi di questo livello. Comunque non pericolosa: progressista, aperta, ma certo non femminista. Disposta a fermarsi laddove il sistema traccia la linea rossa da non oltrepassare, pena l’esilio e l’esorcismo. Addomesticata, dunque, e del tipo più sicuro per l’establishment: cioè in buona fede. Le delegate, tranne qualche eccezione, erano portavoci dei loro governi: donne, invece che uomini, ma pur sempre legate alle strategie decise altrove e certo non da loro.
Il discorso fatto alla conferenza ufficiale è stato quindi un discorso di paesi, non di donne.
Durante la conferenza, ogni paese ha espresso la sua ideologia e le sue convinzioni politiche, infarcendo il proprio discorso con considerazioni d’obbligo sul tema e quasi invariabilmente presentandosi (Cile di Pinochet compreso) come il campione della causa femminile. Secondo i rituali Onu, i delegati lavoravano in commissioni: questa volta ce n’erano due. La prima esaminava il Piano d’Azione, elaborato in precedenza dalla segreteria dell’ONU con l’aiuto di un comitato consultivo internazionale: constava di circa 200 paragrafi, scritti nel nebuloso e burocratico codice dei convegni ufficiali. Una seconda commissione si è occupata della «partecipazione della donna al rafforzamento della pace internazionale e all’eliminazione del razzismo, dell’apartheid, della discriminazione razziale, della dominazione straniera e dell’acquisizione dei territori mediante la forza». Infine c’era l’assemblea plenaria alla quale, a turno, ogni paese rivolgeva un discorso sull’argomento e che ratificava gli emendamenti proposti dalle due commissioni, cioè dava la forma finale al piano d’azione.
All’ombra di questo marchingegno, persa tra i commi e i paragrafi, esorcizzata da un linguaggio il più possibile asettico, come poteva la esplosiva realtà della questione femminile nel mondo imporsi con forza, prender vita? E infatti, giustamente, alle donne — quelle che passavano in autobus, a Città del Messico, occhi neri diffidenti e bambini aggrappati al collo, davanti a Tlatelolco, quelle che vivono la realtà dell’oppressione femminile e non lo sanno, i milioni e milioni di donne senza voce, senza potere — di questa conferenza non importa un acca, ammesso che sappiano che c’è stata. Per loro niente cambia. I governi hanno «fatto presenza», svolto il compitino: quelli più diligenti, più attenti o quelli in cui la questione è, per condizioni storiche e non certo per grazia di tavole rotonde, ormai matura, faranno qualcosa, passeranno qualche legge (vedi la Svezia, la Francia). Per gli altri, rutto si esaurisce con celebrazioni e rituali, officiati da zelanti sacerdoti (o sacerdotesse, ma non cambia molto) del potere consacrato. Le masse delle donne, le loro esigenze, il potenziale rivoluzionario del movimento delle donne sono stati accuratamente tenuti fuori dai lindi recinti dell’ONU. L’interesse reale della conferenza ufficiale, dunque, non risiedeva in quel che veniva detto sulla donna, ma nel gioco degli equilibri tra i vari paesi e i vari blocchi, gioco che si snoda attraverso le conferenze dell’Orni con le sue regole e il suo codice, decifrabile solo dagli addetti ai lavori.
Qui in Messico si è rafforzata la posizione dei paesi del Terzo Mondo, che già si era andata imponendo a Bucarest lo scorso anno. Sul tema specifico era una posizione corretta, che lega il problema della liberazione della donna a quello della liberazione dalla fame, dalla miseria, dallo sfruttamento; che mette l’accento sulla necessità di un nuovo ordine economico, in cui sia liquidato il sottosviluppo e le forze che lo determinano, quindi lotta all’imperialismo, al neocolonialismo, allo strapotere delle multinazionali. Questa tesi riassunta nella cosiddetta Declaracion de Mexico, approvata alla fine della conferenza con 89 voti a favore, 2 contro e 19 astensioni, ci trova in linea di massima consenzienti. Accettabili anche gli obiettivi fissati dal piano d’azione che i governi dovrebbero impegnarsi ad attuare nei prossimi cinque-dieci anni: lotta all’analfabetismo (che colpisce il 40,9% delle donne rispetto al 28% dei maschi), uguale trattamento sul lavoro e maggiori possibilità d’impiego, riconoscimento del valore economico del lavoro domestico, programmi di ogni tipo per integrare la donna nello sviluppo socio-econominco dei vari paesi. In sé e per sé, impegni lodevoli. Peccato che siano privi di significato reale.
Infatti la strategia dell’ONU pecca all’origine: 1) perché ha indetto un anno della DONNA (si pensi a quanto ci sembrerebbe assurdo l’anno del Negro, o quello del Malato) assumendo così la donna come categoria, per cui la biologia è di nuovo vista come destino e viene implicitamente riaffermata l’inferiorità della categoria stessa (che necessita infatti, per migliorare le proprie condizioni, di aiuto esterno; basta leggere il piano per rendersi conto di quanto grondi paternalismo, seppur bardato di Buone Intenzioni); 2) perché chiedere che la donna venga «inserita nello sviluppo» senza mettere sul tappeto ‘che tipo di sviluppo’ (cioè che tipo di società) non risolve nulla. Per cui questa formula acquista un sapore ambiguo, polivalente, aperto a tutte le possibilità: quest’equivalenza di tutte le scelte equivale alla ‘non scelta’. La nostra scelta invece è chiara: inserire la donna nel capitalismo, in questa società patriarcale offrendole una fetta più grossa della torta non significa liberarla, perché l’essere umano non è libero all’interno di società che uccidono l’umano nella donna e nell’uomo. E neppure pensiamo — pur ritenendo che il socialismo sia la meta da raggiungere e la strada per liberare gli esseri umani, donne e uomini — che esistano oggi modelli di società socialista in cui l’inserimento della donna equivale alla soluzione della questione femminile: perché anche in queste società il socialismo è stato creato ‘ a misura maschile ‘, emarginando le donne, seppure molto di meno e con variazioni notevoli a seconda dei paesi. Una società, socialista deve essere costruita da donne e uomini in cui la donna non sia ‘ spinta ‘ ‘ inserita ‘ (il che implica sempre una sua posizione passiva) ma partecipi in prima persona e con piena coscienza alla trasformazione in senso socialista della società e al mutamento delle proprie condizioni all’interno di essa. Fallito l’obiettivo principale che era quello di individuare il problema nelle sue linee di fondo, la conferenza non poteva che sfaldarsi, come ha fatto, in una serie di stanche manovre, per approdare a raccomandazioni cartacee che lasceranno il tempo che trovano. Anche la Tribuna era stata organizzata in modo tale da rendere il più possibile innocua la questione: diretta da Marcia Ximena Bravo, una cilena trentenne residente in America e legata a filo doppio all’establishment, contava tra le organizzazioni finanziatrici nomi come la American Baptist Home Mission Society (una delle più conservatrici sette religiose dell’US A) la Gulf Oil Corporation, la Rockfeller Foundation, la Ford Foundation, la World Federation of Ukranian Women (queste ultime, copiosamente finanziate, hanno inscenato proteste in serie per la ‘ liberazione delle donne ucraine prigioniere in Russia’).
Costata 200.000 dollari (poco, anche la conferenza ufficiale ha avuto fondi miserini rispetto alle altre, riaffermando la propria condizione di conferenza di serie B, su un tema di serie B) è stata articolata in 191 riunioni: aborto, famiglia, lavoro, prostituzione, donna e sviluppo, donna e legge, donna e salute, donna e agricoltura etc. Questo ricorrere del termine ‘ donna ‘, accoppiato a tutto quello che lo scibile umano può offrire, riconferma l’ottica distorta degli organizzatori che vedono la donna come ‘ categoria ‘ (una categoria tra l’altro sfuggente, insidiosa, che ci si trova in imbarazzo a collocare). Ve l’immaginate una serie: negro e salute, negro e agricoltura, oppure ‘ operaio e popolazione ‘, operaio e pace ‘ o, addirittura, ‘ uomo e salute ‘, ‘ uomo e agricoltura ‘ etc! L’assurdità risulterebbe evidente, immediatamente si coglierebbe il sapore del grottesco: ma per quel che riguarda la donna, no, pare naturale.
Alla tribuna hanno partecipato circa tremila persone, in maggioranza messicane (ma le femministe di Città del Messico sono state accuratamente tenute fuori fino all’ultimo giorno, quando abbiamo operato una ‘ irruzione ‘ congiunta per leggere il documento (pubblicato qui a fianco) e nordamericane (tra le nord americane si è dato preferenza alle associazioni femminili più o meno allineate con l’establishment e che comunque chiedono solo ‘ di più ‘ della stessa torta, non una torta diversa; i gruppi femministi marxisti sono stati scoraggiati dal partecipare, le ‘ rivoluzionarie ‘ femministe tenute il più possibile alla larga). Betty Friedan — irritante e patetica, avvolta in abiti da sera coloratissimi e intenta a recitare se stessa in una sequela di conferenze stampa e manifestazioni — ha fatto la parte del leone. O meglio, il sistema le ha permesso che lo facesse, perché l’immagine del femminismo, che le fa comodo è questa e perché questo è il femminismo che può fagocitare, riassorbire, addomesticare. Germaine Greer è venuta per qualche giorno e se ne è andata delusa. Per una decina di giorni si è andati avanti così: alla tribuna si è parlato e fatto di tutto (canti, danze, giochi, discorsi) in una confusione magari coreografica ma non certo produttiva mentre stampa e organizzatori davano ampio spazio alle ‘ leaders ‘ (che si prestavano a essere tali, contraddicendo una delle più valide posizioni del femminismo, che non riconosce leaderismo e gerarchie) di un femminismo annacquato e irrisolto, che annaspa tra lo Yoga e i canti di protesta, che si sperde in mille rivoli chiedendo un giorno una cosa (magari il papa femmina) un giorno un’altra, perché manca alla base un’analisi rigorosa della questione femminile. In larga parte, il femminismo americano è così. Ma non è solo così. Negli ultimi giorni, infatti, si è sviluppata da parte delle latinoamericane presenti, delle femministe messicane, di alcune di noi europee (dall’Europa eravamo purtroppo cinque o sei) una reazione verso questo tentativo di far passare la «visione del mondo» di Betty Friedan e Co. come il femminismo tout court. Le latino americane dopo una serie di accese riunioni, hanno passato il documento di cui pubblichiamo uno stralcio a nostro parere importante; le femministe americane che sono contro il sistema hanno redatto una ‘ dichiarazione di principi ‘ in appoggio a tale documento. E l’ultimo giorno, uno dopo l’altro, in un’atmosfera sempre più incandescente, (mentre gli organizzatori si affannavano a togliere l’audio, a strappare i microfoni alle latino-americane, a far sfollare le sale) questi documenti sono stati letti e noi europee ci siamo associate. Moltissime donne presenti si sono alzate ad applaudire, a gridare il loro consenso, a discutere.
I documenti sono stati letti anche ad una conferenza stampa: pochi giornali li hanno riportati (così come sono stati censurati tutti gli interventi delle femministe di Città del Messico sull’anno della donna), alla conferenza ufficiale hanno cercato di sminuire quella che è stata una vera e propria ‘ presa della tribuna ‘. Questo tipo di femminismo imbarazza il sistema: non è facilmente addomesticabile. Anche a Città del Messico, dunque, abbiamo ritrovato le due anime del femminismo, quella di stampo nordamericano —che in fondo non mette in discussione il sistema — e quello ‘ rivoluzionario ‘ — che vuole il radicale cambiamento del sistema —.
cavalcherò la tempesta
domerò le onde
sterminerò i pescecani
metterò in fuga il nemico
per salvare il nostro popolo
non accetterò il destino delle donne :
di chinare il capo come concubine
(contadina vietnamita, 300 D.C.)
the missing half woman 1975
L’evoluzione della condizione femminile nelle campagne, quando la società rurale viene investita da un processo di trasformazione e di sviluppo, costituisce un argomento che sinora era rimasto praticamente inesplorato. Anche gli studi esistenti sulla condizione della donna nelle campagne avevano infatti trascurato l’aspetto dinamico, limitandosi a mettere in luce come si trovasse accentuato nelle società rurali il confinamento della donna in ruoli subalterni ed in cui il lavoro è particolarmente pesante.
A colmare questa lacuna dà oggi un primo contributo lo studio condotto per la FAO da Daniela Colombo e Gloria Lopez Morales. Da una molteplicità di esempi tratti da tutti i paesi del mondo ma principalmente da quelli sottosviluppati, dove più radicali sono le trasformazioni introdotte nei modi di produzione agricola, risulta evidente che il tentativo di aumentare la produttività attraverso la meccanizzazione o altro del lavoro rurale soffre di una significativa distorsione: lo sforzo si concentra cioè su quella frazione del lavoro rurale che è tipicamente maschile, senza tener conto del fatto che questo è appunto «solo una frazione e che adesso si accompagnano una serie di operazioni complementari che sono in genere riservate alla donna. E quando, grazie alla meccanizzazione e all’introduzione di nuove tecniche si aumenta la capacità di produzione, a parità di sforzo, del lavoro maschile, nessuno si preoccupa del fatto che in assenza di miglioramento delle tecniche del lavoro femminile, il carico riservato alle donne risulta puramente e semplicemente moltiplicato. Un nuovo criterio per valutare i progetti di sviluppo viene quindi ad essere auspicato: questi dovranno tener conto
non solo del diverso impatto sulle differenti classi sociali ma anche sui due sessi.
Questa pubblicazione, in cinque lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo e arabo) è il contributo della FAO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura e la fame nel mondo) all’Anno Internazionale della Donna ed è l’unica tra le pubblicazioni ufficiali che tratta i problemi dello sviluppo con un’ottica femminista.