cara mamma

settembre 1977

Cara mamma, ti scrivo per provare a dirti delle cose. Quelle che non ti ho mai detto, che non mi sono mai uscite fuori e che il mio stesso volere non è riuscito a sciogliere e a far fluire fino a te. È con sollievo che scrivo. Qualcosa è stato sepolto per sempre e la sua assenza mi permette nuove avventure come questa di parlare di me con te. È il tuo corpo, non tu. Non sono ancora andata a trovarlo da quando lo abbiamo portato là. Non ne sento il bisogno. Tu sei presente come prima, meglio di prima, perché ora non ho più da dimenticare e non faccio più fatica a ricordare le mille parole, i battibecchi, le critiche, le sgridate, gli incitamenti, le confidenze e tutto quanto è corso tra noi. Corso con una velocità incredibile a ripensarci ora che le battute hanno un ritmo così diverso, non cristallizzato o irreale ma più fuso all’interno di un nuovo equilibrio, il mio. Solo ora, senza il tuo corpo in mezzo questo è possibile. Il tuo corpo è stata violenza. Lo sapevo da prima, l’ho sempre sentito così. Ho aspettato questo momento da quando ho capito che la morte è eliminazione. Non da un giorno preciso, da un periodo determinato. Non so se cambiò il tuo modo di trattarmi o il mio di interpretare i tuoi gesti. Probabilmente cambiammo entrambe. Continuammo a riversare parole addosso all’altra come credevamo che lei fosse o che dovesse essere, cercando disperatamente di convincerci a vicenda del come doveva o poteva essere tra noi. Forse il fatto che non corrispondevamo mai ai bisogni e alle attese dell’altra costituiva pretesto permanente e valvola di scarico per i nostri malumori. Soprattutto per te che stavi tanto in casa e anche quando uscivi frequentavi sempre lo stesso ambiente in cui nessuno cambiava da almeno vent’anni.
Il concentramento di ostilità davanti a cui venivo a trovarmi non mi dava tregua. Alle volte durava senza interruzione per dei mesi. Ti parlo di me perché so che di te ricordi tutto, per quella meravigliosa memoria ohe pare tu mi abbia trasmesso. Ricordo la sera in cui, nel sedicesimo anno di convivenza, per un ulteriore fatto che entrava nella mia logica ma era fuori dalla tua hai deciso di non parlarmi più. Per sei mesi questo è avvenuto, è durato. Cosa sia costato a te non posso immaginarlo. Pace? Inferno? Interruzione di una lotta no. Una volta durante questi mesi di battibecco tra mia sorella e me tu le hai detto: «Fai come me, fai come se non ci fosse».
Ricordo i miei stati d’animo; passavamo senza sosta dalla sensazione della vittima sacrificata a quella del colpevole privo di ogni misura, causa di ogni male, di ogni conflitto. Questa altalena tra agnello e lupo mi ha lasciata sempre stanca, esaurita, bisognosa di essere notata fuori dalla famiglia e dimenticata dentro. Dentro in casa infatti desideravo scomparire. Non per sempre certo ma per il tempo necessario a capire, a cambiare qualcosa di me, a rendermi più accettabile a me stessa e agli altri.

Ti ricordi quante volte mi hai cercato per quelle stanze senza trovarmi? Mettevi a soqquadro tutto, spostando persino gli oggetti e gli indumenti fuori posto: ti sentivo dire: «Gabriella, Gabriella, dove si sarà intanata?» Io sparivo nel grande armadio degli abiti e delle coperte fuori stagione. La mia esilità mi aiutava. Ero lunga sottile nervosa, cominciavo a scoprirmi, ad amarmi e a temere i miei difetti. Questi, per ogni abito che mi cucivi o mi compravi, ti rendevano insoddisfatta non del vestito ma di me. Ricordo ancora l’occhio critico che mi forava le spalle insieme agli spilli che prendevi dalle labbra strette e che appuntavi al vestito «per stringere un po’ qui, prendere in dentro lì». È la prima volta sai che ricordo queste cose senza un moto di ribellione, di ansia. Noi ci siamo amate, su questo non ho dubbi, anche se non mi baciavi mai nemmeno alle partenze, anche se nella mia memoria non sono presenti né abbracci né affettuosità. Da qualche giorno questa lettera si è interrotta. Come cambia il senso della memoria! In questi tre giorni si è dissolto il bisogno di parlare delle cose passate, di esaminarle, di spiegarle. La luce in cui sono proiettata è cambiata, anche i loro colori sono senza vita. Tutto è giallo e grigio. Il nostro comune passato è divenuto opaco? Così in fretta? Una cosa mi sta premendo al petto, alle guance, alle braccia. È come un peso, no è come un vuoto: è qualcosa che preme davanti e nulla ho dietro a cui puntellarmi per difendermi. Ho voglia di sentirti. Ho voglia di essere abbracciata e di abbracciarti. Mamma aiutami. Non sapevo. Mi manca il tuo tepore. Non sapevo di averne ricordo. Non mi hai mai abbracciato né mi hai mai invitata a farlo. Ho sempre creduto che ci fosse poco affetto tra noi. Che meno ci si vedeva meglio era, che c’era poco da dire perché le differenze e le incomprensioni sono nella storia delle generazioni ed è inutile combatterle nel particolare. Mi accorgo di quanto tu sia stata presente e quanto pieno sia stato il nostro rapporto. Perché ho sempre pensato che non c’era, che era vuoto? Che tu non mi davi affetto? Non mi amavi nemmeno? Sono stati i tuoi lunghi silenzi? Quei musi che ancora ricordo con lo stomaco chiuso? L’ossessione del tuo giudizio che mi faceva desiderare di diventare trasparente dove eri .tu e silenziosissima nella stanza accanto? Voglio ricordare, capire, sapere, tornare indietro e trovare il perché di questo nostro rapporto non compreso, perché questa ambiguità della realtà, queste cose capite troppo tardi. Quando ero piccola erano già pochi i gesti di affetto tra noi. Mi prendevi sulle ginocchia alle volte quando volevi neutralizzare i miei capricci davanti al cibo quotidiano. Al primo cucchiaio avevo l’impressione di avere ottenuto delle cose. Al terzo sognavo già ohe il piatto si vuotasse da solo e che il cucchiaio non fosse sempre pieno puntato contro le mie labbra. , E quante volte ho lottato per rimandare il momento di andare a letto. Era la cosa che ti divertiva di più. Di fronte ai miei tentativi, alle mie ragioni, ai miei strilli alle volte tu scoppiavi a ridere. Fragorosamente. L’avversario ti piaceva e la tua bocca candida illuminava all’improvviso la tua persona alta e scura. Prendevo fiato e forza, mi accorgevo che tu mi stavi stimando. Avrei voluto continuare a sentire questa stima, ma non sembrava possibile, non facevo mai abbastanza da guadagnarmela definitivamente. Questa impressione di essere sempre in prova è stata un’ossessione e mi ha accompagnata per anni tra la gente e facendomi sentire al centro di un’attenzione che non esisteva se non dentro di me.
Mi sentivo in balia di una «logica» indecifrabile e ostile di cui tu conoscevi le regole e non da sola. Infatti chiamavi gli altri a sostenere i tuoi giudizi, confermare le minacce. Cercavi con ogni mezzo di non farmi dubitare che quanto volevi da me era giusto. Forse difendevi anche te dal dubbio e cercavi conferma da me e dagli altri. Perché non ne parlammo insieme? Allora… tu volevi che io fossi uguale a te, parte di te e ohe i miei orizzonti fossero quelli da te circoscritti. Volevi sicurezza, chiedevi di essere rassicurata? Sulla vita passata? Su quella che veniva?
Per me non poteva essere così. Non c’erano ancora orizzonti. Tutto era infinito, attraente, da scoprire. Io avevo paura di te che conoscevo non dell’ignoto, paura di ciò che dicevi, non di ciò che poteva accadere. Così cercavo di dimenticare ciò che ero costretta ad ascoltare. Di tutti i discorsi che mi facevi intorno all’arrivo del mestruo e al suo significato oggi ho impressioni fumose. Quello che ricordo bene sei tu che sulla porta del bagno mi porgesti una pezza di lino piegata come una benda. Nella penombra sembravi di un solo colore. Dicesti a mezza voce «davvero?» E senza attendere che ti rispondessi cominciasti a piangere piano. Su chi? Su ohe cosa? Rivivevi un miracolo o una maledizione? Il codice che tu cercavi di farmi entrare mi sembrava di ferro, mi faceva male da tutte le parti, non riusciva ad arrivare dentro.
Dentro c’era l’amore per la vita e la gioia di essere viva. Di questo, nono-
stante tutto, ti ero grata allora come oggi. Amavo il mondo intorno a me, anche le pietre ohe prendevano calore dalla mano e me la lasciavano un po’ più fredda. Questa interazione la vivevo come un rapporto. Solo tu volevi lasciare la tua impronta su di me senza accettare di prendere qualcosa in cambio.
Ma la mia ribellione, violenza in più che ti è stata fatta, la dovevi prendere anche se non la accettavi, anche se non volevi che ci fosse. Quindi non volevi che ci fossi io. Il mio modo di essere ti disconfermava come madre, come donna, in tutto ciò che tu avevi imparato ad essere.
Che io sia uscita da te non è per parte mia molto importante. È importante invece che io sia stata a te consegnata. Questo fatto l’abbiamo sentito profondamente entrambe. Per te credo che fosse una promessa di potere, la certezza di rimandare la morte di una vita, la possibilità di lasciare attraverso qualcuno tracce di sé. Certo non avrò mai la misura delle frustrazioni che ho alimentato in te. Non ti seguivo. Prima coi capricci poi con le disobbedienze e le risposte manifestavo la mia indocilità, la mia indipendenza. Tu reagivi. Mi sculacciavi ‘poi mi bai schiaffeggiato. Le tue mani erano dure pesanti. Lasciavano sempre il segno. L’impotenza che ti prendeva davanti alle mie ribellioni provocava sempre un gesto di forza e tu mi picchiavi. Eri la più forte. Non potevo che uscirne sconfitta e più conscia del ricatto che c’era alla base del nostro rapporto e dello stato di necessità in cui ero. Potevo amarti? Potevo accettare di amarti? La quasi totalità dei miei bisogni veniva soddisfatta da te, ero in tuo potere, a tua discrezione e tu apparivi provvida, attenta, generosa. Prevedevi e prevenivi qualunque necessità. Mi circondavi di tutto il conforto materiale dipendente da te ma a un patto, che io fossi tua. Che rinunciassi a me stessa, alla mia volontà, a una qualunque scelta non controllata da te.
Se io mi abbandonavo, era chiaro, avrei avuto molto più di quanto.chiedevo, di quanto avevo. Ma abbandonarsi è un gesto di fiducia ohe non è spontaneo, si impara. Disubbidivo. Sentivo dirti in mille modi e in mille momenti «testona!». Quando ero ripresa difficilmente mi correggevo e solo il timore di una reazione molto violenta mi piegava. Sempre solo in apparenza, mai convinta di quello che tu sostenevi fosse «il mio bene».
Tra i due beni, quello visto da te, quello visto da me, non c’era solo l’esperienza di tutta la tua vita e il mio egoismo di adolescente, non solo la storia che trasforma fino a rendere irriconoscibile tutto anche nell’arco di una generazione.
C’era la volontà ferma ferrea di rendermi uguale a te venti o trenta anni dopo facendomi inghiottire il più possibile di ciò che avevi digerito tu. Il mio rigetto era continuo.
Quelle parole che si sentono così spesso dire in giro «se potessi tornare indietro con l’esperienza di adesso!», tu le mettevi in pratica attraverso me. Tornavi indietro nella mia persona. Non c’era niente da capire, niente da tentare, dovevo solo impadronirmi di tutto quello che tu con generosa fermezza mi mettevi a disposizione. Dunque «Perché intestardirsi? Perdere tempo? Le cose si fanno così? Perché andare per un’altra strada? Me se te lo dice tua madre?». Furono il ritornello della mia adolescenza e degli anni dopo. Hai fatto di tutto per trasmettermi il messaggio che a tua volta ti era stato consegnato. Ma il tuo sforzo è stato bilanciato e indebolito non solo dalla mia indole… anche i tempi mi hanno aiutata, anche se non abbastanza o almeno in modo non definitivo. Mi hai promesso spesso, uscendo dalla mia camera alla fine di quelle discussioni che lasciavano me seduta sul letto stanca e amareggiata «capirai quando avrai dei figli…». Sembrava anche una minaccia ma credo che tu abbia ragione. L’atroce miracolo della maternità, i suoi squarci, le angoscie, le stesse sopraffacenti ondate di affetto uniscono tutte le donne. Capirò dunque quando avrò dei figli? Cosa mi importa se capirò soltanto il passato?
Voglio capire mia figlia mio figlio da quando li avrò.
Non voglio essere violenza, non voglio essere cercata e trovata nei ricordi quando il mio corpo non c’è più. Soprattutto ora. Ora che i tuoi occhi verdegrigi mi tornano senza comandi, senza ostilità e vedo muoversi le .tue mani forti e capaci di qualunque abilità senza temerle. Odo la tua risata fresca e piena di una ironia a cui ho assistito senza incontrarla e il fruscio delle gonne ampie e leggere che portavi d’estate che m’insegna come oggi portare le mie non mi fa più sobbalzare; soprattutto ora che conosco quanto ho perduto per non aver saputo ohe ti amavo, per non aver capito che mi amavi.