uscire di casa, fare, indignarsi, combattere

gennaio 1981

 

La situazione per le donne può evolversi in direzioni diverse: nel senso del recupero, in chiave consolatoria,

di rapporti sociali e familiari… oppure in direzione di un apertura: stare insieme, scambiandosi un’intimità difficile anche nei paesi.

 

Il telegiornale della sera, quella domenica di novembre, annunciava ’’alcune scosse sismiche, di natura molto estesa. Pochi feriti, danni in molte città del Sud”.

In me, che quella scossa l’avevo percepita chiaramente nella mia casa al pianterreno di Roma, una sensazione di sollievo. Eppure, mi era parso che il lampadario oscillasse a lungo. Il giorno dopo, un tuffo nell’orrore più puro: qualcuno, come per caso, si direbbe, si era accorto che interi paesi erano scomparsi dalla faccia della terra. Le immagini di allucinazione hanno cominciato a susseguirsi alla televisione, sui giornali: la terra rovesciata, le crepe sulle strade, i morti, i sepolti. Soprattutto, l’indignazione, tanta indignazione da gridare. Come era possibile che si continuasse a morire lentamente, sotto le macerie, che i paesi di montagna fossero isolati, che la gente fosse costretta a scavare con le proprie mani i morti, i feriti. Possibile che questo Stato, in cui certamente non abbiamo mai avuto fiducia, fosse così totalmente inesistente, incapace, efficiente solo nella rapina. Forse perché sotto quelle rovine avrei potuto esserci io, quelli che amo, o forse il senso di un’ ingiustizia che si rinnovava — il terremoto nel sud, come se gli altri guai, l’abbandono, la disoccupazione, l’umiliazione di sempre non bastassero: questa volta non potevo rimanere indifferente.

Questa volta bisogna uscire di casa, fare, indignarsi, combattere.

In quei primi giorni dal disastro, un susseguirsi di telefonate ansiose: sì, anch’io ci ho pensato…, come si può fare, però… con chi si può andare giù?

Martedì sera, la chiamata decisiva: noi andiamo con la Cooperativa, so che tu verresti, si parte domattina o dopodomani. Siamo una ventina, ma c’è solo un’altra donna. Giovedì sera, Brienza, Lucania. Le case sono in piedi, il paese è invaso da militari che sciamano dai caffè: in un’angosciosa serata piantiamo le nostre tende e oi chiediamo cosa ci stiamo a fare, se la catastrofe non c’è.

La mattina il terremoto appare. Ragnatele di crepe sui muri, i tetti sfondati, i garages freddi che si aprono sul panorama di letti in cui si dorme in tre, in quattro con accanto un residuo di braci. Decidiamo di restare, ma abbiamo paura. Pensavamo di andare a scavare i morti, stare con i vivi è più difficile. Pensavamo di trovare solidarietà, oi illudevamo che nelle situazioni di emergenza si sviluppasse spontanea. Tutto più difficile, niente eroismi, niente solidarietà, solo il problema di rendersi utile in una situazione contraddittoria, dove le beghe ataviche e il malgoverno si mescolano con la malcelata ostilità verso questi ’’soccorritori” che sicuramente non possono ’’soccorrere” i mali di sempre. Portiamo tende e non case, cibo e non lavoro. Saremo come quei seicento soldati che non fanno nient’altro — loro malgrado — che dirigere il traffico?

Il muro di paura tra noi e questo paese indifferente che ci relega in un campo sportivo si riduce di spessore, lentamente, nelle cose: organizzare una cucina dove si prepara il primo pasto caldo a quattro giorni dal terremoto, montare le tende, che ci sembrano così inutili in  un paese dove tutte le case sono più o meno in piedi — solo dopo capiremo quanto questa impressione è sbagliata —, munirle di luce, perfino di stuftì — uniche tende riscaldate di tutta la regione.

In una cucina di tre metri per due, improvvisata in uno spogliatoio, facciamo conoscenza io e le donne del paese. E’ lì, e nei momenti della distribuzione di quello che non è un rancio, come si potrebbe pensare, ma un pasto preparato se non altro con cura, che imparo i loro nomi, che mi guadagno quel tanto di amicizia e di fiducia, per cui mi invitano attorno ai fuochi davanti ai garages. « Vieni a riscaldarti, signori ». Io, come gli altri. Con atteggiamenti differenti, forse, perché rappresento un ’’oggetto sconosciuto”, sono una donna strana, senza figli, senza marito, che pare poter prendere decisioni anche sugli uomini, qualche volta contro, una donna da trattare con confidenza, ma difficile da comprendere.

Nel terremoto, ho imparato a conoscere Vincenza, Antonietta, Cataldina e le altre, i cui mariti fanno i contadini, lavorano al Comune, riparano le strade, e le cui vite sono state sconvolte nel giro di una serata: le case nel paese sono quasi tutte inabitabili, o 9i ricostruisce da capo o bisogna andarsene. Ma loro, ormai lo sanno anche a Roma, di lì non si muovono.

A quella serata memorabile si accenna subito e in continuazione. Quattro, cinque, sei volte ho sentito ripetere: ti offro un caffè, ma il vassoio è sù, tengo paura di andarlo a prendere. Preoccupazione contadina ed ospitale, questi vassoi. Quando la terra si è mossa, stavano a casa, tutte: il marito guardava la partita in televisione, e loro sciacquavano i piatti della cena, facevano addormentare i bambini. Sono scappati tutti fuori, tra le case che ’’sembrava che ballassero” come dicono loro. Qui a Brienza ce l’hanno fatta, l’hanno scampata. Tutti, meno la vecchietta novantenne che stava già a dormire ed è morta nella stessa casa in cui i due bambini sono rimasti sepolti fortunatamente non a lungo, mentre la madre che è sorda li cercava tra le macerie senza poterne sentire le grida.

La notte all’addiaccio; loro, le donne, sono rientrate a prendere due o tre coperte nelle case in cui si sono aperte crepe paurose. Quasi tutte hanno portato via anche il baule in cui è nascosto il corredo delle figlie: le lenzuola, gli asciugamani senza i quali non ci si può sposare. Si meravigliano e ridono quando io dico che il corredo non ce l’ho. Adesso capiscono che ho la vocazione per fare la zitella, ma non condannano. Del resto, non condannano mai: tutto quello che accade appare ineluttabile, il marito emigrato, le case da rifare, i soccorsi che pur essendo arrivati in paese, sono bloccati dal comune, dal sindaco democristiano o chi per loro, in attesa evidentemente di essere distribuiti con i criteri clientelari di sempre. Santo terremoto, per chi governa, per chi ha i soldi, mi dicono, ed aggiungono l’elenco di tutti i paesani che hanno avuto senza averne bisogno — qui le merci desiderate sono di genere ’’bellico”: stivali di gomma, soprattutto, ed impermeabili, teli di plastica per ricoprire i tetti —. E del resto, delle loro rivalità mi ero già ampiamente accorta quando la distribuzione della minestra, se ”al mestolo” c’era una di loro alcune pentole andavano semi-vuote, altre straripanti. Le ho odiate, in quei momenti, senza capire che quelle loro rivalità sono modo di vita, quasi una maniera per aggrapparsi alla normalità, per superare la crisi.

Le ho odiate per le loro grettezze, ed amate per la generosità con cui, molto più degli uomini, si davano da fare per mandare avanti il campo. Arrivavano a gruppi, quando chiedevo una mano in cucina, venivano con me attraverso i campi — una casa franata bloccava la strada e ad un certo punto non si passava più neanche a piedi per andare al centro del paese — per ritirare le provviste, mi dicevano « riposati, che fai già abbastanza per noi » quando ero stanca, oppure « quanto siamo brutti » quando mi venivano a chiedere gli stivali per i bambini. Sempre loro a domandare, a ritirare il pranzo, a chiedere posti nelle tende che hanno cominciato a sovraffollarsi dopo che una notte la terra ha tremato di nuovo con violenza, svegliandoci tutti con il panico e il batticuore. Gli uomini, almeno io, in questo ruolo stretto di grande madre, non li ho visti: ce ne erano pochi, e quei pochi si aggiravano, nell’emergenza, senza sapere bene dove mettere le mani.

E del resto le uniche cose che sono rimaste in piedi, da gestire come sempre sono proprio i figli, la famiglia. Per queste donne, un’universo intero. Non che non conoscano il resto, ma appare ai loro occhi talmente nemico ed umiliante da scoraggiare anche quelle di loro che paiono più decise, meno aderenti al ruolo. M., ad esempio, che forse dai suoi capelli rosso fuoco eredita la sua determinazione, il suo ribellarsi estemporaneo, ma furibondo ai dettami delle società paesana, ma le cui uniche esperienze al di fuori della famiglia e del paese sono le degenze in clinica a Roma. Non è la sola. Più o meno tutte conoscono bene le corsie ginecologiche degli ospedali romani, le cliniche dove per 60.000 lire al giorno — escluse le cure — viene sanata la sterilità, il grande male e il grande spauracchio. Forse — non vorrei fare facili psicologismi — la grande ribellione.

Quanto il terremoto scuota consuetudini sociali e culturali è difficile dirlo. Certo, anche nei paesi in cui non ha distrutto tutto, ha sicuramente rotto gusci di abitudine. Drammaticamente, purtroppo, e non per libera scelta. La situazione, per le donne soprattutto, può evolversi in direzioni diverse. Nel senso del recupero, in chiave consolatoria, di rapporti sociali e familiari — del resto, come spiegare altrimenti l’alto numero di quelli, donne nella maggior parte dei casi, che frugano nelle macerie ostinatamente, per tirare fuori una cosa, una sola, quasi sempre di nessuna utilità: comunque un ’’mattone” attorno al quale ricostruire se stessi, una cosa in cui riconoscersi —. Oppure, in direzione di un’apertura — stare insieme, per le donne del nostro campo la nuova esperienza di cucinare in comune, scambiandosi un’intimità difficile anche nei paesi.

Io credo che molto dipende anche da noi, dalla solidarietà concreta, dalla presenza sui luoghi del terremoto, nella ricostruzione. di altre donne, di altre esperienze. Quali siano i modi di questa partecipazione è domanda da porci insieme: sicuramente strutture comunitarie di donne, nella gestione di quell’inelutta- bile momento di transizione alla normalità, che sono e saranno i campi di rou- lottes (ci auguriamo) e di prefabbricati, contro la gestione umiliante ed inefficiente dell’esercito e di Zamberletti.

Io so di sicuro che non voglio dimenticare. Quando siamo partiti, per lasciare posto ad altri che ci avrebbero sostituiti, mi hanno detto « perché non rimani con noi? ». In un certo senso è come se fossi ancora là.