l’utero è mio e lo gestisco io

maggio 1975

 

Il problema dell’aborto ha dato luogo ad una serie di incomprensioni se non di mistificazioni, soprattutto per quanto riguarda le posizioni femministe. Vorrei perciò rispondere ad alcune posizioni riportate dall’Espresso nell’articolo di Adriana Zarri del 23 febbraio ’75 (e il cattolico disubbidisce ancora) e nell’articolo di Daniela Pasti su il Mondo del 6 marzo ’75 (l’utero è mio ma non so più cosa farne). Lo slogan femminista sul quale si sono concentrate le critiche da parte sia dei cattolici, sia degli esponenti della borghesia illuminata, sia dei compagni della sinistra è «il corpo (o l’utero) è mio e me lo gestisco io».

Queste critiche hanno due origini: una serie di diversi pregiudizi, o più gravemente, il rifiuto di voler approfondire il senso profondo ed articolato di questo slogan. Nell’articolo della Zarri la critica allo slogan viene da una posizione cattolica che, pur giustificando la possibilità di abortire, afferma la prevalenza della socialità sulla gestione dell’individuo, e per quanto riguarda i suoi beni e per quanto riguarda il suo corpo: («se anche io affermassi che il mio ventre mi appartiene mi sentirei il padrone delle ferriere che dice la mia fabbrica mi appartiene»). E’ qui evidente una precisa matrice ideologica che, partendo da una concezione dualista della persona (corpo più anima) assegna solo all’anima il diritto-dovere di una completa «libertà di coscienza» — cioè di una libera gestione dell’anima da parte di se stessa — mentre la nega al corpo, il governo del quale è assegnato al mondo, al «sociale». Se la posizione cattolica ha una sua rigida coerenza, è più grave che la stessa posizione dualista della persona stia alla base della posizione di molti laici, i quali in termini espliciti o impliciti, sostituiscono il concetto di anima con quello di «ragione» e contrappongono quest’ultima, come realtà metafisica, al corpo.

Ma oltre a queste critiche di chiara derivazione ideologica, lo slogan femminista viene sprezzantemente citato anche da molti compagni e comincia a esser pronunciato con timore anche da alcune femministe.

E’ volgare, si dice — (come nell’art, del Mondo) ma questa volgarità non viene spiegata quasi fosse evidente di per sé. Vorrei tentare una interpretazione dei motivi «non detti» dì tale accusa. Una prima ipotesi è che l’accusa di volgarità riguardi non tanto lo slogan come strumento politico e di presa di coscienza, quanto la parola «utero» che ne fa parte; parola che per molti compagni dovrebbe essere usata solo scientificamente perché strettamente legata al momento del parto, momento che non fa parte, nell’educazione tradizionale, della nozione complessiva di maternità, ma che evoca invece solo doglie, dolore, sangue: fa schifo insomma; a differenza di parole come «fica», «cazzo» etc. che sono realmente volgari, ma che l’uso quotidiano, e la loro associazione al piacere sessuale, riscatta, nell’opinione corrente, dalla volgarità.

Questa associazione fra organi femminili e tabù sociali, che ormai agisce come un condizionamento inconscio, dimostra, una volta di più, che la condizione di inferiorità della donna, non è solo una manifestazione funzionale (o addirittura «organizzativa dell’assetto sociale») ma rispecchia anche la sua storica passività rispetto alla definizione dei modelli culturali, di cui i tabù sono una manifestazione.

Ma non è solo questo tipo di pregiudizi che determina l’accusa di volgarità, tanto è vero che la stessa accusa riguarda versioni linguisticamente più accettabili come «la pancia è mia e ci faccio quello che mi pare» (anche se nell’articolo dell’Espresso il tabù linguistico le ha fatto usare la parola «ventre» usata dall’ave-maria e non certo dalle femministe). Dietro a ciò c’è dunque un giudizio sommario sulla parzialità e scorrettezza politica dello slogan.

Chi vi si oppone non vuole contestare il principio che l’individuo deve avere diritto alla proprietà del proprio corpo. L’affermazione di tale principio è stata infatti un obiettivo centrale della lotta della borghesia contro il feudalesimo e della lotta contro la schiavitù. Nessuno troverebbe da ridire se un uomo dicesse «il pene è mio e ci faccio quello che mi pare». Ma mentre per l’uomo tale libertà è riconosciuta, almeno in linea di principio, anche se viene realizzato solo a livello di classe borghese e perde ogni suo contenuto nei casi limite, nei momenti di emergenza come guerre, servizio militare, o nei regimi istituzionalmente repressivi, tale libertà non è riconosciuta alla donna né nei fatti né in linea di principio. La non proprietà del proprio corpo è per la donna una realtà quotidiana che la colpisce fin dalla nascita. O nella esposizione continua a tutti i livelli del suo corpo come oggetto sessuale; o tutte le volte che rischia di diventare madre senza averlo voluto o senza averne avuto coscienza.

La lotta contro queste forme di espropriazione istituzionali del corpo della donna è quindi un «obiettivo politico» a pieno titolo, e la liberalizzazione dell’aborto come unico rimedio ad una maternità non voluta — che per il corpo della donna equivale ad una lesione fisica subita ed accidentale, esattamente come lo sarebbe una malattia — ne è la prima espressione in termini operativi. Ma vi sono alcuni compagni che vedono in tale lotta una scorretta e riduttiva analisi dell’oppressione dell’individuo da parte della società capitalista e che tendono a ricondurre perciò questo obiettivo in quello più vasto della liberazione complessiva dell’individuo in una società socialista. In questa ottica considerano lo slogan femminista uno slogan permeato da una concezione individualista: la società socialista andrebbe infatti considerata, nei suoi fini, una entità superiore anche alla proprietà del proprio corpo. C’è in queste posizioni, l’equivoco di fondo di confondere l’individualismo borghese con la concezione, questa sì ereditata dalla ideologia delle società borghesi, che lo «Stato è un’entità al di sopra delle parti» e che tale astratta collocazione va anche, e tanto più, riferita ad una «società» socialista.

Nessuna società può pretendere il controllo del corpo di tutti gli individui per i suoi fini; ma molti stati, e il nostro, controllano il corpo della donna e ne gestiscono la funzione riproduttiva, e il loro voler gestire la maternità al di sopra degli individui donne non è altro che voler costringere una parte della società ad una funzione fisica da esse non voluta. Significa imporre con la forza la propria divisione del mondo, e non imporla al nemico di classe (che questo sarebbe fare la rivoluzione) ma imporla ad individui in situazione di inferiorità sociale (e questo è repressione).

Questo dovrebbe essere ancora più chiaro per chi intende la società socialista in senso marxiano: una società in cui la produzione è al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio della produzione. Questo è un obiettivo fondamentale del comunismo, ed è alla luce di questo obiettivo che possiamo criticare (anche se con tutte le attenuanti storiche) alcune società socialiste. Laddove si propone alle donne di fare più figli per realizzare il piano di produzione ci nasce il sospetto che tale piano non sia realmente il prodotto di una scelta collettiva, di una reale socializzazione dei mezzi di produzione, ma sia prodotto di una «parte» della società. Ma va fatta inoltre una specificazione. Se per quanto riguarda il libero uso e controllo del proprio corpo, possiamo trovare molti concordanti, si può obiettare che parlare di utero significa parlare non solo di un elemento del corpo della donna ma anche della maternità, e quindi di un altro essere umano.

Va anzitutto chiarito che non è più possibile oggi accettare un discorso sulla

«ideologia della maternità» senza ridefinire i termini storici e senza eliminarne quelle componenti che discendono dalla storica condizione di inferiorità della donna (non c’è niente di misterioso e buio che avvenga all’interno della donna nel suo rapporto con il feto che si sviluppa, come sostengono la Ginzburg e con lei U. Eco. Buio e misterioso è solo quello che non si vuole illuminare; certo la donna ha infiniti motivi per non volere un figlio ad esempio, ma ciò non toglie che tali motivi possono essere volta a volta spiegati, e che uno di essi molto chiaro può essere semplicemente il non aver voglia di un figlio perché si ha altro da fare).

La donna infatti non è tenuta in condizioni di inferiorità da UNA ideologia reazionaria, ma tutto ciò che la riguarda è facilmente influenzato da una ideologia reazionaria perché essa si trova in condizioni di inferiorità. Alla base di una ridefinizione della maternità (questo miracolo della natura! questo istinto primordiale! questo «sentimento gigantesco»…!) sta anzitutto la necessità di ricondurla alle sue componenti materiali e sociali. Le condizioni materiali sono; la possibilità fisica che ha la femmina di tutti i mammiferi di dare vita a un’altro essere nel proprio corpo. Il processo materiale sta quindi nel funzionamento fisiologico degli organi genitali femminili, nell’incontro di questi con gli organi maschili, nel sano sviluppo delle condizioni di gestazione, nel superamento della difficile e rischiosa fase del parto. Alla fine di questo processo si ha, dal punto di vista materiale, un nuovo essere umano (nel caso della donna)che però dal punto di vista sociale non è ancora un figlio. Per diventare un figlio, quest’essere deve essere riconosciuto e allevato dalla madre e dal padre, giacché se verrà invece abbandonato, se non diverrà il centro di relazioni affettive che il rapporto materno deve strutturalmente implicare, in quanto rapporto di affetto, di educazione, di incontro tra generazioni, mancheranno tutte le condizioni necessarie per trasformare un evento strettamente individuale e materiale (la gestazione) in un progetto sociale (il rapporto materno). In questa distinzione sta la spiegazione della differenza basilare di atteggiamento nei confronti della maternità che la donna può avere in una nuova condizione di libertà.

Quando infatti le femministe parlano di «proprietà dell’utero» parlano del proprio corpo e delle sue funzioni, e non di maternità (intendendo la maternità nel modo suddetto).

Infatti non è definibile in termini di rapporto sociale, né più semplicemente di relazioni umane, una parte del corpo che per cause fisiche, non volute, accidentali o subite inconsapevolmente, si sta sviluppando al di fuori e contro la volontà della donna; così come non appartiene a noi esseri umani una situazione fisica accidentale o dovuta ad errori malattie o incidenti, ma a noi appartiene la scelta di mettervi riparo. Per questo una gravidanza non voluta e che non è altro che un meccanismo che si mette in moto del tutto autonomamente nel corpo di una donna — come la digestione dopo mangiato — quando non è stato possibile prevenirla, va corretta. Tale situazione può essere definita provocatoriamente, nell’attuale situazione storica, una «malattia dell’utero» (a meno che non si ragioni in termini religiosi per cui la si considera come la punizione che segue al peccato sessuale) e non è né maternità né paternità.

Tale invece è solo quando, con una presa di coscienza ed una decisione sociale il feto, semplice entità fisica, abbia acquisito la connotazione sociale del figlio.