essere donne a catania
In Sicilia essere attivamente femministe non vuol dire solo fare politica nel senso tradizionale del termine, ma significa esporsi alla riprovazione sociale che può prendere le forme della violenza più ottusa e repressiva. E questo perché il femminismo non significa solo un diverso modo di pensare, ma un diverso modo di vivere. Significa fare le proprie scelte nonostante e contro la volontà dell’ambiente sociale in cui si vive, significa parlare chiaro dove si dovrebbe tacere o dire il falso, significa rivendicare la propria autonomia, anche quando questa autonomia viene identificata con il libertinaggio e la “pazzia”. Parliamo con le coraggiose e intelligenti ragazze del collettivo femminista catanese. Queste ragazze si chiamano Cettina, Titti, Roberta, Mariella, Enza, Cinzia, Marinella, Maria Rosa, Graziella, Ninfa.
“Cosa vuol dire per voi la scelta del femminismo”?
“Prima di tutto autonomia. Ma è molto difficile conquistarla, soprattutto quando si è senza soldi. Una ragazza che vuole vivere sola da noi viene considerata una puttana”.
“lo ho abitato sola per un anno. Sola per modo di dire, perché dividevo la casa con un’amica. Ma è stato durissimo. Prima, per trovare la casa. Appena mi presentavo, mi chiedevano: lei, cosa fa? chi ha alle spalle? chi la mantiene? lo dicevo che studio all’università, che vivo con una borsa di studio. Ma non mi credevano. Mi dicevano: no, donne sole non le vogliamo”.
“Spesso le donne sono le più violente contro di noi. Perché scaricano sulle altre donne le pene che loro soffrono in silenzio. Cercano di farti soffrire come soffrono loro. La nostra padrona di casa ha convinto il marito a salire sul tetto e a rompere le tegole per farci piovere dentro casa. Poi ha detto che era colpa nostra e ci ha buttate fuori”.
“Dicono che vuoi vivere da sola per provocare gli uomini. Solo se hai accanto un uomo che ti protegge, possono accettarti. Altrimenti sei una sfida alle leggi comuni. Anche il fatto di passeggiare da sole la sera è considerato una sfida da noi. Il fatto di mettere i pantaloni, o di non mettere ” reggiseno, è una provocazione”.
«Insomma non è permesso fare qualcosa per se stesse”.
“Anche in famiglia”?
«I miei fratelli, di sinistra, mi danno come esempio le loro mogli che hanno accettato le regole”.
“Come vivono queste mogli”?
«Sono compagne, ma solo di nome.
Di fatto non partecipano alla vita politica se ne stanno in casa ad aspettare loro uomo”.
«Non è ammissibile che una donna accia politica perché si interessa alle “«e del mondo. Se Io fai è perché vuoi metterti in mostra presso i maschi, perché vuoi attirarli. A me i compagni mi accettavano di malavoglia. Poi dicevano che dovevo avere un uomo fisso. Perché ‘ bisogna dare il buon esempio alle donne del popolo ‘. ‘ Vuoi che pensino che siamo gente depravata? ‘ mi dicevano.
“Ma questo discorso moralistico vale anche per gli uomini”?
“No, solo per le donne. Per non turbare il popolo, volevano che ci comportassimo come le loro madri, chiuse in casa a badare alle faccende, oppure fuori, ma sempre sotto l’ala di un uomo, alle dipendenze di un marito, un fidanzato. Mai sola, indipendente”. “Allora voi vivete tutte in famiglia”? “No. Quasi tutte viviamo nella Casa della studentessa. Perché quasi tutte veniamo da paesi vicini, non siamo di Catania”.
“E alla Casa della studentessa come vanno le cose”?
“Sul muro di cinta, fuori, c’è scritto in grande: Studentesse tutte puttane, vi piace solo questo; e c’è un disegno di una mano che stringe un pene. Questo ti fa capire l’aria che tira”. “E’ forte il movimento studentesco a Catania”?
“E’ la sola forza politica consistente. Ma non sfuggono all’esaltazione del virilismo. Le donne hanno nel movimento una posizione decisamente subordinata”.
“E con le famiglie in che rapporti siete”?
“La mia famiglia non voleva che venissi a studiare a Catania. Mia madre mi ha detto: quando vostro padre era vivo stavate al vostro posto, ora che è morto, fate quello che volete. Quello che volevo era solo studiare”.
“lo volevo andare a Roma a fare architettura. Ma i miei non me l’hanno permesso. Ho perso un anno aspettando che si decidessero; mi dicevano: forse, vedremo. E poi hanno detto no. Mia madre dice che il posto della donna è la casa e mi spinge a trovarmi un marito al più presto. E’ una donna che soffre mia madre, terribilmente, ha la faccia di una vecchia, tutta scavata e triste. Ma non se ne rende conto. E’ una donna intelligente, avrebbe potuto studiare. E’ frustrata”.
“Anch’io volevo fare architettura.
I miei non hanno voluto. Sono dovuta restare con loro. Mio fratello invece l’hanno mandato a studiare dove ha voluto. Ma lui è uomo”.
“Mia madre voleva mandarmi per forza all’istituto professionale perché ‘ così diventi una perfetta donna di casa come tua zia ‘, diceva. Ho dovuto fare una vera e propria guerra per riuscire a studiare qui all’università. Ma mi sorvegliano, mi spiano per vedere cosa faccio, chi vedo. Sono terrorizzati”.
“Io sto con mia sorella e il marito perché i miei sono morti. Lui è di sinistra. Ma quando ho detto che volevo andare a vivere da sola mi hanno fatto una scenata. Poi, siccome frequento dei ragazzi, esco ed entro quando voglio, mi hanno minacciata di mandarmi in manicomio. Dicono che sono pazza. Solo perché non la penso come loro”.
“E i vostri fidanzati, i vostri ragazzi, come la pensano”? “lo ho un ragazzo che capisce questi problemi, o per lo meno cerca di capirli. Però anche lui è geloso, vede con paura il mio bisogno di autonomia”.
“E gli altri”?
“lo penso sempre di avere trovato il ragazzo giusto, quello libero dai pregiudizi, quello che la pensa come me. Poi rimango delusa, perché alla prima occasione salta fuori il prepotente, il capo. Oppure ti fanno i ricatti sentimentali. Se li ami devi fare quello che vogliono. Non per obbedienza, ma per amore. E così ti legano mani e piedi e sei a posto”.
“E i ragazzi impegnati politicamente sono meglio o peggio”?
“lo sono stata fidanzata con un ragazzo del movimento studentesco. Era molto gentile. Quando non parlavamo di politica andava tutto bene. Ma se io tiravo fuori i problemi delle donne, mi accusava di volere dividere la classe operaia. Ma la classe operala è già divisa, gli dicevo io. La donna in casa è sfruttata. Riconoscere questo sfruttamento non vuol dire dividere la classe operaia, vuol dire semplicemente prendere coscienza di una realtà, di una contraddizione.
Quando si parla della classe operaia si pensa all’operaio e basta. Si centralizza tutto sull’uomo, escludendo la donna e i suoi problemi in partenza. E questa è una limitazione”.
“Insomma non si riesce ad uscire da una visione androcentrica della politica”.
“Il nostro compito è di studiare e approfondire i problemi delle donne nei riguardi del potere, sia in famiglia che fuori. Se poi si scopre che in famiglia il potere sta nelle mani dell’uomo, anche quando quest’uomo è uno sfruttato, questo fatto va chiarito e non negato come se non esistesse”.