Ie non femministe ombre sul muro

giugno 1974

Finché a dichiararsi femministe erano solo poche audaci, che sfidavano consapevolmente la condanna e l’emarginazione della società patriarcale, erano eli uomini a chiedersi quali fossero le cause di una così grave aberrazione, mentre la massa femminile taceva confusa, “tra tema e desire”, come il volgo disperso del coro dell’Adelchi. E le diagnosi maschili erano semplici: quelle donne erano lesbiche o puttane o “donne incapaci di essere tali”. Di questo genere di rozze spiegazioni, intimidatorie e ricattatorie, che non spiegano niente a nessuno, hanno dato esempio anche recentemente personaggi della “cultura”, che evidentemente non si sono accorti che la situazione è cambiata e continuano per forza di inerzia a ripetere i luoghi comuni di una disperata difesa maschilistica, e continueranno a ripeterli fino alla morte, amen.

Ma ormai un numero sempre maggiore di donne si dichiara femminista, militante o non, e le calunnie e gli insulti di certi esemplari di maschi mediterranei colpiscono solo come triste testimonianza di arretratezza culturale, che certamente non ci meraviglia (in un paese in cui c’è ancora l’analfabetismo e il fascismo, è ben comprensibile che l’antifemminismo abbia ancora delle forme così rozze). Ora sono le donne a chiedersi perché non tutte siano femministe e quali siano le resistenze profonde che ciascuna incontra dentro di sé sulla via della liberazione. Le attrici e le cantanti sono in prima linea a dichiarare la loro ostilità al femminismo: graziosi animaletti che non si azzarderebbero ad esprimere un giudizio su qualsiasi altro fenomeno culturale e sociale, inaspettatamente, “scendo da quel profumato boudoir che e ” loro mondo, s’impancano a “giuncare” (si fa per dire) ciò di cui non conoscono che il nome, e su cui nonhanno leggiucchiato che qualche articolo nei giornali cosiddetti femminili. Valga per tutte Mita Medici che, in un’intervista concessa al settimanale Tempo (n. 41, 1973), si rifiutava molto prudentemente di esprimere le sue opinioni politiche, dicendo: “Per parlare di politica bisognerebbe essere più preparati di quanto io sia”, ma subito dopo si lanciava senza alcun pudore a sentenziare sul femminismo, per parlare del quale, invece, come ènoto, non occorre essere né preparati né elementarmente informati, ma si può sproloquiare a vanvera: “Il femminismo mi pare una gran balla. Sembra che tutto quello che le femministe vogliono-sia andare nude per strada e lasciare i mariti a casa a cucinare”. Evidentemente ha scambiato le femministe con le donnine di Canzonissima o con le ex modelle dei servizi fotografici della rivista che ospitava le sue memorabili dichiarazioni. Ma “con quella bocca” Mita, e quelle come lei, credono di poter dire quello che vogliono, come suonava uno slogan pubblicitario. La reazione delle attrici e delle cantanti è facilmente comprensibile. Mirano al successo, cioè ad avere il consenso del grosso pubblico, o meglio di quella parte del pubblico che conta in quanto ha il potere: il loro interlocutore è il maschio e cercano di plasmarsi secondo gli stereotipi da lui preferiti: fanno professione non di arte della recitazione o del canto, ma di “femminilità”, semplificata, enfatizzata, ridotta a una caricatura grottesca (tutte sono dolci e remissive, amanti della casa e della cucina, sempre pronte a far l’amore), così come il loro corpo standardizzato (occhi bocca tette natiche) è la malinconica caricatura del corpo femminile. Dal femminismo, di cui hanno intuito confusamente solo che è contro questo tipo di femminilità, si sentono minacciate nei loro interessi professionali. Si sono fatte oggetti sessuali, nell’alienazione tipicamente femminile, e hanno investito se stesse nell’industria dell’alienazione generale, traendone grossi utili: la rivoluzione culturale femminista, che combatte proprio questa alienazione, le spaventa ben più di una rivoluzione politica, che in fondo per quanto le riguarda, potrebbe lasciare le cose come stanno. Un’altra categoria di donne, che, pur essendo l’opposto delle attrici e dellecantanti, tuttavia troviamo schierate con queste nella guerra al femminismo, è quella delle donne che hanno fatto carriera o credono di averla fatta o sperano ancora di poterla fare. Anche se hanno spesso approfittato di circostanze eccezionali, ben al di là della portata della maggioranza delle donne, hanno pur sempre dovuto lottare duramente nel mondo degli uomini, per farsi riconoscere alla loro altezza e quindi riscattarsi singolarmente, come “eccezioni”, dalla inferiorità femminile, esemplandosi sull’uomo. “Farsi uomini” era in realtà l’unico modo che conoscevano per diventare esseri umani, per sfuggire alla condizione subalterna a cui altrimenti sarebbero state condannate come donne, per conquistarsi il diritto a essere riconosciute non solo come carne e corpo, “natura”, ma anche come intelligenza e volontà, come persona. Proprio perché hanno rifiutato a livello inconscio il loro essere donne, non si riconoscono in un movimento che quell’“essere donne”, invece di rinnegarlo, lo recupera orgogliosamente nella sua positività. Esse provano disprezzo e disgusto per la donna in quanto tale, che, per diventare accettabile ai loro occhi, deve superarsi, riscattarsi, diventare come loro, eccezione, e questo perché in realtà queste donne disprezzano e odiano se stesse: sono anch’esse vittime della generale oppressione femminile, esseri “colonizzati”, che hanno tentato di salvarsi nel modo sbagliato, tradendo le compagne di oppressione e passando dalla parte degli oppressori. L’editrice di riviste pornografiche ha dichiarato a tutte lettere, in un’intervista a un settimanale: “Io sono per l’uomo, mista bene l’uomo, perché nella scala dei rapporti sociali rappresenta un gradino più avanzato dell’evoluzione, quindi della consapevolezza”. Queste donne “arrivate” sono dunque contro il femminismo perché sono contro le donne e in fondo contro se stesse. Ma quando sono chiamate a dichiarare pubblicamente la loro posizione, non tutte hanno il candore di Adelina Tattile e, nello sforzo di razionalizzare la loro ostilità, cercano di trovare motivazioni non personali del loro rifiuto, mentre proprio le motivazioni personali sarebbero le più significative e illuminanti di una situazionegenerale: il personale è politico, insegna il femminismo.

Ci sono ormai centinaia di saggi ponderosi, manifesti, documenti, riviste, su cui chiunque abbia una cultura media potrebbe farsi un’idea della complessità e vastità della problematica sollevata dal movimento. Ma quando queste donne, che sono di solito di cultura superiore, parlano del femminismo, mostrano che non ne sanno nulla o peggio che lo scambiano con quello che non è e contro il quale anzi esso combatte. Tutti ricordano l’attacco sferrato sulla stampa da una famosa scrittrice contro quello che lei credeva fosse il femminismo: due giornaliste, che nella pratica della loro professione avevano contratto la lodevole abitudine d’informarsi prima di parlare di un argomento poterono facilmente chiarire i grossolani equivoci in cui era caduta. Se la famosa scrittrice in questione avesse dovuto scrivere, mettiamo, dell’arte cinese odell’anarchia, sisarebbe fatta scrupolo di studiare i testi sull’argomento o di consultare persone competenti ed esperte. Come mai in questa materia si è lasciata sorprendere in una macroscopica ignoranza? Evidentemente anch’essa, da donna “arrivata” disprezza le donne ed è intimamente persuasa che da loro non possa venire nulla che sia degno di nota: il femminismo, in quanto originale prodotto culturale femminile, non vai nemmeno la pena di studiarlo. Se l’avessero prodotto gli uomini, allora… Le donne provenienti dai partiti e dai gruppi extraparlamentari hanno ingrossato in gran numero, in questi anni, le file delle militanti del femminismo. Ma molte donne politicizzate hanno ancora con il movimento un rapporto di attrazione-repulsione. Per gli strumenti culturali di cui di solito sono fornite, sono in grado di riconoscere la specifica oppressione femminile e d’individuarne le radici sociali, ammettono che tutte le organizzazioni politiche non hanno mai neppure posto il problema di questa oppressione, e che esiste una discriminazione all’interno degli stessi partiti e gruppi, ma quando si tratta di scegliere di organizzarsi in modo autonomo, di fare un’analisi in prima persona e di gestire in proprio la propria lotta, ciascuna di esse avverte dentro di sé resistenze profonde. Queste donne hanno tanto faticato per farsi accettare alla pari in queste organizzazioni maschili, e far dimenticare, e dimenticare loro stesse, che erano donne, cioè esseri per definizione inadatti alla politica: hanno imparato il linguaggio dei compagni (comprese le immagini e le imprecazioni tipicamente maschili; come “cazzo” e “metterglielo in culo”…) hanno adottato la loro mentalità e i loro criteri di valutazione hanno accettato i loro dogmi, hanno obbedito, persuadendosi che la disciplina fosse un merito, e, se non potevano sperare cu essere ammesse al potere decisionale) che restava sempre in mani maschili) tuttavia si sono appagate di essere considerate utili. Diventare femministe vorrebbe dire veramente entrare in un’altra dimensione, di autonomia psichica prima ancora che organizzativa, facendo meno dell’approvazione maschile in funzione della quale si è finora vissute: il salto è grande.

Ma la donna comune, non politicizzata, la casalinga, l’impiegata, la maestra, che subisce l’oppressione e la discriminazione maggiore e che è la vera destinataria del nuovo messaggio di liberazione, perché spesso ha tanta diffidenza nei confronti del femminismo? A queste donne, sulle quali più massiccio si esercita il bombardamento dei mass-media, è più difficile che giunga la controinformazione femminista: vivono in un isolamento culturale, che il sistema controlla perfettamente con i suoi mezzi di condizionamento. Ma anche quando sono raggiunte dal femminismo (la studentessa vicina di casa le invita alla riunione, per strada ricevono un volantino, nella rivista che leggono dal parrucchiere la giornalista simpatizzante del movimento è riuscita a far passare un articolo obiettivo), la loro reazione è quasi di timore. Essere femminista vuol dire ribellarsi e la ribellione da sempre per la donna è stata una colpa: come affrontare poi l’ira del marito, del fratello, del padre, e la disapprovazione del superiore e dei conoscenti, il loro ricatto affettivo e sociale?

Ma queste donne temono anche di dover guardare una realtà spesso atroce, di dover mettere in discussione tutta la loro vita e se stesse, di dover riconoscere di aver sbagliato tutto, di dover alla fine trarre delle conclusioni dolorose e fare delle scelte difficili, temono insomma di dover cambiare. Per quanto limitante e frustrante, in quel certo modo di vivere si sono ormai assestate: quelle abitudini, quelle menzogne dette agli altri e a se stesse, quel compromesso continuo costituiscono ormai la loro formula esistenziale, e abbandonarla fa paura: la donna che da sempre finge che le piacciano e faccende domestiche (ha incominciato a dirlo quando cercava marito, come le aveva suggerito mammà), come Può ora riconoscere che non è vero, che è disperante rifare ogni giorno letti che altri disferanno, lavare piatti che altri sporcheranno, preparare pranzi che li consumeranno, senza che questo sia nemmeno considerato lavoro?

Spesso queste donne sono irritate proprio quando sentono che le femministe hanno ragione: “Avete un bel dire voi… Ma io che posso fare, con quattro figli piccoli e nemmeno un soldo mio per potermene andare?” mi son sentita dire quasi con ira da una casalinga a cui avevo dato un volantino. Con le sue parole, che erano di rifiuto, riconosceva la profonda verità della denuncia femminista, e il suo rifiuto non era che disperazione, colpevole, come ogni disperazione: mentre le spiegavo che la sua situazione era simile a quella di milioni di altre donne e che bisognavacercare insieme una soluzione “politica”, lei scuoteva la testa, cupa. Paradossalmente è più facile che sia femminista la donna che non ha ipotecato pesantemente la sua vita, cioè la meno oppressa: la giovane più che l’anziana, la nubile più che la sposata, la donna con un minimo di indipendenza economica più della donna che dipende in tutto da un uomo. Le altre si fanno coraggio man mano che il movimento cresce, che si dichiara femminista l’amica o la parente.