PSICOANALISI

nostro padre quotidiano

giugno 1974

Temi come psicoanalisi e incesto non possono certamente essere esauriti in un dibattito occasionato dalla pubblicazione di un romanzo come questo Transfert di Erika Kauffmann. Noi non condividiamo le tesi dell’autrice sulla incidenza politica risolutiva dell’incesto. Ma riteniamo utile servirci di questo spunto per aprire il dibattito su un tema i cui contenuti e significati strutturali, culturali, politici, sociali approfondiremo nei prossimi numeri con una serie di interventi.

Anche per ciò che riguarda la contestazione della psicoanalisi espressa in questo libro svilupperemo l’argomento quando ci occuperemo dei rapporti tra malattia mentale e condizione femminile.

Il libro di Erika Kauffmann, “Transfert”, pubblicato da Feltrinelli, è la storia del rapporto (appena “mascherato” dalla finzione narrativa del genere “romanzo”) tra una donna di quarant’ anni e il suo psicoanalista: la storia si sviluppa in forma di lettere, che la paziente scrive al suo medico, costituendo, l’epistolario, ciò che tecnicamente si definisce “supplemento di analisi”: cioè la donna non si limita ad andare nello studio dello psicoanalista, a distendersi sul lettino e a parlare nei modi prescritti da Freud, ma consegna anche al medico, di volta in volta, una lettera, o gliela spedisce. L’intreccio romanzesco della vicenda punta, da un lato, sulla situazione di partenza della donna: Federica, questo il nome della protagonista di “Transfert”, vuole fuggire da un marito nevrotico che, mentre la ricatta con tentativi di suicidi, se lei vuole lasciarlo, pure la tormenta con la presenza, nella sua vita, di un’altra donna più giovane: dall’altro lato, rifugiandosi nella terapia psicoanalitica, Federica pone in luce il nodo cruciale e dolente della propria personalità: il desiderio di fare l’amore col padre: e questo desiderio, finalmente individuato, lo proietta sullo psicoanalista, per cui tutte le lettere si incatenano, l’una all’altra, in una ininterrotta e anche crudele supplica al medico che l’ha in cura, di fare l’amore con lei, l’ammalata. E’, come lo stesso medico la definisce, una lunga opera di seduzione che la donna porta avanti per mesi, mettendo ‘ lo psicoanalista alle corde, fino a che egli, denudato nelle proprie carenze, sia professionali che umane, non trova altro scampo se non nel negarsi definitivamente, nell’interrompere le visite, e la cura. Leggendo ben oltre l’intreccio, tuttavia, nel libro della Kauffmann cioè parso possibile identificare due temi stimolanti: il tema dell’incesto, dalla cui demistificazione l’autrice ritiene possa provenire una sorta di “liberazione” dai ruoli autoritari in vigore nella nostra società, e il tema della contestazione della psicoanalisi freudiana e, in genere, delle terapie analitiche intese a integrare l’uomo nella società, piuttosto che a riconoscere gli errori, gli squilibri, le ingiustizie nella realtà storica che ci circonda.

Rimane infine la domanda se questo della Kauffmann sia un libro femminista o no.

L’autrice del libro, Erika Kauffmann, Donata Francescato, psicologa, Dacia Maraini, scrittrice e Silvia Rosselli, analista junghiana, hanno preso parte, per Effe, a un dibattito sui temi indicati, di cui pubblichiamo i punti essenziali, Il dibattito è stato coordinato da Adele Cambria.

 

se ogni padre

Adele: Secondo te, Erika, il desiderio dell’incesto, via via razionalizzato dalla protagonista del tuo libro, va inteso come volontà politica di distruggere i ruoli: tu dici che l’autoritarismo del padre e della madre verso i figli sarebbe annullato se, come scrivi, “ogni padre prendesse la figlia per mano e le insegnasse l’amore”, e lo stesso dovrebbe fare la madre. Per cui, alla demistificazione dell’incesto, si unisce una proclamazione di sessualità totale, non discriminata né limitata al rapporto uomo-donna. Secondo te, alla demistificazione dei ruoli di padre e di madre, si unirebbe una demistificazione globale dei ruoli (di padrone, di potente, di dittatore ecc.), e si arriverebbe quindi ad eliminare l’autoritarismo del contesto sociale.

E possibile, mi chiedo, se non accettare, cominciare almeno a discutere una tesi del genere che appare senza dubbio azzardata?

Donata: La tesi dell’incesto come atto di liberazione politica mi pare ingenua e mistificante. Ingenua Perché ripropone il mito di un “atto miracolante” che possa portare a una immediata liberazione; mistificante perché psicologizzando il problema, svia l’attenzione dai fattori strutturali economici, politici e sociali che determinano in gran misura i ruoli sociali e l’oppressione del singolo che ne deriva. Ad esempio, superando il tabù dell’incesto, rimane sempre tra bambino e adulto una differenza enorme di potere: non potrai mai eliminare il fatto che il bambino è dipendente da te, adulto, sia che viva in una famiglia di tipo tradizionale, cioè, oggi, nucleare, sia che venga inserito in una comune, intesa come collettivo di adulti e bambini. Il bambino dipende dall’adulto, per i primi anni di vita perfino fisicamente, e poi, per un periodo già lungo ma che oggi tende pure a prolungarsi, ne dipende economicamente. Al di là del tema dell’incesto, questo libro per me solleva una problematica fondamentale: quali tipi di rapporti genitori-figli sono i più adatti a favorire una autentica crescita e una maggiore autonomia da parte sia dei genitori come dei figli?

Dacia: E’ da discutere un problema molto grave, una questione che è alla base della convivenza civile: e cioè se una forma di regolamentazione sessuale e diciamo pure di repressione sessuale non sia indispensabile per una corretta organizzazione sociale. A me sembra che tu, Erika, pensi che eliminare ogni regola in questa materia significhi dare vita ad una società nuova, totalmente libera, lo non sono d’accordo, perché i rapporti di potere nella società non si basano in modo esclusivo sul sesso: nella tua tesi non rientra la riflessione sui rapporti economici, di classe. Erika: Rispondendo alle vostre obiezioni, io voglio dire che la situazione di potere cui il bambino è assoggettato in famiglia dovrebbe durare soltanto per un periodo limitato di tempo: il tempo in cui il bambino è per l’appunto dipendente per tutte le sue necessità dai genitori. Ma perché invece da questa inferiorità non ne usciamo mai? Perché il tabù dell’incesto introduce nel rapporto genitori figli e in quello, secondo me parallelo, potenti-deboli, l’elemento del sacrale. I genitori non diventano mai, per noi, persone come tutti gli altri, e quindi non sono affrontabili su un piano di realtà, e, rispetto al rapporto potenti-deboli, sul piano della lotta di classe. Lo strapotere dei genitori si può affrontare meglio una volta tolto di mezzo il desiderio di loro. Per fare un esempio: l’operaio non può lottare contro il padrone in modo davvero efficace se desidera andare a letto con lui. Secondo me, alcune remore alla lotta di classe sono proprio date da questo: che la fabbrica è vissuta come madre e il padrone come padre, con tutte le implicazioni incestuose non risolte.

Adele: Mi sembra che qui venga a galla la carenza della tua analisi cui già accennava Dacia. Semmai è istituibile un parallelo tra fabbrica e famiglia, esso sta proprio nel carattere di dipendenza economica che lega il figlio al padre come lega l’operaio al padrone della fabbrica. Quando questa dipendenza, nella fabbrica, viene gestita dal padrone, all’insegna per l’appunto dello slogan “Questa è tutta una famiglia”, con alternanze di repressioni e concessioni, nasce il paternalismo di fabbrica, la figura del cosiddetto padrone buono, più temibile di tutti gli altri. Non vedo altre analogie.

Donata: Infatti non si può psicologizzare tutto come fai tu. Le differenze di classe, le differenze economiche tra gli uomini rimangono, anche ove fosse possibile attuare una totale liberazione sessuale. Soprattutto non si può ipotizzare come bisogno umano generale quella che mi sembra al contrario una particolare fissazione della protagonista. Il padre di Federica è il classico padre altoborghese, arbitro economico e culturale della casa. Tra i proletari il padre questo ruolo di modello e guida, di iniziatore, ce l’ha meno. I figli non rimangono in stato di inferiorità verso i genitori, anzi spesso avviene il contrario. Il tipo di padre che ha avuto Federica, io, che sono di estrazione proletaria, non l’ho certamente avuto. L’iniziazione ai vari comportamenti di adulta l’ho avuta con i miei compagni, su un piano quindi di parità. Federica ha invece avuto genitori molto seducenti e ambigui: una madre che non la vede neppure quando lei torna dalla scuola con il naso rotto, eppure è la madre ad aprirle la porta, ma poi per esempio è attentissima ai vestiti che la bambina indossa: un padre che per anni la seduce, occupandosi di lei in modo nevrotico, fino ad alzarsi quattro, cinque volte la notte per farle fare la pipì, e che poi la respinge, incomincia a darle meno attenzione già quando nasce l’altra sorella, ma la respinge definitivamente quando Federica cresce, e invece di ammirarne la sessualità nascente, gliela fa sentire come una colpa.

Dall’ambiguità dei rapporti con i genitori nasce l’estrema insicurezza della protagonista del libro: che infatti dice di avere sempre bisogno che qualcuno la approvi per sentirsi esistere. Federica ha avuto dei genitori che hanno rispettato più le regole formali che i suoi bisogni: ciò le ha insegnato a dubitare della validità delle proprie sensazioni, dei propri sentimenti, dei propri pensieri. Per cui questa bambina si è trovata sottoposta ad una doppia esclusione; non poteva contare sul padre e sulla madre, che avevano verso di lei atteggiamenti di volta in volta seducenti o di ripulsa: non poteva contare neanche su se stessa. Questa doppia deprivazione, questo sentirsi estranea a se stessa e al gruppo familiare, rende la protagonista di “Transfert” bisognosa all’estremo di prove di accettazione concrete: per cui non le basta, come accadrebbe ad una adolescente normale, che il padre ammiri la sua sessualità. Per poter esistere ha bisogno dell’unica conferma indubitabile: cioè del contatto propriamente sessuale, di andare a letto col padre. Perché delle parole non può fidarsi, le parole del padre e della madre sono spesso bugiarde, ora dolcissime, ora cattive, e senza che la bambina possa prevederne il mutamento o capirne il perché.

Tutto ciò, chiaramente, è abbastanza unico come tipo di esperienza. Ciò che invece è generalizzabile, nel caso di Federica, è il tipo di educazione alla insicurezza che ricevono di solito le donne: le donne che riescono a trovare la propria autenticità soltanto se altri le ritengono autentiche: è la favola della bella addormentata, che anche nel libro è ripresa, la persona che aspetta di essere svegliata alla vita dal bacio del principe, cioè dall’altro.

 

prima del femminismo

Adele: A questo punto io vorrei inserire la domanda se il libro della Kauffmann sia un libro femminista: io, personalmente, lo definirei prefemminista, proprio per questa dipendenza, continuamente ribadita, della protagonista dagli altri: la favola della bella addormentata, e questo spasmodico supplicare che lo psicoanalista la tocchi, la ami, perché soltanto così lei sentirebbe rivivere il proprio corpo, sente perfino la sua nascita dipendente dall’altro: il padre, o lo psicoanalista su cui riversa le sue aspettative di bambina in rapporto al padre. La protagonista pensa pensieri dei più convenzionali, tipo “se tu non mi ami io non esisto”, ed allora?

Dacia: Una spia indicativa di quella situazione che Adele ha detto pre-femminista, è il linguaggio: per esempio l’uso che fai della parola “prendere”, “possedere”, sempre riferita alla donna: passa cioè nel tuo libro una ideologia di tipo maschile, convenzionale, se vuoi, ma per l’appunto maschilista: in cui si distingue il prendere, maschile, dall’essere presa, femminile, l’attività, maschile, dalla passività, femminile, e così via.

Donata: E’ quello che dicevo prima: nel libro chiaramente la donna si sente inferiore, almeno fino a quando un uomo non la valorizza, sia il padre, sia lo psicoanalista, sia il marito, sia l’amante: la donna deve subire, accettare, essere posseduta addirittura, per arrivare alla conoscenza.

Erika: Ma voi dimenticate che io nel libro descrivo la situazione di una donna ammalata proprio per il fatto di essere donna, che sente la sua passività, cioè, come una malattia, e proprio per questo va a curarsi dallo psicoanalista.

Dacia: Ma tu le parole “prendere”, “possedere”, le usi come scrittrice. Succede a tutte noi: usiamo delle parole che fanno parte della terminologia comune fino a quando, proprio attraverso il femminismo, non ci accorgiamo che esprimono una ideologia maschilista. Per questo, giustamente, “Transfert” può definirsi un libro pre-femminista, anche se esprime, se racconta, la vicenda di una donna in rivolta. E la esprime con una vitalità, una solarità, che, secondo me, è nello stesso tempo la qualità positiva del libro ed il suo limite. Oltre che una dimensione femminista infatti manca secondo me nel libro la dimensione politica. Manca l’attenzione al politico, inteso anche semplicemente come dato sociale.

Erika: lo ho fatto un libro sull’analisi, e l’analisi freudiana esclude il dato politico, non lo prende in considerazione, lo ho lavorato con un collettivo di psicologia e politica, formato da militanti della sinistra di classe, ma questo non rientra nel discorso del libro, in cui non potevo mettere tutto…

Donata: Quella carenza che rileva Dacia è ciò che io ho chiamato eccessiva psicologizzazione…

Adele: Per tornare alla domanda se il libro di Erika sia femminista o no, un altro elemento che mi ha colpita è la totale mancanza di solidarietà della protagonista con la madre.

Erika: E’ chiaro che molte cose non sono entrate nel libro, ho dovuto scegliere, e la figura cui più si fa torto è quella della madre. Ma è proprio l’assenza di questa donna, la non-incidenza, tutto sommato, nella vita della figlia, tutta assorbita, lei, la bambina, dall’adorazione per il padre, è proprio questo che denuncia la stortura della famiglia patriarcale. Però è, al limite, con la madre che la bambina riesce a discutere, a litigare, una volta perfino reagisce con uno schiaffo agli schiaffi di lei, mentre quando è il padre a picchiarla, si sente annientata, per la delusione. Quindi è con la madre che si stabilisce un dialogo che un giorno, forse, in un altro libro, diventerà femminista.

 

CONTRO LA PSCICOANALISI?

Adele: L’altro tema centrale che può ricavarsi, come abbiamo detto, dal libro di Erika, è il rifiuto della psicoanalisi e, in genere, delle diverse terapie analitiche come tendenti ad inserire l’uomo nel sistema piuttosto che a stimolarlo a una presa di coscienza collettiva degli squilibri di esso. Si può dire questo, sia per la psicoanalisi freudiana, di cui in questo libro si tratta, sia per le altre terapie?

Silvia: Il punto è il rapporto tra terapia analitica e presa di coscienza, politicizzazione dell’intervento del terapista. E’ un problema che io, nel mio lavoro, mi pongo sempre più spesso, specie in rapporto alle nevrosi femminili: cioè io vedo sempre di più, e non posso nascondermelo, che certe nevrosi delle mie pazienti non esisterebbero se la società fosse diversa.

Donata: Per me la domanda andrebbe riformulata così: quando una persona non è soddisfatta del modo in cui vive la propria vita e vuole cambiare, fino a che punto può essere aiutata terapeuticamente?

Quali sono gli spazi operativi e quali i limiti di tali strumenti? E non mi riferisco soltanto alla psicoanalisi, che qui, tra l’altro — cioè nel caso della protagonista del libro — mi sembra adoperata male ed a sproposito. E comincerei subito da questo secondo elemento: a me sembra che il metodo della psicoanalisi, perlomeno come è stata applicata alla paziente Federica, non le si adattava per niente. Uno dei grossi problemi esistenziali di Federica è dato dal comportamento dei genitori di lei, i quali per seguire regole formali hanno sempre negato o mistificato i bisogni sia propri sia della bambina. Includendola ed escludendola continuamente… Questa bambina sta sempre fuori della porta, e peggio ancora quando nasce l’altra, la sorella, io sono personalmente convinta che non c’è quasi nessun modo per evitare di escludere il bambino dal tuo mondo di genitori, in coppia, però bisognerebbe dargliene almeno le vere ragioni: esempio: ti mandano a letto presto ma non te ne dicono le vere ragioni — che cioè vogliono pestare soli in pace loro due — ma ti dicono che i bambini devono andare a letto presto. Quindi una sostanziale mancanza di autenticità nel rapporto col ‘ambino, un negarsi a lui come persona intera. Paradossalmente la povera Federica si ritrova nell’identica situazione con lo psicoanalista: che finisce con l’agire con lei con la stessa ambiguità con cui agivano i genitori. Anche lo psicoanalista infatti usa regole formali — in questo caso le regole dell’ortodossia freudiana — in cui però non crede del tutto: per esempio bacia la paziente, non si fa pagare l’onorario (e questa è una violazione delle regole): d’altra parte però non le svela i suoi veri sentimenti, né le fa prevedere in modo netto e fermo quale sarà lo sviluppo dei loro rapporti. Non solo, ma questa donna, alla ricerca della propria autonomia, si trova ad affrontare un metodo terapeutico che favorisce, per definizione, la dipendenza del paziente: tra paziente e psicoanalista infatti esiste un rapporto di potere molto squilibrato, perché è soltanto lo psicoanalista colui che sa, e che decide, di volta in volta, cosa il paziente deve sapere e fino a che punto…

Adele: Quale avrebbe potuto essere, allora, nel caso descritto nel libro, un metodo di cura più appropriato? Donata: Secondo le teorie del Rogers, ciò di cui una persona ha più bisogno per crescere è un’atmosfera di accettazione, empatia e genuinità, ed è proprio ciò che Io psicoanalista non dà alla paziente Federica. Secondo Rogers noi siamo bloccati nel crescere dal timore di sbagliare, di essere mal giudicati ecc. Quando invece qualcuno ci pone in una situazione in cui un simile timore sparisce o perlomeno diminuisce, siamo noi stessi a recuperare quelle parti di noi che, nell’infanzia, a causa di metodi educativi repressivi, abbiamo finito col soffocare. In questo tipo di terapia si ritiene che soltanto la persona in cura possa conoscere la propria realtà interna, e abbastanza bene da essere il migliore terapista di se stesso, così che l’intervento esterno deve limitarsi a porre la persona in condizioni di fare riemergere le parti rinnegate di sé: sensazioni fisiche o sentimenti. Ci sono inoltre metodi di terapia di gruppo, ad esempio i gruppi di autocoscienza femministi che cercano di superare il distacco tra medico e paziente esperto e profano, uno di questi gruppi avrebbe potuto aiutare Federica a scoprire le ragioni strutturali e interpersonali del suo disagio e arrivare sia a una presa di coscienza diversa del suo problema, sia a quella maggiore autonomia decisionale, a cui aspira, quando parla di bisogno di “rinascita”.

Adele: Secondo te, Silvia, che tipo di trattamento avrebbe potuto giovare a Federica?

Silvia: Per conto mio, io avrei tentato di portare la paziente ad una interpretazione simbolica del suo bisogno di fare l’amore con il padre e quindi con lo psicoanalista. In questa simbolizzazione del bisogno, infatti, si realizza il transfert: ciò che tecnicamente chiamiamo transfert.

Adele: Puoi darci una definizione di transfert?

Silvia: Ciò che si chiama transfert è una sorta di provetta in cui si concentra tutto il materiale emotivo portato dal paziente nella analisi, e questa provetta viene, fin dove possibile, letta dall’analista in modo distaccato, neutro, obiettivo. Potrebbe paragonarsi il transfert anche ad una lente di ingrandimento che l’analista adopera per leggere meglio la realtà del paziente. Il contro transfert, che pure si verifica in analisi, è il complesso di tutte le risposte, conscie e inconscie che emergono nell’analista a contatto con il paziente.

Adele: Se questi due strumenti clinici, diciamo, cioè il transfert e il contro-transfert fossero stati adoperati correttamente con Federica, il suo problema avrebbe avuto soluzione?

Silvia: Non sono fatti che si possono prevedere in astratto: è certo che la simbolizzazione del bisogno di Federica, di congiungersi col padre, simbolizzazione che sarebbe probabilmente avvenuta attraverso una corretta impostazione del transfert, l’avrebbe aiutata. Mentre se si fosse invece verificata l’ipotesi che la scrittrice sembra ritenere positiva, cioè il rapporto sessuale desiderato da Federica, esso avrebbe fissato la paziente nel suo bisogno esclusivo del padre (e dell’analista investito da lei del ruolo di padre), impedendole di progredire.

Erika: lo vorrei, per difendere la mia tesi, ritornare un attimo sul tema dell’incesto come liberatorio, e non come emerge da questa discussione, come blocco dell’autonomia di Federica. Si accusa la mia tesi di essere troppo unilaterale e di vedere nel tabù dell’incesto l’unica causa dei nostri mali. Non è certamente l’unica ma una delle più importanti, che per

di più si pone cronologicamente in una situazione privilegiata nel processo formativo dell’individuo, cioè nell’infanzia, e quindi influenza terribilmente il suo sviluppo.

Donata: Ma è l’analisi freudiana che ti spinge sempre allo stesso discorso dei genitori, sui genitori… Secondo la Gestalt-terapia, questo è un modo di crearsi un alibi, tornare alle radici, all’infanzia, ai genitori. Nessuno di noi ha avuto i genitori che gli stavano bene, perché anche i genitori sono condizionati, a loro volta, da una educazione sbagliata. Ciò che conta, secondo la Gestalt-terapia, è concentrarsi sui blocchi che noi stessi poniamo, hic et nunc, qui ed ora, alla espressione ed alla soddisfazione dei nostri bisogni.

Altrimenti finisci in un imbuto, come in effetti la protagonista del tuo libro finisce, da cui non si esce più.

Silvia: lo penso che il desiderio di incesto, come concreto accoppiamento con il padre, potrebbe essere meglio chiarito leggendolo alla luce delle teorie del Neumann ‘. Secondo questo studioso tedesco (vissuto però in Israele) il primo stadio di sviluppo del bambino, maschio o femmina che sia, è identificabile con l’inconscio materno: cioè il bambino è contenuto nell’inconscio materno: questa unità psichica è simbolicamente rappresentata dall’uroboro, cioè dal serpente arrotolato su se stesso, che si mangia la coda. Nel secondo stadio, il bambino vive consciamente con la madre un rapporto esclusivo — rappresentato dall’uroboro matriarcale — e che il maschio tende a troncare, mentre la femmina, potendo pienamente identificarsi col modello femminile, si sente soddisfatta in questa fase definibile come di autoconservazione. Però questa fase diventa una anomalia se si prolunga troppo o, come a volte accade, per tutta la vita: sono infatti queste le donne dipendenti dalla madre fino all’età adulta in modo morboso. Nello stadio successivo a quello dell’uroboro matriarcale, la donna, la figlia, vuole uscire dal rapporto esclusivo con la madre ed entrare nell’universo maschile, da cui fino a quel momento è stata esclusa: simbolicamente, vuole essere violentata dall’uroboro patriarcale. Si tratta di una fase indispensabile alla crescita psicologica della donna ma sottolineo che deve essere superata affinché la donna conquisti finalmente la propria autonomia: cosa che non avviene alla protagonista di questo libro.

Adele: Tu credi, Donata, che le terapie attuate nei gruppi femministi, cui accennavi prima, potrebbe essere più utile di altre in un caso del genere?

Donata: Idealmente, in questi gruppi, la terapia è vista come atto politico: infatti significa fare politica aiutare una delle componenti del gruppo, in crisi esistenziale, a rendersi consapevole delle condizioni sociali e personali che hanno provocato la crisi. Il primo passo verso la liberazione è quello che permette alla donna di riguadagnare la propria responsabilità esistenziale.