hanno vinto le donne
E’ stato un NO liberatorio, come gridato da diciannove milioni dì bocche aperte ad un respiro, finalmente, più lungo. E come volete che non abbiano partecipato, e magari anche dominato questo NO le donne? Un milione e mezzo in più degli uomini, erano, nel voto del 12 maggio, ed hanno dimostrato, con quel voto, di conoscere ormai la propria oppressione in una misura che nessun osservatore politico qualificato era stato capace di prevedere.
Ci permettiamo perciò il lusso, per una volta, di ricordare che noi l’avevamo detto, noi di Effe, in ognuno dei quattro numeri del giornale in cui ci siamo occupate del referendum: avevamo detto, di volta in volta, di articolo in articolo, non tanto le nostre speranze quanto il sentimento di rabbia che, dalle donne, avvertivamo levarsi e crescere contro l’assurda, medioevale, stregonesca imposizione di un ennesimo sì e proprio alla parte più “naturalmente” oppressa della popolazione italiana. Non a caso i cartelli levati alti al sit-in femminista di Piazza Farnese, il 27 aprile, portavano bocche, labbra di donne, aperte a gridare NO, “Basta tacere!”; nel numero di Effe che precede questo, avevamo definito “rivelatore” il dato della Demoskopea secondo il quale il 67,1% delle casalinghe interrogate s’era detto favorevole al divorzio. Le donne sono state il bersaglio sbagliato di Fanfani e di Gabrio Lombardi: lo scrivevamo nel numero scorso che avremmo votato NO se non altro per “battere chi ama ancora rappresentarci… come soggetti subfolkloristici”. Non è possibile stabilire quante donne hanno votato NO: ma quelle che lo hanno fatto, siamo sicure che l’hanno fatto su una linea di attacco e non di retroguardia. Non hanno detto NO, per intenderci, per salvare l’unità della famiglia: di questa famiglia-ghetto che Fanfani, l’ ultima sera in TV, confermando la nostra definizione, ha avuto la spudoratezza di vantare come “l’unica Mutua che vi assiste dalla culla alla tomba … Dicendo NO, le donne hanno detto SI’ alla propria liberazione, alla gioia di un rapporto vivo e non putrefatto con l’uomo, alla fierezza di essere infine interlocutrici intelligenti dei propri figli e non le loro schiave ricattate. Tra due ipotesi di vita — al di là degli astratti schemi della politica tradizionale — le donne non hanno avuto dubbi. Le donne, infatti, come i giovani, come i cattolici in rivolta, non hanno altro da perdere se non le proprie catene in una società come questa che riesce ad essere, tutt’insieme, patriarcale, gerontocratica, scristianizzata e chi esasticamente autoritaria. Anche nel nostro paese, allora, queste grandi maggioranze emarginate, hanno cominciato a battersi per il proprio diritto alla felicità. Il rischio è ora di avere paura di avere vinto. Noi femministe abbiamo detto sempre che il divorzio non è, né poteva essere per il movimento di liberazione della donna, un obiettivo privilegiato; non è stata quindi la nostra lotta, nel senso che non avremmo scelto un terreno così arretrato, ma lo è diventata, e massicciamente, nella misura in cui proprio il referendum ci ha permesso di confermare l’intuizione della rabbia crescente della donna italiana. Le donne hanno detto no ai Fanfani e ai Gabrio Lombardi che volevano rinchiuderle nell’isolamento e nelle paure, nell’ipocrisia dei valori proclamati a gran voce da DC e fascisti nella campagna per il referendum. E questa è una dimostrazione di maturità che ha un significato politico dirompente quale è stato il NO detto dai cattolici che per la prima volta, tra allineamento democristiano e coscienza civile e solidarietà umana, hanno in massa optato per la seconda, contro le asserzioni più rozze dell’integralismo cattolico. Ma la battaglia femminista non finisce con la vittoria divorzista. Il divorzio resta un istituto arretrato come il matrimonio. E’ la struttura stessa della famiglia che porta all’oppressione della donna ed è quindi la famiglia che va radicalmente trasformata: e non solo con l’approvazione della riforma del diritto di famiglia, che — come il divorzio — con decenni dì ritardo adeguerà, quando sarà finalmente approvato, la nostra legislazione a quella della gran parte dei paesi del mondo.
Analogamente, non è la liberalizzazione dell’aborto il fine in cui si esaurisce il femminismo, ma è chiaro che in un paese sociologicamente arretrato come è l’Italia, la battaglia per la liberalizzazione dell’aborto si impone. Non dimentichiamo le 253 donne di Trento indiziate per aborto. “Fuori le donne — che hanno abortito — dentro Fanfani e il suo partito”, era uno degli slogan femministi gridati nella lunga notte di festa tra il 13 e il 14 maggio. Potrà sembrare imprudenza. Ma la prudenza si colora spesso di rinuncia, come quando ha consigliato — in vista di una vittoria di stretta misura o addirittura di una sconfitta del NO — una mediazione remissiva sul problema dell’indipendenza del quotidiano laico di Roma, Il Messaggero. Felicemente prive come siamo di potere, per noi la prudenza non è una virtù. E’ la ragione per cui continuiamo, fra l’altro, anche questa modesta, se si vuole, battaglia per Effe. Se il giornale serve alle donne, serve pure, con le sue trentacinquemila copie di vendita, a testimoniare che una stampa autenticamente alternativa (cioè autonoma) ha il suo spazio anche in Italia.