il marchio del dominio
Nel 1947, dopo che il nazismo ebbe imposto un momento di verità alla cultura borghese, mostrando come essa fosse stata non solo impotente a contrastarlo, ma anche complice della barbarie hitleriana, Theodor Adorno, mettendo sotto accusa i miti del razionalismo illuminato, scriveva in “Dialektik der Aufklàrung”: “La dichiarazione di odio verso la donna, come creatura spiritualmente e fisicamente più debole, che reca in fronte il marchio della dominazione, è la stessa dell’antisemitismo”. Affermazione profondamente vera, tuttavia in difetto di fronte alla realtà, poiché la discriminazione che colpisce la donna è talmente istituzionalizzata da aver perso, a livello di coscienza, il suo carattere razzista. Lo sterminio di sei milioni di ebrei nei campi di concentramento tedeschi suscita in ognuno, eccettuati i fascisti di ferro e figuri come Freda e Ventura, una reazione di orrore e di sdegno; non così l’enorme numero di donne morte per aborto mal procurato, la serie di vittime dei “delitti d’onore”, le migliaia di “streghe” arse vive dal Duecento al Settecento, oppure le centinaia di operaie delle fabbriche inglesi dell’Ottocento decedute per parto prematuro in seguito alle inumane condizioni di lavoro, e ancora le partorienti lasciate freddamente agonizzare per il “dilemma chirurgico” pseudocristiano, risolto con la decisione di “salvare” il bambino sacrificando, o meglio massacrando la madre. I commenti ingiuriosi rivolti per la strada agli ebrei sotto il nazismo, nel caso delle donne diventano simpatiche manifestazioni di gallismo; poiché non si sospetta neppure l’esistenza di una dignità femminile, l’offesa viene legalizzata dall’abitudine. Il razzismo ha radici antiche, sia che si eserciti contro la minoranza ebraica, sia che si rivolga contro la maggioranza femminile e della popolazione di colore. E’ noto come il cromosoma bianco sia recessivo: si può generare un bianco partendo da un negro ma non viceversa, ed è d’altro canto riconosciuto che la civiltà umana si sviluppò diffondendosi dall’Africa. Eppure, i negri vengono collocati su un gradino inferiore della scala evolutiva, e trattati di conseguenza. Lo stesso avviene per gli ebrei. Per quanto riguarda la donna, è rivelatrice l’analisi delle due versioni del libro della creazione. Nella prima versione della Genesi (1,27-28), si narra come Dio creò insieme l’uomo e la donna; nella seconda versione (2,18-23), sovrapposta alla prima, subentra un bisogno di derivazione della donna dall’uomo, dal cui corpo essa viene plasmata. Si rispecchia nelle due versioni il passaggio dalla società pre-patriarcale, contraddistinta dalla comunità di beni e di affetti e dal ruolo emergente che la donna vi impersonava, alla struttura patriarcale che annulla i liberi rapporti preesistenti e implica il predominio della proprietà privata, inseparabile dall’oppressione della donna: infatti la donna è il primo essere schiavo, e forse dalla sua mancata ribellione ha origine il concetto di sfruttamento. La sconfitta storica della donna provoca la divisione del lavoro, le toglie il ruolo produttivo per assegnarle il compito di curare i produttori e di riprodurli. La donna si identifica con la funzione biologica; quindi, simbolicamente, con la “natura”. E poiché l’uomo “domina la natura”, nasce il giudizio civilizzato sulla donna, a sua volta dominata e oppressa. Questo giudizio non si modificherà più; anzi, nella misura in cui la figura femminile è avvertita come una minaccia verso la società patriarcale, a volte si converte apertamente in odio. Quohelet, il pessimistico autore dell’Ecclesiaste, ammonisce: “amara, più della morte, è la donna, la quale è un laccio: una rete il suo cuore, catena le sue braccia”.
Il cristianesimo idealizza nel matrimonio la gerarchia dei sessi,espressione dell’ordinamento maschile della proprietà e di una benpiù importante gerarchia. Paolo, il“teorico” della cristianità, dopoaver subito il ben noto trauma sulla via di Damasco, scrive ai Corinti che “il marito è il capo della donna”, motivando questa affermazione con il mito patriarcaledella seconda Genesi per cui “l’uomo non ebbe origine dalla donna,ma fu la donna ad essere trattadall’uomo; né fu creato l’uomo perla donna, bensì la donna perl’uomo”.
Man mano che le istituzioni religiose si rafforzano, cresce l’esigenza di mantenere la donna nell’oppressione, e la sua impotenza a difendersi costituisce il titolo giuridico dell’ingiustizia. I padri della Chiesa usano con virulenza l’arma dello stigma, ponendo in diretta relazione il peccato con la figura della donna; Tertulliano la bolla come “porta dell’Inferno”. Nel VI secolo, il concilio di Macon discute accademicamente se la donna abbia un’anima e conclude i suoi lavori negandogliela; tale privilegio le verrà concesso solo nel 1545 dal concilio di Trento. La sanzione dell’inferiorità biologica femminile è una condizione essenziale alla struttura violenta ed oppressiva della famiglia; non a caso Platone, nella Repubblica, aveva affermato l’eguaglianza tra uomo e donna, ma aveva energicamente escluso dalla sua comunità ideale l’istituzione del matrimonio vietando la coabitazione privata e il riconoscimento della paternità. Per questo la tradizione cattolica si pone nei confronti della donna in un rapporto di amore-odio: essa è amata come pietra miliare della famiglia (in quanto viene oppressa) e odiata come veicolo di peccato (in quanto potrebbe ribellarsi all’oppressione).
La dicotomia si esprime efficacemente, in fasi di isterismo religioso, nei due poli opposti e complementari del culto della Vergine e della caccia alle streghe. Già nella Bibbia si trovano esortazioni a lapidare le donne sospette di stregoneria (Esodo, 22,18; Levitico, 20,27), ma la vera e propria persecuzione di massa comincia a metà del Duecento, col sorgere dell’Inquisizione, e continua fino alle soglie dell’età moderna; l’ultima strega fu bruciata a Siviglia nel 1781. Arthur Miller, nel dramma “Il Crogiuolo”, ha tracciato un diretto parallelo politico tra l’impiccagione di 19 “streghe” avvenuta nella cittadina americana di Salem nel 1692, e le persecuzioni maccartiste contro la sinistra. In ambedue i casi, la società dei forti, dei proprietari e dei padroni si difende con il razzismo da una potenziale disgregazione dei propri ordinamenti.
Attraverso i secoli, lo stigma biologico che colpisce la donna si definisce fino a renderla complice, essa stessa calunniatrice del suo sesso perché completamente estraniata dalla propria identità: archetipo permanente, in quanto necessario alla conservazione di un sistema basato sullo sfruttamento. L’idealizzazione del “dolce stil novo”, l’immagine della donna-angelo, paradossalmente rafforzano il suo ruolo di oggetto. L’umanesimo la esclude dalla propria dimensione: che altro desiderio hanno le donne, si chiede Erasmo da Rotterdam in “Moriae Encomium”, se non quello di piacere agli uomini quanto più possono? E conclude: “La donna è un animale stolto e senza sale, ma fa ridere, è dolce… Se la donna, talora, cerca di essere ritenuta saggia, non fa che mostrarsi doppiamente pazza…”. L’illuminismo, il grande mito della ragione liberatrice, non incide minimamente sul razzismo antifemminista. Rousseau si limita a concedere, nell’“Emilio”, che “l’arte di pensare non è estranea alle donne”. Il razzismo è sotterraneo, ma estremamente radicato nella cultura borghese nascente. E quando a tratti il pensiero borghese si libera dalla tutela dell’ipocrisia, ponendo a nudo la sua essenza razzista e rivelando la sua intrinseca, violenta crudeltà, lo stigma si fa esplicito. Il marchese De Sade, nella “Histoire de Juliette”, scrive: “Si esamini attentamente una donna nuda accanto ad un uomo della sua età, nudo come lei, e ci si persuaderà facilmente della notevole differenza che (a prescindere dal sesso) sussiste fra la struttura dei due esseri; si vedrà chiaramente che la donna rappresenta solo un grado inferiore dell’uomo; le differenze sussistono del pari all’interno, e l’analisi anatomica dell’una e dell’altra specie, se intrapresa insieme e con estrema attenzione, mette in luce questa verità”. I medesimi concetti, applicati ai negri ed agli ebrei, ricompariranno inalterati nelle opere pseudo-scientifiche naziste e, da noi, nelle pagine di Julius Evola e di “Difesa della razza”, la rivista fascista edita dal ’38 sotto gli auspici redazionali del fucilatore Almirante.
La discriminazione contro la donna, filtrata dal pensiero borghese, è sostanziata da un supporto filosofico, persuasione occulta quanto più autorevole. Schopenhauer, se da un lato definisce i negri “intellettualmente arretrati”, sostenendo che essi rifuggono dalla solitudine, riunendosi in gran numero, “perché non vedono mai abbastanza ripetuto il loro viso nero e ottuso”, dall’altro sentenzia che la donna è “come una grande bambina, una specie di grado intermedio fra il fanciullo e l’uomo, il quale è il vero padrone”; quindi, logicamente, “la donna non è chiamata a grandi opere, ciò che la caratterizza non è l’azione, ma la passione”.
Per Nietzsche, l’antisemitismo è una “mostruosità”; ma con ben altro metro di giudizio egli considera l’antifemminismo. In “Ecce Homo”, il padre di Zarathustra offre uno specchio fedele della posizione maschile verso il movimento di emancipazione: le donne che lottano per i propri diritti sono “le femmine minorate, quelle a cui manca la stoffa per fare bambini”. La stessa battaglia per l’uguaglianza dei diritti è disprezzata come un sintomo di malattia; e come va “curata” la donna da questo morbo? “Facendole fare un figlio”. Secondo Nietzsche, l’emancipazione rappresenta “l’odio istintivo della donna malriuscita, cioè di quella che non può procreare”. L’istinto più profondo, viscerale, di queste “disgraziate” è la vendetta. Ibsen, colpevole di aver dato un cervello ed una volontà decisionale al personaggio di Nora in “Casa di bambola”, è nient’altro che una “vecchia zitella”.
La serie di citazioni dall’antologia filosofica del razzismo potrebbe continuare; è un’ideologia lungamente maturata, sancita da un certo tipo di avanguardia intellettuale, alimentata e operante in ogni fase. Chi sostiene che l’antisemitismo è quasi scomparso, che la discriminazione razziale e l’antifemminismo razzista sono fenomeni isolati, è cieco. Il passaggio e l’estremizzazione del razzismo attraverso la storia hanno anzi indotto a considerare le sue espressioni quotidiane come fatti naturali, ad ipernormalizzarle. In una storiella dolce-amara, due abitanti di Monaco si incontrano e cominciano a parlare delle notizie del giorno. Il primo dice: “Hai letto sul giornale che, a partire da oggi, tutti gli ebrei e i barbieri verranno internati in un lager?”. “Davvero? — si meraviglia, l’altro — e perché i barbieri?». Nello stesso modo, la discriminazione antifemminista è penetrata ad un tale grado nella mentalità maschile, da aver rimosso la coscienza della sopraffazione razzista. I meccanismi di esclusione che colpiscono con Io stigma dell’inferiorità biologica la maggioranza oppressa, masse femminili, si perpetuano nei secoli mutando magari di forma ma non di sostanza: ai mercanti di schiave subentrano le agenzie matrimoniali, l’antitesi fra culto mariano e caccia alle streghe si prolunga nell’abisso scavato tra moglie e prostituta.