le segretarie
il potere dietro le quinte
testimonianze
Giovanna ha 28 anni, vive a Roma col marito, assistente universitario e con la figlia Simona, di 5 anni e mezzo. È segretaria di un avvocato (centomila al mese, tutti i pomeriggi, dalle 16,30 alle 9-10 di sera). «Perché ho scelto questo lavoro? Non è stata una scelta, era l’unica cosa disponibile». Rimasta orfana di madre a 14 anni, con un padre autoritario («che pretendeva che mandassi avanti la casa e studiassi») e una vecchia nonna prepotente. «Ho piantato l’università dopo due anni per sposarmi e sottrarmi a questa opprimente situazione familiare. Poi è arrivata Simona: l’ho tenuta io, da sola, per un anno e mezzo, ma capivo che se non cambiavo vita impazzivo. Perciò mi sono messa a lavorare».
Forzato penosamente il guscio di casalinga e madre a tempo pieno, Giovanna si è ritrovata alle prese con il ruolo non meno frustrante di segretaria tuttofare : «Sto in un grande studio legale, con quattro avvocati e una segretaria, io. Il lavoro è ripetitivo, noioso : battere a macchina gli atti, rispondere al telefono, aprire la porta ai clienti, scovare vecchie pratiche smarrite negli archivi. In più tutte le mansioni extra, da domestica e collaboratrice familiare (“mi scende a prendere le sigarette?” “mi batte a macchina il programma scolastico di mio figlio?” “mi paga queste bollette?” e così via). Fatalmente la segretaria finisce col fare il factotum». Oltre a questo rosario di grane e di rogne, Giovanna deve anche sorbirsi le confidenze e gli sfoghi del “capo”: «Tra principale e segretaria si crea spesso un rapporto ambiguo: all’inizio una deve stare a sentire, per dovere, poi va a finire che del” capo” una sa tutto, le storie di famiglia, i casini di lavoro, le crisi personali etc.». Per molte segretarie, osserva Giovanna, il passo da confidente-per-obbligo a amante part-time è facile : «Si vive con una persona tutto il giorno, si sa tutto di lei: sembra quasi naturale,” andare pia in là”». Da parte sua, Giovanna ha sempre respinto la corte subdola e tipicamente latina dei suoi capi («quelli che ti offrono il caffè, i fiori, te le passano tutte lisce ma non perché pensano che tu abbia diritto a qualcosa, ma come omaggio paternalista: a loro Importa che tu sia “bona”, un oggetto gradevole»).
Ammette però di trovarsi in difficoltà nel rompere del tutto con il ruolo standard della segretaria-oggettO: «C’è una situazione assurda nel mio ufficio : io detto legge perché il capo
me le passa tutte, dato che gli piaccio. Per ottenere qualcosa una è costretta a fare la donna vecchio stampo, tutta sorrisi e moine: a me non va, ma lottare da sola è arduo, finisce che fetentemente ne approfitto, per avere un pomeriggio libero, farmi dare un permesso e così via. Se lui si sente “uomo” e” importante” perché mi compra un mazzo di viole, se ragionano tutti col cazzo, se gli scherzi con i clienti e tra colleghi finiscono tutti” là”, col discorso sulla scopata e sulla “bona” di turno, che fare? Io discuto, litigo, combatto : ma spesso sento che sono parole al vento, che parliamo- due lingue diverse». In un ambiente fortemente qualunquista, di un formalismo spagnolesco («si danno tutti del” lei”, anche gente che lavora insieme da otto anni»). Giovanna soffre soprattutto per l’isolamento in cui si trova, per l’impossibilità di condurre una lotta insieme ad altre donne. «Una delle poche cose positive è il mio rapporto con l’avvocatessa dello studio: prima c’era un po’ di ruggine tra noi, perché lei si dava arie per vIa della laurea. Poi ha capito che anche lei -è una sfruttata (le danno cento mila al mese e deve mantenersi a Roma da sola, perché la famiglia sta a Viterbo) e siamo diventate amiche». Ma tutto il resto è difficile da digerire : «specie il fatto che, dopo una mattinata passata a fare i lavori di casa, esco e vado in un posto dove non uso il cervello, a fare un lavoro che Non mi coinvolge. Se resto lì, mi ritroverò tra vent’anni a fare le stesse cose: un pensiero insopportabile».