aborto

non berlinghiamo*

*Ciarlare, specialmente dopo aver ben mangiato e meglio bevuto: Devoto-Oli, Dizionario della lingua Italiana. Garzanti, s.v. berlingare.

marzo 1975

Ogni anno in Italia abortiscono centinaia di migliaia di donne, e in quali condizioni dipende dalla classe sociale alla quale appartengono. Cliniche private, senza rischi, tantomeno quello della galera per quelle che hanno parecchi soldi; mammana o pratiche di auto-aborto con il famigerato ferro da calza, decotti vari al prezzemolo o altro per le donne di borgata. Nel Sud anche le giaculatorie. Queste donne, quando non muoiono, rischiano la morte sempre. E tanto per ricordare solo una situazione di contrasto sociale. Quanto alle implicazioni psicologiche, beh, quelle riguardano tutte. Comunque portatore di morte è soprattutto l’aborto clandestino: in Italia di donne, ogni anno, ne muoiono migliaia. Nei paesi dove l’aborto è libero, la morta-. lità è invece di gran lunga minore. Queste morti mai ci si deve stancare di denunciarle e soprattutto di rinfacciarle al potere dello stato e della chiesa che le legittima e le benedice. Ma ora che per la lotta delle donne la parola aborto è sulla bocca di tutti i filistei, basta con la propaganda, con le petizioni. Ormai organizzazioni politiche e partiti possono prosperare con quello che è diventato «il problema sociale di attualità» e che tradotto suona «la pelle delle donne». Ne viene allargata la loro tematica ‘ ideale ‘ e amen! L’apertura infatti è solo cerebrale: il principio del rispetto della vita! Perché non sia mai che vengano abolite le norme, fasciste sull’integrità della stirpe, ci sarà un vuoto giuridico da riempire, e allora sicuramente la DC vorrà calarci dentro il rispetto della vita del feto. E il PCI?… Certo si deve tener conto del consenso delle masse cattoliche, se non proprio dei feti. Il fatto è che in Italia, per il contesto etico-sociale in cui viviamo, le leggi sull’aborto presentate dai vari partiti (e che traducono con grosso ritardo l’evoluzione della nostra realtà ‘ politica ‘) si ispirano necessariamente, cioè storicamente, al principio cristiano del rispetto della vita. Cristo! Anche quella del PCI, che esprime questo principio di rispetto della vita e non della ‘ persona ‘: un principio astratto quando elude un dramma umano concreto. E per il PCI l’aborto volontario resta un fatto delittuoso e punibile («multato»: bontà sua!). L’occidente: civiltà di colpa e di vergogna la nostra, (eredità della cosiddetta civiltà greca), sacralizzata dal cristianesimo, l’aborto lo abbiamo integrato alla nostra personalità come un «interdetto», nell’accezione di rito negativo per cui ci si deve astenere da un atto (quello sessuale) per ragioni religiose. Ed è per questo che nella legalizzazione che si vuole dell’aborto resta il rifiuto sociale, ed è questo rifiuto sociale che condanna la donna all’isolamento e alla clandestinità (non ‘ le ragioni intime ‘, come vorrebbe un’esponente del PCI): rinverdiscano dunque le radici della sua colpevolezza! Perché il conflitto, per la donna, è tra il suo desiderio cosciente dell’aborto e il suo destino storico alla maternità. La legalizzazione le ripropone questo conflitto, inchiodandola ancora una volta al suo corpo come sede del suo destino. Maternità responsabile? Ma vi può essere, quando con l’introiezione della ‘sua mistica non esiste ancora una ‘ fecondità responsabile? ‘Oggi per le donne solo il rifiuto della maternità può essere cosciente. L’accettazione avrà ancora per molto risvolti subdoli e sospetti. Coazione a ripetere un ruolo finché la società avrà come suo ‘ progetto ‘ la famiglia. Tutto ‘ il politico ‘ è lì, ed è lì che va ricercato prima che nella fabbrica e nella scuola. Ma sul ‘ politico ‘ facciamo solo della sociologia. La lotta, anche la lotta, ha sempre una casa dove si ritorna la sera. Nessuna legge può quindi sciogliere il nodo del problema che riguarda l’aborto volontario: significherebbe risolvere un conflitto di «interesse» (potere) tra l’individuo — e in questo caso la donna — e il gruppo sociale a cui la donna appartiene. Un gruppo sociale composto anche da medici, i quali, per la loro cosiddetta etica professionale, (solleciti dunque della vita in particolare di ciascun corpo, a prescindere dai problemi che pone la vita collettiva), sono traumatizzati dall’idea di interrompere la gravidanza, in nome appunto dell’astratto principio del diritto alla vita. E comunque rimettersi alla medicina, anzi ai suoi rappresentanti, per trasformare in ‘ necessità ‘ la ‘ volontà ‘ della donna di abortire, sulla base di ragioni personali, sociali o mediche, -significa adottare lo statuto di una civiltà primitiva, quello dello stregone, che in una comunità, tra le sue funzioni, aveva anche quella di esorcizzare la volontà del singolo. Le donne vorrebbero che legalizzazione significasse tutela di un loro diritto, quello all’aborto, proprio perché abortire è una violenza. Tutela dunque in strutture sanitarie che vanno ancora tutte conquistate. Non ghettizziamo l’aborto in progetti di legge, che lo ghettizzano proprio perché continuano a responsabilizzare socialmente la donna, penalizzandola se lo fa fuori da strutture sanitarie che ‘ adeguate ‘ non esistono neppure sulla carta di una riforma. E finché non ci saranno queste strutture, continuerà a fiorire il circolo speculativo di ‘ clandestinità-penalizzazione ‘. .Io credo che a questo punto tra le donne la riflessione politica sia matura perché l’aborto venga imposto come una pratica. Pratica di donne per le donne. Non ‘opera sociale ‘ perché le donne continuino passivamente ad abortire, pratica di massa perché le donne, prendendo coscienza, non abortiscano più. Certo oggi la lotta delle donne non sempre ha un segno di classe. I suoi aspetti sono vari e contraddittori perché questa lotta passa anche attraverso le pastone del riformismo, del femminismo ideologizzante e dell’individualismo piccolo borghese. Ma i pericoli sono grossi: quello di una prassi riformista che rifiuta l’autonomia e si ufficializza e legittima in ‘commissioni femminili’ all’interno delle organizzazioni politiche, e quello soprattutto del femminismo ideologizzante con la sua matrice individualista e piccolo borghese della donna che ricerca un’identità non come donna ma come ‘ femminista ‘. Viene assunta così un’identità (una denominazione), che spesso serve solo a giustificarci della nostra passività ‘storica’, una passività che ci permette solo scelte ideologiche (e possiamo farle proprio perché siamo borghesi e piccolo borghesi!). Non ci permette cioè una scelta politica che è «fare con coscienza di fare».

Una dichiarazione di ‘femminismo’ in questo senso può bastare solo a noi stesse e (e il sospetto è grave!) al nostro rapporto personale con l’uomo. Diventa quindi solo l’acquisto di un privilegio rispetto alle altre donne, significa attuare il separatismo con loro, non con gli uomini dei quali diventeremmo, paradossalmente, alleate per uno scontro di potere sulla base di una centro-ideologia, quella «femminista»: patrimonio nostro e non certo della massa delle donne. Il femminismo quindi come scelta ideologica è una scelta di privilegio, come lo è per l’intellettuale la scelta solo ideologica della lotta di classe. E’ la scelta politica quella che conta, e oggi l’aborto è una scelta politica.