bologna/convegno sulla repressione
il disagio di essere femministi
«… perché se eravamo lì insieme non riuscivamo a tirare fuori del contenuti nostri. Compagne, esistiamo, abbiamo una nostra storia alle spalle e tante cose ancora da dire, da fare, da inventare».
disagio, incertezza, paura me le ero portate appresso da Roma, dall’assemblea al Governo Vecchio che ci aveva viste divise, disorganizzate, confuse. Bologna: convegno sulla repressione, scadenza esterna al nostro movimento ma esterna solo perché indetta da altri, dai maschi, che sui loro giornali, nei giorni precedenti al convegno, non avevano mai menzionato le compagne femministe; tutti erano convocati al convegno, anche gli omosessuali, ma le femministe no, come se non fossero una realtà, come se la repressione fosse un tema che non riguardasse noi donne. Dicevo scadenza esterna, ma per molte di noi non era proprio così, sentivamo di avere molto da dire sul tema del convegno, molto più dei nostri compagni maschi. Il problema era quello di partecipare in modo autonomo, di portare la nostra rabbia, le nostre frustrazioni, i temi della nostra repressione specifica di donne a Bologna. Quando ci siamo ritrovate, venerdì pomeriggio, eravamo tante e questo era già di per sé un dato positivo, c’era in tutte la voglia di incontrarsi, di ritrovarsi, di stare insieme, di organizzarsi come donne in mezzo alle migliaia e migliaia di compagni che affollavano le strade e le piazze della città. C’era anche in me e credo in molte altre donne presenti, un senso di aspettativa, non so come spiegare, forse il desiderio e la volontà di contare, di farci sentire come presenza viva, organizzata, ricca, autonoma, ma nel corso dell’assemblea questo senso di aspettativa, questo iniziale entusiasmo si è perduto. Molte compagne sono riuscite a parlare, credo con grosse difficoltà, molte compagne hanno espresso l’esigenza di non restare al di fuori del convegno, il termine ghettizzazione era presente nei loro interventi. Quelle di Bologna esprimevano la necessità di politicizzare i nostri contenuti, di rapportarsi ai processi reali che si svolgono e quindi confrontarsi col movimento degli studenti, dei non garantiti ecc..
Un gruppo di donne che si occupava dell’informazione hanno ricordato alle compagne presenti la strumentalizzazione e il condizionamento operati nei confronti delle donne attraverso gli organi di stampa, la radio, la televisione e la pubblicità. Anche loro affermavano la necessità di un confronto aperto con la città di Bologna, con le donne rimaste nelle case per paura, per il terrore che nella loro città fossero scesi i vandali, fosse in atto ‘a rivoluzione e chissà che altro.
Le compagne di Padova hanno ricordato che da loro la repressione era particolarmente violenta, che molte compagne si trovavano in galera, che il livello di scontro con gli organi dello Stato era molto alto. Tra l’altro ci hanno informato che alcuni gruppi di Padova avevano promosso un convegno veneto sulla repressione e la compagna ha proposto che venisse indetto per i primi mesi del prossimo anno un convegno internazionale su questo tema. La proposta è stata poi ripresa da altre donne di altre città, è stato come un appello a ritrovarci tutte insieme per una scadenza interamente nostra. Non sono mancati interventi molto vicini all’isterismo, la sala dove ci trovavamo era insufficiente a contenerci tutte, per arrivare al microfono ci si impiegava mezz’ora, molte si sentivano escluse dal dibattito, alcune hanno pianto. Tra chi sosteneva che non bisognava parlare solo di aborto e di maternità e chi invece rivendicava la priorità del proprio vissuto e personale ci sono stati gli interventi delle compagne del sud che ci hanno buttato in faccia la loro realtà assurda e fuori del tempo, loro per venire al convegno avevano subito minacce e umiliazioni, le donne del sud se parlano di femminismo sono puttane. Devo dire che più si succedevano gli interventi e più il mio disagio cresceva, mi chiedevo perché, se eravamo tante, lì insieme, non riuscivamo a tirare fuori dei contenuti nostri, delle proposte concrete per partecipare a questo convegno, e non era solo mio il disagio, a poco a poco la sala si svuotava, le compagne se ne andavano forse con lo stesso senso di impotenza e di vuoto che in quel momento io sentivo molto forte. Ho ripensato alla crisi che investe il movimento, ai collettivi che si sfasciano, alle divisioni ancora esistenti fra vecchie e nuove femministe, ai tentativi di prevaricazione delle «autonome».
Il giorno dopo non sono riuscita a trovare le compagne che si erano riunite in posti diversi per poi confluire al palazzo dello sport dove hanno subito le ironie e la violenza dei «compagni» autonomi lì presenti. Appuntamento domenica mattina per parlare della nostra partecipazione alla manifestazione; un disastro, eravamo sedute in una piazza, sotto un colonnato, con un solo megafono a disposizione che non permetteva alla maggioranza delle compagne di seguire il dibattito. In tutte, credo, c’era paura per quello che avrebbe potuto succedere, paura di ritrovarsi in quella città sconosciuta a subire iniziative di gruppi organizzati con possibili scontri e cariche della polizia. Ho sentito molte compagne che dicevano di voler andare alla manifestazione insieme ai maschi che conoscevano meglio perché così si sentivano più sicure, altre che dicevano di voler partire prima della manifestazione, ma alla fine ha prevalso la posizione di quelle che volevano formare uno spezzone di corteo di sole donne e poi così è stato. Anche quelle che in un primo momento erano diffidenti e volevano andare con i maschi, si sono unite a noi e così l’ultimo ricordo di Bologna e di noi donne è quello di un corteo molto bello, ricco della nostra creatività, della nostra voglia di essere presenti autonomamente, dei nostri slogan ironici, alcuni vecchi e già sentiti, altri inventati sul momento, canzoni, girotondi, il superamento della paura. Ma resta un senso di disagio, di insoddisfazione, di cose non fatte e non dette, di una forza non espressa. Credo che molte compagne parleranno di questo convegno e di quello che ha significato per noi donne, credo che almeno il ritrovarci insieme e in tante dopo parecchio tempo sia servito a molte per avere un momento di riflessione sul da farsi, sul come andare avanti. Noi ci siamo, compagne, esistiamo, abbiamo una nostra storia alle spalle e tante cose ancora da dire, da fare, da inventare. Certo, restano molti interrogativi, molti problemi aperti, non ultimo quello del nostro rapporto con il movimento più in generale, questa è una cosa che a Bologna ci ha accompagnato sempre perché io credo che, a parte la posizione particolare delle «autonome», c’era in molte compagne l’esigenza di rapportarsi con l’esterno, con la politica, l’esigenza di trovare un maggiore collegamento tra privato e pubblico, di uscire dalla logica del piccolo gruppo, del fare solo autocoscienza. Non si tratta di rinnegare la nostra pratica femminista, la parola d’ordine del personale che è politico, ma si tratta piuttosto di trovare nuove strade per esprimere contenuti nostri che ci sono nella realtà ma che ancora non siamo riuscite a portar fuori. Si tratta di analizzare i motivi di un generale riflusso del movimento e di aprire un dibattito su queste cose per non restare al livello di denuncia o ancora peggio di auto-commiserazione di fronte alla crisi che ci investe.
Sara Marino
dibattito in redazione
Posizioni a confronto in un dibattito con Eleonora, Enrica, Paola, Sara e Chantal.
«… A Bologna mi sembrava ci fosse la possibilità di esprimere questa mia voglia dì vivere e di cambiare. Ho imparato che ho un’identità politica solo se collettiva».
Eleonora – A Bologna l’esigenza di noi donne di discutere della repressione era più che altro l’urgenza di essere dentro fino in fondo a un movimento politico e di dimostrare in un certo modo che anche noi eravamo interne, partecipavamo sul terreno specifico di questo convegno.
A me sembra che per molte compagne essere dentro questo movimento volesse dire pronunciarsi sui temi «germanizzazione, attacco dello Stato…», perché altrimenti non si faceva politica. Questa, tutto sommato è una cosa abbastanza vecchia, un modo superato di porre il problema della politicità del movimento femminista. E nei due giorni del convegno abbiamo cercato di superare questa falsa contrapposizione tra la politica in senso strategico e stratosferico, posta da alcune compagne, e dall’altra parte il rifiuto del confronto su un terreno politico. Il problema secondo me ancora irrisolto, era capire quale è la nostra collocazione come movimento in questo momento; con tutta una serie di contraddizioni che abbracciano la situazione generale.
Per fare un esempio classico prendo l’aborto e tutto quello che sta succedendo e quello che è successo sulla nostra pelle, determinato non solo dalla generica cattiveria di una forza politica o di un’altra, ma da tutta una serie di equilibri politici, rispetto ai quali non abbiamo saputo orientarci, capire cosa stava succedendo.
Enrica – Secondo me, malgrado non ce ne siamo rese conto immediatamente lì, tutto sommato siamo riuscite a mettere in crisi la concezione che «la politica è maschile, sui temi degli uomini» oppure non è politica, è altro. Il fatto stesso che una parte del movimento femminista era a Bologna, e non con gli emarginati genericamente — cosa che a mio parere, se viene intesa in questa maniera ci annulla come movimento, — ma autonomamente a fianco di un movimento che oggi è l’unico che raccoglie un’esigenza di opposizione, è stata una precisa scelta di campo. Il fatto di stare a Bologna era ancora di più una spinta a cercarci, a capire su quali temi ci potevamo muovere, cosa in realtà volevamo fare lì, insomma ragionare sulla nostra esigenza di politicità, cosa era e come si poteva tradurre.
Credo che il discorso «possiamo stare qui solo se si parla della repressione o della manifestazione» è stato abbastanza emarginato. C’era un certo senso d’inferiorità nei confronti del convegno, ma c’era ancora di più una ricerca di identità.
Paola – Mi è difficile collegarmi con le cose che state dicendo. Comincio spiegando perché sono andata, a Bologna. Credo di averlo capito veramente solo dopo il convegno.
Io sono andata con la chiarezza di cercare un’identità complessiva e politica di movimento e nello stesso tempo non avendo nessun bisogno di «partecipare al movimento degli studenti». Sono andata lì dopo una scelta di sei mesi di non fare più politica in un’organizzazione e neanche più nel movimento femminista. Ho mantenuto il piccolo gruppo, che è diventato progressivamente un piccolo gruppo di amiche, molto bello e con momenti molto intensi, ma nello stesso tempo ha cominciato a produrre molti «obblighi, vincoli» e in fondo una sensazione di inutilità.
Non ne potevo più della scelta di lavoro che avevo fatto perché mi impediva di esistere e mi scindeva tra quello che ero e facevo sul lavoro e quello che ero e volevo nel resto della vita. Io sono andata quindi perché improvvisamente mi sono resa conto che ero sola, che avevo fatto poco e niente in tutti i mesi passati. Ero ormai persino piena di invidia, di paura e di «ribellioni» nei confronti dello stesso movimento degli studenti. Io sono andata proprio per questo, perché mi è scoppiata nella testa la consapevolezza di essere sola, di aver fatto poco e niente in sei mesi per me e con le compagne.
Io non ho mai amato questo movimento di studenti, come non ho mai amato gli indiani, anzi ho fin dall’inizio avuto una reazione nei confronti dei loro slogans, dei loro volti dipinti, dei loro balli, dei loro ululati; stavo molto male quando sentivo che anche noi, anziché inventare degli slogans nostri, ne gridavamo alcuni inventati da loro. Già da quindici giorni avevo deciso di trovarmi con altre donne, per capire e sentire cosa pensavano e cosa volevano fare, ma a,Roma, nelle assemblee prima di Bologna mi sono sentita ancora più repressa. Volevo dire delle cose sulle affermazioni che venivano fatte ma stavo zitta; avevo reazioni di rabbia e di collera nei confronti di alcune compagne, ma mi reprimevo, perché mi dicevo che non era questo il modo di confrontarsi, di conoscere le differenze.
Insomma negli ultimi giorni mi sono ritrovata come tre anni fa: con i miei schemi politici «le autonome, l’Udi, ecc.», con l’aggressività, con la competizione.
Sono quindi andata a Bologna per trovare le donne e per avere con gli uomini presenti, molti dei quali non rivedevo da mesi, dei momenti di public-relation.
Insomma mi sono detta faccio una vita un po’ sciolta, non so dove dormo, ho solo il sacco a pelo, non so dove mangio, ho pochi soldi, ho voglia anche di stancarmi perché se tornerò a Roma e dormirò due giorni sarà perché avrò fatto qualcosa.
A Bologna non mi sono mai sentita in contrasto con il convegno, anche perché ho avuto la consapevolezza della nostra debolezza, ho verificato che eravamo arrivate quasi tutte individualmente, disorientate e quindi non potevo avere interesse ad andare da sola a sentire cosa si diceva sulla «germanizzazione» o sul problema del «linguaggio» nel movimento degli studenti.
Sara – Volevo capire un po’ meglio questo problema dell’«invidia», del tuo non «amore» nei confronti degli indiani. Sentivi un problema di espropriazione di contenuti…
Paola: Credo di sì. Devo dire che a me è successo e succede spesso di avere momenti di rifiuto nei confronti dei compagni che più sembrano vicini, che dicono «io vivo, io sento…».
Paola – Perché sai, mentre i più scoperti, quelli che hanno questo atteggiamento per opportunismo ormai riesco a capirli e riesco in parte a difendermene, ho «paura» di coloro che, magari per una reale emarginazione vissuta riescono a «recuperarci» su una strada di neutra «creatività, gioia, personale» di emarginati.
Enrica – Io a Bologna non ho avuto mai il problema di non stare con le donne, proprio perché per la mia storia politica degli ultimi mesi, sono sempre stata interna a questo movimento dell’Università, però sempre e solo tra donne, sono andata a Bologna non tanto perché nella commissione donne e politica di cui faccio parte, avessimo avuto chissà quale livello di discussione su questo, ma perché comunque ne avevamo discusso e a mio parere avevamo esposto delle esigenze che non nascevano solo dalla nostra storia personale, ma dalla storia politica del nostro collettivo. Noi rivedevamo a Bologna, riproposto in termini numericamente enormi, lo stesso problema che ci andavamo ponendo da sei mesi. La ricerca di una nostra autonomia, di una nostra identità, all’interno in qualche modo di un movimento più generale. Quanto al problema degli indiani è vero che moltissime donne e studentesse andavano con loro e si ritrovavano; c’era uno strano miscuglio e questo mi ha creato dei problemi; non mi sono sentita espropriata di slogans, balli e canti, ma di identità, cosa forse più grave. Ho visto la mia incapacità di distinguere quale era la differenza tra me come donna, il mio movimento femminista e gli emarginati, i non garantiti e tutti coloro che andavano riunendosi all’università. C’è stato un intreccio tra questi problemi in cui si perdevano completamente i confini, perché essere donne non sembrava molto diverso dall’essere studente sottoccupato, quando invece è molto diverso.
Io rivendico fino in fondo questa cosa ma non sono stata in grado di definire quale era questa differenza, personale, politica, come movimento, come prospettive.
Sara – Tu questo lo hai vissuto a Roma, all’Università, ma pensi che a Bologna le compagne lo abbiano sentito, e siano riuscite a trovare il nocciolo del problema a ritrovare la propria identità all’interno del movimento più in generale o no? Io credo di no.
Enrica – Anche io credo di no, nel senso che è un processo molto lungo.
Sara – Io non ho mai sentito il problema altrove, io sono andata a Bologna con altre compagne che conosco da anni, con cui abbiamo avuto esperienze politiche comuni prima nei gruppi, poi siamo uscite e abbiamo fatto il piccolo gruppo, e alcune di queste compagne per esempio si sentivano talmente male all’interno di queste riunioni di donne, in cui non si capiva niente, in cui si stava veramente male, c’era confusione; queste compagne hanno preferito andare a sentire cosa dicevano i compagni, commissione fotografia ecc. Questa cosa mi ha lasciata abbastanza perplessa.
Enrica – Io penso che il motivo profondo sia quello che dicevo prima, questa difficoltà di capire chi siamo, disagio anche fisico. Ad esempio alla riunione di ingegneria c’era una sala lunga trenta metri, strettissima, con un soffitto basso, e noi eravamo in mille. Insomma anche fisicamente era insopportabile, opprimente, più che repressione era compressione.
Esiste sicuramente la difficoltà di esprimersi in un’assemblea di mille persone, io personalmente è una cosa che non ho mai vissuto, perché riesco a parlare nelle assemblee, sono invadente e aggressiva, ma in questa non è una cosa di tutte.
Io credo di aver superato questo disagio perché volevo delle cose lì e non le volevo fare altrove. Mi sembrava che la mia presenza avesse un senso soltanto lì. Io ho imparato in questi anni che io ho un’identità politica solo se è collettiva, con le altre donne. Se andavo all’assemblea dei compagni potevo sentire, fare la spettatrice, ma non essere soggetto.
Chantal – Io personalmente questo gran disagio non lo sentivo, non l’ho mai sentito, forse per una certa assuefazione alle difficoltà.
Sono partita per Bologna perché sentivo che lì, come già nei momenti di preparazione a Roma, c’era una spinta vitale fortissima e io sono andata più per un fatto emotivo che per una riflessione di altro tipo. Questa vitalità, questa voglia di liberazione collettiva io l’ho sentita diffusa, forse perché ne avevo particolarmente bisogno. Avevo l’impressione nel movimento ci fosse una certa stanchezza delle compagne, in me stessa forse principalmente, un qualche vuoto di proposte, e affettivo, molti ripiegamenti su noi stesse. Invece lì mi sembrava ci fosse la possibilità di esprimere questa mia voglia di vivere e di cambiare e che probabilmente avrei incontrato delle donne, e difatti alla fine sono rimasta sempre con le donne, tra l’altro sono andata con una mia amica e abbiamo vissuto assieme questi tre giorni, ed è stata una esperienza positiva.
Non ho voluto vivere invece il momento di contrapposizione politica che era il Palazzetto dello Sport. Non ci sono andata per nulla e non ho sentito il grande disagio per le cose che lì succedevano.
Fra l’altro, mi sono accorta che questo movimento veniva spacciato per un movimento che teneva conto delle esigenze delle donne e invece è un movimento profondamente maschile. Nella riunione che c’è stata il pomeriggio del sabato, siamo riuscite a superare il livello «bisogna parlare della repressione perché questo è il convegno sulla repressione», «come incidiamo» e tutti i problemi collegati, e a ritrovare un momento di affettività, di profondità di esperienze vissute, di testimonianze che mi ha dato la ragione del mio stare lì. C’è stata per esempio una testimonianza di una compagna della Basilicata sui suoi rapporti con la famiglia, con la gente, di come è considerata una diversa, una da tenere alla larga nel paese dove abita; mi ricordo un’intera aula di 200 donne che si è commossa, tutte a piangere. Non era il pianto di disagio, ma già un fatto collettivo di rabbia e di volontà di lotta. Improvvisamente ci siamo tutte identificate con lei anche se probabilmente la sua situazione è estremamente più dura di quella di molte di noi, che magari abbiamo gli pseudo vantaggi della città ma soprattutto la possibilità di incontrare altre donne, una sede, varie sedi di quartiere. Lì tutto questo non esiste ed è chiaro che questa compagna si sente una pazza, la fanno sentire pazza. Si è creato allora questo momento di unità che superava qualunque tipo di posizione prestabilita per esempio sul dilemma se andare al corteo come spezzone femminista, o mischiate nel corteo dei compagni, o non andarci affatto. Ecco io non ho sentito un grande disagio perché quello che mi aspettavo era un momento di incontro e forse di ricarica e ho trovato un momento di speranza. Poi il fatto che a Bologna ci fossero tante, veramente tante compagne giovani, che sentito talmente presenti con tutti i loro problemi, con tutta la loro volontà di trasformazione, per me è stato molto importante; cioè non ho sentito una situazione sclerotizzata, di un femminismo vecchia maniera che ripropone certi schemi, certe situazioni in modo elitario; lì di elitario io non ho sentito niente. C’erano invece esigenze molto grosse, che tra l’altro non sono più per esempio legate alla problematica della doppia militanza, ma la questione si poneva in tutt’altri termini. Il nostro stare là in maniera separata era già di per se il superamento della doppia militanza, era una ricerca di identità come donne e come movimento politico. Da questo punto di vista mi sembra una fase più avanzata rispetto a qualche anno fa.
Chantal – C’erano donne che avevano il problema del lavoro; abbiamo visto donne che erano state sbattute dalle città nei paesi.
Paola – C’erano alcune situazioni molto significative, di repressione anche, che hanno permesso senza contrapposizioni molto dure di saltare subito il problema autonome non autonome, oppure «andiamo o non andiamo alla manifestazione», parlandone. E quindi la sensazione di questo sabato, come in parte della domenica e del corteo è stata positiva, è stata di molta carica.
A me mi ha molto caricato.
Eleonora – Io ho l’impressione che come il feticcio indiano adesso sta venendo fuori il feticcio autonoma, nel senso che spesso alcune compagne ne parlavano vedendole puramente e semcemente come quelle che ci portano un modo di fare politica vecchio, maschile, che vengono li a fare delle operazioni chiaramente strumentali che sono tra l’altro così plateali che non c’è neanche il problema di smascherarle. Sono apertamente operazioni politiche nel senso più tradizionale, però mi dispiace che spesso le compagne si fermano a questa osservazione. L’autonomia e quindi alcune autonome sono una forza politica e come tale si comportano e questo è un ordine di problemi; ma c’è anche tutta un’altra serie di cose che riguardano da una parte il movimento di lotta, dall’altra noi e il nostro interno.
Chantal – tra l’altro l’unico gruppo o comunque quello che meno ha tentato in questi anni operazioni opportunistiche di recupero nei confronti del nostro movimento è stata l’autonomia operaia. Se guardiamo AO, LC, il PCI non ne parliamo neppure, tutti hanno operato in maniera opportunistica.
Eleonora – la presenza delle compagne organizzate dell’autonomia ha una caratteristica che ripropone in modo speculare il comportamento degli autonomi dentro l’assemblea del movimento degli studenti «perché porco… compagne c’è la repressione». Nel movimento adesso si parla tanto delle 16enni. Anche lì altra etichetta che serve per identificare dei settori di movimenti femminili che in qualche modo sono eterogenei rispetto a quello che è stato tradizionalmente il movimento femminile e si parla di vecchio femminismo e di nuovo, si parla di compagne che sputano sull’autocoscienza (oltre che su Hegel). Io sto in un collettivo di facoltà all’Università che è stato sempre dentro al movimento, in senso lato, ed è stato sempre coinvolto nei suoi problemi; nel mio collettivo ci sono moltissime compagne che hanno le esigenze più disparate, che pongono un sacco di problemi. Non è insomma vero che tutte le donne avessero le stesse esigenze, cercassero gli stessi strumenti, si riconoscessero immediatamente nella nostra pratica. Ad esempio tutte queste compagne che non hanno vissuto l’esperienza dei «gruppi» e che cominciano a far politica attraverso il femminismo, hanno una richiesta enorme di politicità immediata.
Chantal – credo sia estremamente positivo che ci sia la critica che arriva nel movimento, che rimetta in discussione o almeno vuole discutere molte cose che per noi sono acquisite, ormai patrimonio di tutte le donne, perché vuole comunque dire che il movimento femminista è vitale, esiste.
Sara – voi non avete partecipato all’assemblea del venerdì pomeriggio a Bologna ma io si e questa cosa mi ha sconvolta. Credo che se non avessi avuto il compito di seguire il convegno per Effe mi sarei data. Immaginate un’assemblea di 3.000-4.000 donne che non riusciva a uscire fuori da un certo tipo di problematica. Come partecipare a questo convegno,
se era giusto starci, che tipo di contenuti dovevano portare e non ne è uscito fuori niente, soltanto un appuntamento per il giorno dopo. Credo che discutere di queste cose e di tutto quello che dicevate prima sia sentito molto dalle compagne più giovani del movimento, che appunto a Bologna erano moltissime.
Enrica – come dicevo all’inizio, il nostro problema di identità è veramente immenso, non ce lo possiamo costruire più in negativo, dicendo io sono diversa da… in questo momento o ci costruiamo un’autonomia, dire «io sono questo».
Chantal – anche le nostre battaglie se ci fate caso, come il processo e la manifestazione di Claudia ecc.. sono state sempre battaglie difensive, non riusciamo a fare una cosa propositiva perché non sappiamo chi siamo.
Enrica – ora per tutto quello che ci sta succedendo intorno, per i nuovi problemi che ci pongono le compagne che arrivano, per la nostra situazione interna, dobbiamo cominciare a capire che il separatismo non può più essere una cosa difensiva, dobbiamo dire «ci riuniamo separatamente perché siamo qualche cosa».
Paola – Io forse non ho capito. Non c’è il rischio di sbagliare strada un’altra volta. È vero che noi ci muoviamo solo difendendoci, ma perché secondo me, più che un anno fa, esiste una repressione e una oppressione che si accentuano. Io sento l’offensiva su tutti, il lavoro, il movimento femminista, la coppia ecc..
La nostra scoperta come femministe è stata che non esistevamo in quanto donne, che non abbiamo storia, non abbiamo cultura, non abbiamo identità, e comunque non abbiamo memoria…
Chantal: però il movimento, se ti ricordi, è esistito quando ha fatto una proposta di vita, la negazione è morte ed io ho sempre sentito la vita nel movimento.