le così dette pazze

«tentano di farti diventare folle sfruttando le difficoltà reali che ci sono nel sostenere la propria ” devianza “, la propria ricerca di essere donna in modo diverso, ti fanno sentire in mezzo alla cosiddetta normalità e la cosiddetta anormalità. Si terrà a Firenze il 12 novembre un preconvegno sul tema “donne e pazzia”».

ottobre 1977

all’Ospedale Psichiatrico di Trieste dal 13 al 18 settembre c’è stato il III «Reseau Internazionale di alternativa alla psichiatria». Questi incontri annuali, iniziati a Bruxelles nel 1975 sono nati «dal malessere di molti interessati che si riallacciavano più o meno a ciò che un po’ sommariamente è stato chiamato ‘antipsichiatria’». Non mi soffermo sul Convegno del quale ampiamente hanno parlato i giornali, vorrei solo riportare alcune riflessioni sul rapporto che c’è stato tra le donne e il convegno, e perché siamo arrivate alla decisione di rivederci a Firenze il 12 novembre.
Sin dal primo giorno parlando con le compagne femministe presenti {le donne in generale erano tantissime, specialiste e non, femministe e non, venute da tutta l’Italia, oltre che dalla Svizzera, dal Belgio, dalla Francia, dalla Germania etc.) è sorto il problema di come rapportarsi al Convegno, che non ci soddisfaceva iniziare il dibattito «donna e follia» solo il III giorno, come risultava dal calendario ufficiale, che avevamo bisogno di confrontare esperienze, di discutere sulla «follia», problema che ci toccava un po’ tutte direttamente, e non solo le operatrici o le psichiatrizzate.
Il bilancio del primo giorno era stato abbastanza negativo. Di fronte allo scontro tra l’equipe di Trieste ed il «movimento» ci si sentiva un po’ in mezzo, quasi inevitabilmente costrette a decidere «per chi tenere», con la costante frustrazione di sentirsi esterne ai termini del dibattito generale che si svolgeva, con il continuo bisogno di ricollegarsi al proprio particolare, ma vivendo questa esigenza in parte con un senso di colpa. Nel momento culminante della tensione la sensazione che provavo era che non sapevo proprio che ruolo avere, anche se mi interessavano i contenuti dello scontro. Lì nell’arena si scontravano, volavano spintoni, ed io dall’altra parte dell’arena guardavo soltanto i leoni, estranea però alla grande battaglia ed alle grandi decisioni. In questo ci si sentiva un po’ gli «angeli del particolare», dopo essere state per tanti anni gli «angeli del ciclostile».
Ma forse proprio qui sta l’errore: vivere come generale ciò che generale è solo in tendenza, accettando in ultima analisi la distinzione di «movimento» da una parte e femministe dall’altra. Mi spiego meglio: se ipotizziamo che il cosiddetto «movimento» è ancora prevalentemente un movimento giovanile, di operai, di studenti, ma specialmente e soprattutto giovanile (perciò con una sua specificità, con una sua pratica particolare); il riflettere su questo, senza assolutamente con questa operazione volerne rifiutare l’importanza, può permettere alcune considerazioni, alcuni temi di dibattito, da verificare anche con le compagne che sono andate a Bologna:
– Smettere di sentirsi gli «angeli del particolare», credendo di non avere chiarezza su quali rapporti avere con questa realtà, vivendola inoltre, certe volte con paura, come il «generale» con cui prima o poi dovremo confrontarci. Probabilmente la nostra forza sta nell’approfondimento, nella riflessione collettiva delle nostre tematiche, collegate anche ad aspetti più complessivi, che quando ne avremo l’esigenza confronteremo con altri movimenti.
– Non sottolineandone la reale specificità si corre il rischio di creare una falsa frattura tra noi ed il «movimento», non ritrovandoci contenuti corrispondenti, battaglie comuni. Questo rischia di avvenire non solo con movimenti come il nostro, ma anche con altri settori che giovani non sono e che lottano su altre specificità, su altri temi.
Ritornando al Convegno di Trieste già al secondo giorno decidemmo di trovarci tra donne senza aspettare l’inizio ufficiale della commissione. E per tre giorni abbiamo discusso, in mezzo a mille contraddizioni; eravamo compagne femministe e non, cosiddette esperte e non, psichiatrizzate e non, ma si è concretamente visto, vissuto, che se riunite su di. un problema specifico, possiamo iniziare a confrontarci, produrre contenuti, costruire anche nuovi metodi di comunicazione e di riflessione: confrontando vissuti, esperienze particolari coi bisogni collettivi che volta per volta si manifestano; successivamente approfondendoli, riflettendo se sono realmente esigenze rappresentative di tutte. Per innescare questo processo è però necessario fissare i contenuti che volta per volta sviluppiamo, non disperdendoli in mille rivoli, come spesso accade. Infatti penso che una delle cause delle nostre attuali difficoltà dipende anche da questo. Troppo spesso le nostre tematiche vengono sviluppate da chi con il movimento non c’entra, troppe volte non riusciamo ad unirci su pratiche collettive. Diversi sono i temi usciti durante il dibattito, che per lo più non siamo riuscite a sviluppare, visto la spontaneità dell’incontro e il poco tempo a disposizione. Li riporto necessariamente schematizzati, probabilmente scordandone alcuni:
1) Già al primo incontro spontaneo è emerso il tema centrale, quello cosidetto delle «due follie».
Nella nostra società non è necessario essere rinchiuse in un manicomio per essere definite, etichettate come «matte», ma basta essere donne che rifiutano ruoli, modelli, modi di essere precostituiti, basta non voler essere «femminili». Per molti benpensanti essere femminista equivale ad essere pazza, diversa, deviante, sospetta; e ti giudicano continuamente, ti emarginano, ti rendono la vita difficile. Inoltre a questo si aggiunge la difficoltà reale, di praticare il femminismo, di praticare cioè la «devianza» rispetto alla norma «figlia-moglie-madre». Infatti nel processo di coscienza e conoscenza, nel processo di distruzione delle false sicurezze precedenti, dei ruoli tradizionali, della famiglia tradizionale, c’è il rischio di trovarsi scoperte, indifese, di aver distrutto una propria falsa precedente identità, senza però un nuova alternativa. Rischio di follia è stato definito, intendendo per follia il non riuscire più a difendersi, a sviluppare azioni di critica, il non riuscire a costruire alternative; operando perciò in questo una distinzione tra follia e devianza, ritenendoci tutte «devianti». Tentano di farti diventare folle sfruttando le difficoltà reali che ci sono nel sostenere la propria «devianza», la propria ricerca di essere donna in modo diverso, ti fanno sentire in mezzo alla cosiddetta normalità e la cosiddetta anormalità».
2) Per altre compagne, specie le non più giovani, la pratica femminista è stata invece un’esperienza di «allontanamento dal rischio di follia», momento di forza per non essere più una casalinga nevrotica, chiusa nella propria dimensione unilaterale senza alcuno sbocco.
3) Sono state riportate da una compagna di Torino esperienze di come socializzare la propria pratica femminista alle donne con cui si è quotidianamente in contatto all’interno degli Ospedali Pschiatrici, di come usare collettivamente nei reparti la pratica dell’autocoscienza, come momento anche di crescita politica.
4) Sono stati criticati gli psichiatri anche più avanzati che continuano a giudicare le donne psichiatrizzate in base a modelli precostituiti dei ruoli familiari, se buona moglie e buona madre, psichiatri che magari da anni teorizzano e lavorano in comunità terapeutiche senza però quasi mai intaccare, mettere in discussione i propri rapporti «privati».
5) Si è iniziato a demistificare la portata antirepressiva della promiscuità negli Ospedali, se tra le donne non è iniziato parallelamente un processo di autocoscienza sulla propria sessualità e sulla riappropriazione di sé stesse; non avvenendo ciò, nella maggioranza dei casi i rapporti sessuali diventano «liberatori» per un membro solo della coppia, cioè il maschio.
6) Si è visto come spesso il decentramento sul territorio, centri esterni per la salute mentale, delegano ulteriormente alla famiglia, cioè alla donna, la gestione del malato o del dimesso dall’Ospedale Pischiatrico.
7) Inoltre si è anche affermato che non ci può essere nessun progetto di psichiatria alternativa se non possiamo imporre i nostri contenuti. Alla fine del III giorno di dibattito, proprio perché risentivamo della superficialità e del poco tempo avuto, abbiamo deciso di rivederci e di continuare la discussione, anche con le compagne straniere.
Per questo si è concordato di incontrarci a Firenze il 12 Novembre alle ore 9 all’Ospedale Psichiatrico (Via S. Salvi, 12), per fare una prima riunione di coordinamento preparatoria per un Convegno sul tema «Donna e pazzia», da tenersi agli inizi del prossimo anno. A Firenze dovremo decidere quali temi affrontare al convegno, come organizzarci, come avvertite le compagne straniere, la data di convocazione etc. Tutte le compagne che vogliono partecipare o a cui interessa saperne di più si mettano in contatto o con (Paola Buratti – Via Faentina 210 Firenze – Tel. 589905, oppure con lo Spazio Donna di Trieste – Via Imbriani 12, che funzionerà da coordinamento di tutte le informazioni.