dibattito

il problema è nostro e lo gestiamo noi

la stampa e «gli altri» parlano di crisi del movimento femminista. Dopo sette anni di analisi, lotte, sconfitte e prese di coscienza siamo ad una svolta importante. Occorre riesaminare che cosa significa essere femminista oggi, quali battaglie privilegiare, quali strumenti di lotta usare per continuare la nostra battaglia.

ottobre 1977

Luciana – Come esigenza personale mi piacerebbe discutere con voi cosa significa essere femminista oggi. Per esempio io ho sempre pensato che il femminismo come il comunismo fosse un processo, per cui non riuscivo a dirmi: io sono «femminista». Ma a questo punto sento il tutto in maniera piuttosto confusa. Voglio dire che non riesco più a riconoscermi nelle compagne che si definiscono femministe perché comincio a stare male anche con loro, mi si scatenano delle dinamiche di competizione, delle dinamiche che non riesco a controllare se non scappando.

Grazia – Anch’io quando sento la parola femminista ho una risposta negativa dentro di me, a livello inconscio. L’etichetta femminista mi dà un fastidio enorme, un po’ perché dovunque una vada viene presentata come femminista, come se fosse una professione. C’è dunque un’immagine precostituita, un modello ed è quello che noi non volevamo a cui sentiamo che ci si chiede di adeguarci e secondo me questo deriva anche da un nostro errore, perché noi ci siamo talmente rinchiuse in questa nostra ideologia, che ad un certo punto ci troviamo a disagio. C’è stata un’ostilità enorme dentro il movimento, come se ognuna di noi volesse colpevolizzare le altre di questo disagio. A giugno, durante le riunioni per fare la manifestazione sull’aborto, c’era uno scontento di fondo che ci portava a scaricarci addosso la colpa a vicenda, un’aggressività reciproca, che secondo me va scavata, perché alla nostra famosa solidarietà fra donne, a questo lavorare in modo diverso, in realtà non ci siamo arrivate. Quando penso al femminismo che viene sentito come un dogma da molte compagne, ho un senso di ribellione perché le regole che noi stesse ci siamo date non devono diventare degli schemi fissi. Ho cercato di non rimanere impigliata dentro il comunismo, non mi voglio trovare impigliata dentro il femminismo, e oggi c’è questo rischio.

Donata – Io credo che sia una questione di fase. Per conto mio il problema della stanchezza o della ghettizzazione deriva da una confusione tra momenti personali e momenti di evoluzione del femminismo. Cioè noi all’inizio abbiamo teorizzato che occorreva un periodo di separatismo perché le donne da sole dovevano scoprire le ragioni della propria oppressione. Io penso che per ogni donna che si avvicina al femminismo questa separatezza sia importantissima; però penso anche che dopo una certa fase, che per ognuna di noi può avere tempi diversi, questo separatismo rischia di diventare sterile.
L’altro giorno pensavo che è vero che siamo diverse dagli uomini, però forse ora noi abbiamo anche molto in comune come donne con i «non-garantiti», le compagne che sono nel movimento studentesco si sentono talvolta unite ai loro compagni ed esprimono il fatto che come donne disoccupate, precarie ecc. hanno alcune cose in comune con altri oppressi; per cui io mi domanderei se non si potrebbe pensare a forme di alleanze, perlomeno di aperture, con altri movimenti o altre istituzioni i cui componenti hanno bisogni simili ai nostri. Io sono pronta almeno a questo tipo di confronto perché mi sento «cresciuta» come femminista, nel senso che adesso so certe cose per cui voglio combattere e non penso più come un tempo che se andavo a confrontarmi con un ragazzo di «Lotta continua» o del «Movimento studentesco» mi facevo strumentalizzare. Io sono pronta, però non so se questo mio essere pronta ad un confronto sia anche un’esigenza di molte altre donne. Noi abbiamo sempre detto il separatismo è uno dei cardini del femminismo e, al tempo stesso una epoca di transizione: ma quanto deve durare questa transizione?

Grazia – Noi abbiamo sempre considerato i nostri punti di fondo l’autocoscienza e il separatismo; ora, lo strumento presuppone che tu lo usi per un obiettivo. L’impressione che ho adesso è che per molti gruppi queste siano diventate delle istituzioni in sé e degli obiettivi in sé.
È verissimo che le nuove che si avvicinano al femminismo devono fare autocoscienza e devono avere questa fase di separatismo; però, per esempio, quando sento certi gruppi che guardano al separatismo come alla mela d’oro intangibile da conservare per sempre, mi domando se a questo punto non sia una forma di difesa. Ora esiste il pericolo che il separatismo diventi ghetto perché ormai il sistema non ci fa più un’opposizione netta e radicale di fronte alla quale è anche giusto fare quadrato e difendersi, ma fa al contrario un’operazione di assorbimento e di recupero, ti lascia cioè i tuoi piccoli spazi-gioco. Il discorso a questo punto è il confronto con le istituzioni.

Sara – Io sono d’accordo su quanto diceva Donata; Bologna mi ha fatto molto pensare, tutte le discussioni che ci sono state, gli interrogativi rimasti aperti, la problematica che c’era, era rivolta sempre verso una continua ipotesi di confronto con quello che c’era intorno a noi donne in quel momento, e quindi tutto il fatto dei non garantiti, degli omosessuali ecc. Dalle testimonianze apparse anche sui giornali della sinistra exparlamentare si sentiva che le compagne si sentivano vicine a questi settori di oppressi e sfruttati e di emarginati, io questa cosa la sento e la vedo moltissimo in giro, soprattutto fra le compagne più giovani. Non mi sento di dare etichette di femminista o meno a una serie di compagne che oggi hanno alle spalle una esperienza di autocoscienza e piccolo gruppo, che però si pongono il problema del confronto con questo movimento che le circonda e nel quale hanno vissuto delle storie loro, perché non possiamo scordarci il movimento all’università della primavera scorsa e che è ancora un processo in atto.
Elvira – Femminismo significa anche lettura del mondo, per cui non è che il fatto dell’università e del movimento, di questa realtà che è sempre più vasta, che richiede una lettura sempre più lucida, sempre più difficile e globale, sia appannaggio di quel gruppo che partecipa in prima persona o da protagonista o di quest’altro che magari perde il passo. E comunque l’essere femminista significa aver fatto un percorso molte volte doloroso, un discorso di rivisitazione, e riscoperta, aver fatto questo processo di crescita tanto da poter dire, da poter leggere meglio, sempre di più, la realtà. Il discorso del separatismo; certo fare il ghetto è follia, fede, è essere dogmatiche; ma separatismo significa soprattutto essere responsabili della propria storia per avere una visione e un’approccio alla realtà diverso perfino dagli uomini pieni di buona volontà; perché nonostante la loro buona volontà c’è ancora una lettura della realtà diversa tra noi e loro, nel modo di affrontare i problemi.

Maricla – Il discorso dpi separatismo come fase transitoria — se non si chiariscono certi presupposti — può diventare ambiguo e di nuovo una fuga. Perché secondo me non si può dire: il separatismo ci ha ghettizzato; è il modo in cui il separatismo è stato vissuto finora, a ghettizzarci. Perché il femminismo ad un certo punto è diventato ideologia, ha creato il modello? Perché siamo partite dal dire, come diceva Elvira, il femminismo è una visione del mondo, una lettura della realtà e poi di fatto, nelle nostre sedi separate, abbiamo circoscritto a piccolissimi settori la realtà da leggere. Ed è su quella che siamo diventate sterili. Ora accorgendoci che esiste l’economia, che esistono i non garantiti, che esiste Bologna, che esiste il mondo esterno, non si tratta di mollare il separatismo e di andare a parlare coi compagni, si tratta di imparare a parlare di queste tra noi, in prima persona, separate. Ci siamo insterilite, perché tra noi siamo riuscite a parlare insieme, con un’ottica diversa, di sessualità, però non siamo riuscite a creare collettivamente un’ottica femminista per esempio sull’economia, sull’occupazione ecc. Di fronte a questi grossi problemi, che richiedono indubbiamente più studio, approfondimento, al limite professionalità, non siamo riuscite a trovare un’ottica nostra.
Elvira – Senza farsi però incastrare da meccanismi maschili, perché l’elemento frenante grosso è che molte femministe, pur avendo approfondito tanti meccanismi, competitività ecc. poi ne rimangono impigliate.

Maricla – Dire, come dice Donata, il separatismo è diventato sterile, è ora di abbandonarlo, presupporrebbe che dalla fase del separatismo noi usciamo nuove, diverse, cresciute sul serio, invece la competitività è rimasta, la sorellanza non è stata creata, l’ottica femminista sul mondo non esiste, perché l’abbiamo in certi campi, mentre in altri corriamo appresso o al compagno del partito o alla linea del partito.

Donata – Vorrei fare una piccola precisazione: tu dici siamo partite da certi argomenti ristretti. Ma è importante sottolineare che siamo partite dal privato perché non se n’era occupato nessuno. Sessualità, maternità, aborto; il fatto che ci siamo occupate di questi temi aveva la sua ragione storica, era la grossa ala dei negletti, adesso dobbiamo forse fare un passo indietro nel senso che questi temi del privato…

Maricla – No, secondo me è un passo avanti…

Donata – È un passo indietro nel senso che ci occupiamo di temi che erano tradizionalmente maschili e di cui c’è già un sacco di analisi maschile, mentre su questi nostri temi precedenti non c’era proprio analisi. Sull’aborto una analisi maschile non c’era, sulla sessualità dopo Reich non c’è più niente, sulla maternità neanche. Ma che cosa è successo? Abbiamo fatto le analisi giuste, ma la realtà della sessualità e della maternità non sono mutate molto, l’aborto è ancora clandestino…

Maricla – Va bé; però devi parlare a livello di chiarezza di movimento non rispetto a quello che ti danno o non ti danno. Non è che se non ti danno l’aborto è una sconfitta teorica: tu le idee chiare su questa cosa ce l’hai come movimento.

Luciana – Per me il femminismo, oggi, significa fare politica come donna e politica per me significa anche vivere in modo diverso la mia sessualità e averne consapevolezza e così pure del mio rifiuto della maternità, insomma anche del mio negativo, altrimenti il femminismo diventa un movimento culturale in cui potrei riconoscermi solo perché mi piace leggere libri.
E invece il femminismo per me significa fare politica come donna là dove vivo e dove lavoro. Ormai la funzione storica di alcuni collettivi, collettivi che non hanno fatto un lavoro concreto sul posto di lavoro o dove si vive, si è esaurita. Quanto al separatismo finora è l’unica forma di organizzazione che le donne si sono date, semmai da riempire di contenuti reali.
Diversi, per esempio per l’autocoscienza: quando un collettivo lavora in una determinata realtà sociale si dovrebbe fare solo autocoscienza nel collettivo, ma autocoscienza del collettivo, per crescere insieme. La cosa fondamentale è questa: che ogni donna riesca a fare teoria insieme con le altre sulla propria esperienza, questo significa per me autocoscienza ed è naturalmente legata a quella realtà di lavoro, a quella realtà di vita.

Sara – Volevo farti una domanda: la rivendicazione del separatismo è secondo te in contraddizione con l’esigenza d’un confronto col movimento che ci ricorda?

Luciana – No assolutamente se parliamo della nostra centralità, della centralità politica di noi come donne, e su questa base ricerchiamo le nostre alleanze di classe. Ma un confronto con le istituzioni della classe o uno scontro con le istituzioni tradizionali potremo averlo solo se abbiamo strutture di movimento nostre. Quanto a ‘Bologna, per me tutto questo «Bologna sì, Bologna no», scaturisce ancora una volta dalla nostra subalternità politica, proprio per il fatto che lo sforzo ancora da fare è quello di individuare i nostri bisogni e di organizzarci sui nostri bisogni. Come si individuano i nostri bisogni. Il separatismo se è visto nel modo in cui dicevi tu è un fatto ideologico e basta, ma io gli riconosco ancora una grossa funzione perché è la prima nostra forma di organizzazione e bisogna ancora lavorare su di esso proprio perché dal separatismo nasce anche la possibilità di nostre alleanze di classe.

Daniela – Sono d’accordo con quello che ha detto Luciana ed è una cosa che sto vivendo angosciosamente in questi giorni, nel senso che da tre giorni sto seguendo una donna inglese che ha in corso una causa di separazione in cui le hanno fatto delle palesi ingiustizie ed era venuta a Effe per vedere se noi come stampa la potevamo aiutare. Prima di portare fuori il caso ho detto: vediamo se ti possiamo dare una mano dal punto di vista giuridico e mi sono scontrata con l’assoluta mancanza di strutture in questo senso. Le compagne che per anni hanno parlato della creazione di collettivo giuridico non sono poi in grado di aiutarti.
L’avvocato compagno ti tratta malissimo perché sulle motivazioni psicologiche di questa donna non ha la minima intenzione di darti una mano. Noi come donne non siamo riuscite a creare nulla. Nell’ambito del nostro ambiente di lavoro non siamo riuscite a creare un minimo di prassi femminista che ti possa aiutare anche in questi casi. Certo, non possiamo fare le dame di San Vincenzo, ma è proprio come movimento che non abbiamo strumenti per aiutarci fra noi. Il sentimento di impotenza che deriva dal non essere in grado di fare niente di concreto fa sì che tu ti rinchiuda in te stessa. Molte di noi hanno cambiato la loro vita con grandi sforzi e lacerazioni, i nostri rapporti personali sono cambiati, quindi la tendenza di molte di noi di rinchiudersi nel proprio personale è forte e deriva da questa impotenza.

Elvira – Il femminismo è la forma di far politica della donna ed è un fatto che chi fa politica non può mollare di colpo, perché mollare è mettersi in contraddizione totale.
Io ho paura però che in questo momento le donne si stiano rinchiudendo in corporazione, su richieste piccole, minime, sminuenti.
Il problema non è quello di chiudersi in corporazione, ma quello di chiedere di più, di diventare propositive denunciando, inventando.

Donata – Ha ragione Daniela. Penso a me stessa, per esempio, l’università e l’igiene mentale sono i campi in cui lavoro. All’università sono riuscita con altre donne a far accettare delle ricerche di tipo femminista o delle tesi; per quanto riguarda l’igiene mentale per esempio a Roma c’è una richiesta enorme di terapia a pochissimo prezzo da parte di compagne e noi non ci siamo organizzate come gruppo di lavoro per offrirlo.

Luciana – Quando io parlo di territorio penso a questa ricomposizione: fare politica dove viviamo e dove lavoriamo.

Donata – Però la parola territorio è un termine molto vago che usano tutti. Cos’è questo territorio?

Stefania – Mi sembra giusto partire dal quartiere, «dal territorio» perché lì le donne si raccolgono non per interessi specifici, legati alla loro collocazione di classe (le psicologhe, le giornaliste ecc.) e non c’è rischio di «corporativismo»; nel collettivo di quartiere si parte dalle proprie esigenze di donne, a casa, in famiglia, sul lavoro, nella scuola. Al collettivo di quartiere Appio-Tuscolano stiamo ora vivendo un’esperienza molto importante; abbiamo deciso di riincontrarci ieri per discutere la crisi del femminismo come per vederci per l’ultima volta, per scioglierci. Si è iniziato a parlare tutte con grande angoscia e ci siamo dette la verità fino in fondo; abbiamo ricostruito la storia dei nostri piccoli gruppi, di come si sono trasformati in gruppi di amiche per la birra del sabato sera e di come invece non sopportiamo più il collettivo, le altre compagne, perché ci soffocano e ci fanno star male. È da questo bilancio negativo sull’ultimo anno di vita del collettivo che è nata in noi la chiarezza su quello che volevamo realmente dire, cioè che ciascuna di noi aveva usato «la carica» di femminismo nei rapporti personali, in famiglia, sul posto di lavoro e che il femminismo ci aveva tutte rese più forti, ci aveva emancipato a livello personale, individualmente; e che il collettivo ci stava lì di fronte, come una struttura di movimento esterno a noi. È il riconoscere questo, che il femminismo ci ha dato solo più potere e sicurezza, la cosa che ci mette paura e ci fa sentire in colpa verso il «collettivo» come se l’avessimo tradito. Invece della liberazione abbiamo ottenuto l’emancipazione, o meglio, nel processo di lotta per la liberazione delle donne abbiamo ottenuto emancipazione solo per noi. A questo punto è giunto il dibattito nel collettivo; ma le conseguenze ora sono chiare a tutte; dobbiamo partire dalla coscienza di questa nostra emancipazione per non viverla più come colpa. Senza paura, riconoscere il modo collettivo con cui siamo giunte a ciò, e aprirci alle altre donne, non con l’uscita all’esterno, come si diceva un anno fa, ma per attirarle all’interno del collettivo e del femminismo, per far crescere la nostra forza con la loro. Usciamo da una mistificazione, riconosciamoci per quello che realmente siamo, un gruppo di donne emancipate grazie al femminismo; da qui possiamo partire per cominciare a far politica con le altre donne.

Luciana – Io ho parlato di organizzazione e di esigenza di organizzazione e di lotta sui nostri bisogni come l’unico modo per vincere la nostra subalternità politica, tenendo presente che siamo delle donne emancipate e che per femminismo intendiamo fare politica come donne e per questo parlo di territorio. Il territorio è una parola vaga, ma io aggiungo: là dove viviamo e lavoriamo, sennò diventiamo dei gruppi di intervento, dei grilli parlanti che comiziano nei festivals dell’Unità, anche se ci sono andata anch’io.

Donata – Allora per esempio si potrebbe creare un collettivo che comprende l’avvocatessa, la psicologa, ecc..

Daniela – Non credo, Donata. Questo è semplificare i termini. Perché finora non sappiamo neanche in che modo costruire l’organizzazione di cui parla Luciana.

Stefania – Quello che ha colpevolizzato molte compagne che sono andate a Bologna è stato quello di esserci andate senza la capacità di porlo come progetto, avere il coraggio di dire ci andiamo come movimento o non ci andiamo. C’è una disponibilità del movimento, ma manca l’organizzazione. Le uniche che si organizzano sono autonomia da una parte e PCI dall’altra.

Luciana – Va bene però per me quella non è politica di donne, e un’organizzazione non mi interessa quando è un’organizzazione tradizionale. Quando invece io dico organizzarci sui nostri bisogni è tutta un’altra cosa dall’organizzazione delle autonome o del PCI.

Stefania – Però un movimento che non si organizza delega l’organizzazione.

Luciana – A me non interessa l’organizzazione del «movimento femminista», proprio per niente, mi interessa il movimento delle donne.

Stefania – Non lo so come si chiamerà. Il collettivo Appio-Tuscolano discute per la prima volta del problema dell’organizzazione.

Chantal – Io però ho l’impressione che parlare di organizzazione è quasi un modo di esorcizzare una serie di problemi che non si riescono a risolvere e allora si butta tutto l’impegno sull’aspetto organizzativo, tralasciando quegli aspetti di crisi che sono fondamentali.
Oggi, secondo me, c’è una crisi di identità di questo movimento rispetto al livello di elaborazione e ad un contesto che si è modificato. Ho un po’ paura di questi discorsi organizzativi, se non c’è prima una riflessione approfondita tra tutte noi, e non solo all’interno di un collettivo, ma di confronto fra i diversi collettivi su chi siamo e che cosa vogliamo fare, sulla nostra identità di movimento che in questo momento mi sembra abbastanza smarrita.

Stefania – Nei collettivi nell’ultimo anno, le compagne hanno continuato a fare attività fuori del collettivo ciascuna per conto proprio, vivendo la cosa come ancora un’ambiguità — perché legata al lavoro politico coi maschi — che il collettivo non riconosceva. In un certo senso l’intervento politico nessuna l’ha mai lasciato, solo lo faceva un po’ di nascosto, senza prenderne coscienza. Perché il problema dell’organizzazione era respinto, rifiutato dalle compagne. I collettivi devono affrontare il problema di organizzarsi tra donne.
Non è che ora ci organizziamo ma prendiamo coscienza che la cosa, diciamo per cui ci stiamo sfasciando, è la questione dell’organizzazione.

Luciana – Secondo me quello che dice Chantal è un grosso alibi. Intanto non sono d’accordo quando si dice prima i contenuti e poi l’organizzazione: si tratta di tutt’uno. Organizzarsi sui propri bisogni significa tutto un altro tipo di organizzazione da quella a cui si riferisce Chantal e quando lei dice «dobbiamo prima nel collettivo e tra i collettivi ritrovare una nostra identità di movimento femminista», allora io dico che se c’è una crisi del femminismo, una rottura di certe cose, bene, purché venga fuori un movimento delle donne.
Quindi non mi interessa assolutamente ritrovare l’identità come movimento femminista. È un ragionamento abbastanza forzoso, quello che sto facendo, ma nasce dal fatto che quando si parla di organizzazione il riferimento concettuale è sempre quello della organizzazione tradizionale, invece la nostra è tutta da inventare proprio perché dobbiamo individuare ancora questi nostri bisogni e costruircela su di essi. Ed è poi una situazione di potere quello che c’è nel movimento femminista.
Questa frammentazione di gruppi è perché sono gruppi di potere, diciamocelo.
La dinamica che viene fuori ed è ben individualizzabile nei piccoli gruppi è questa: noi donne siamo abituate a delegare all’esterno la soddisfazione dei nostri bisogni e in genere all’uomo e, adesso nel movimento femminista, ad altre donne più brave. Allora che cosa succede? Che c’è questa delega e immediatamente scatta anche il rifiuto di queste donne che posseggono più competenze, più strumenti.
Questo nasce sia da un atteggiamento mentale nostro, totalizzante nel senso che vogliamo tutte le nostre aspettative riconosciute e soddisfatte dall’esterno e nello stesso tempo proprio perché stiamo all’interno di questo nostro processo di crescita e di ricerca di identità, abbiamo questa ambivalenza — io l’ho constatato in vari gruppi — tra la delega a chi lavora di più o a chi elabora di più e nello stesso tempo il rifiuto: sei un maschio. B stato tutto qui lo scontro che è successo con i nuclei dell’aborto ed era anche normale che succedesse; i nuclei dell’aborto sono nati prima del consultorio, erano nuclei volanti, era un lavoro poco gratificante, anzi dilacerante per le compagne che lo facevano, perché erano delle compagne che svolazzavano per la città a fare le mammane rosse. La cosa è poi cambiata quando l’aborto si è legato al consultorio, ma è rimasta questa divisione del lavoro.
Per cui a San Lorenzo c’è tutta una parte che fa lavoro di consultorio e l’altra che è il collettivo. E questo è una contraddizione perché San Lorenzo essendo una struttura di movimento doveva riunire questi due momenti di prassi e teoria. Per riprendere il discorso di Chantal, il fatto è che incontrarci fra di noi per dirci chi siamo, non ci fa dire altro che «siamo femministe»; bisogna vedere allora che cosa significa essere oggi femministe e dire che tutte abbiamo acquistato potete, in quanto femministe; molte di noi fanno addirittura le professioniste del femminismo: hanno acquistato potere e anche un mestiere.
Non a caso la parola d’ordine del PCI l’anno scorso era «aprite al femminismo»: ci considerano ormai come una organizzazione politica tradizionale o esperte di problemi delle donne e, e si fa per dire, come gruppo di potere… Perciò un movimento femminista che non si ponga come progetto politico quello di sciogliersi in un movimento delle donne, con un tipo di organizzazione che non è quella tradizionale, non mi interessa.

Chantal – Quindi se ho capito non è tanto il riflettere su noi stesse quanto cercare di per esempio ricollegarsi alle altre donne, vuoi dire.

Luciana – Sì, io cresco insieme alle altre donne. La crescita mia deve essere globale. Posso stare con te e lavorare con te, però ho bisogno di un confronto con le altre donne proprio su un terreno di lavoro comune, di bisogni comuni.

Chantal – Allora è molto importante ricollegarsi a tutte queste compagne che stanno nel movimento nell’università, creare un rapporto.

Daniela – Sì, però non ricolleghiamoci sempre e solo alle compagne dell’università. Stiamo perdendo di vista i bisogni delle altre donne. Di questo me ne rendo conto giorno per giorno: noi ci siamo fatte veramente il nostro ghettino. Qui a Effe si avverte moltissimo; anche nel giornale abbiamo perso d contatti con le donne, noi continuiamo a girar intorno a fatti del movimento, a fatti di donne che vivono nel movimento e poi sono sempre più o meno le stesse.

Luciana – La costruzione di un movimento delle donne deve misurarsi sui bisogni di quella più sfruttata e oppressa.

Chantal – Sì, ma io non so se è più oppressa oggi la ragazza di 17 anni che non ha nessuna prospettiva di niente e a cui viene negata qualsiasi possibilità di esprimere se stessa in quanto persona o se è più sfruttata la casalinga che s’è giocata la sua vita.

Luciana – Non volevo dire questo, volevo dire che il movimento deve inglobare tutti i bisogni.

Grazia – Pensiamo alla questione dell’aborto. C’è stata ad un certo punto una tendenza a muoversi in avanti lasciandosi alle spalle l’aborto, perché è un problema che molte di noi del movimento avevamo analizzato fino alla nausea. Però l’aborto rimane un problema che pesa ancora sulla stragrande maggioranza delle donne e che permane irrisolto mentre dovrebbe essere uno dei mattoni su cui costruire.

Elvira – Finora in questi anni c’è stato un grosso lavoro di crescita, di scavo e di enunciazione di problemi, e si è fatto ponendo dei grossi temi che coprivano i problemi di tutte le donne. Ora bisogna entrare in una fase più politica. Secondo me il discorso è quello di intervenire continuamente su tutto. Non so se avete visto la trasmissione di Biagi col processo alle tre attricette del nudo: una cosa da far ribollire il sangue; era compito del movimento femminista scendere in piazza e non permettere di fare il processo pubblico a nessuna donna, perché a quel punto c’è stato un giudizio, anche da parte delle donne. Agire politicamente significa intervenire, senza graduatorie, significa non perdere un colpo. Questa donna inglese, di cui parlava Daniela, che è venuta a Effe a chiedere aiuto, questa donna è stata violentata come Claudia, per cui si fa una manifestazione. Questa è una nuova prassi, questo è un nuovo non-giudizio, non incasellare i problemi, non stabilire ruoli.
Donata – Per conto mio c’è una debolezza metodologica del femminismo che ci portiamo dietro. Quando Luciana parla di intervenire sulle più sfruttate io ho avuto un momento di rigetto: adesso mi metto a fare il colonialismo sulle altre, donne, perché la prassi femminista era di partire dal mio personale, dai miei bisogni è lottare sui miei bisogni; ora i nostri bisogni sono diversi secondo l’età, la classe ecc. e fare l’autocoscienza partendo da un gruppo di donne quasi omogeneo, emancipate ecc., ha portato a privilegiare per forza i nostri problemi, dimenticando le altre donne. Io mi domando quale metodo abbiamo da sostituire all’autocoscienza, che con le sue carenze è tuttavia un nostro patrimonio.

Luciana – Quando parlo di bisogni significa il riconoscermi anche nella donna più sfruttata, anche nei bisogni che io non ho in questo momento.

Donata – Noi siamo partite dal rifiuto dell’organizzazione maschilista e la paura che avevamo era anche naturale. Inventare una cosa nuova è il compito che ora ci sta di fronte ma la parola organizzazione spaventa perché richiama alla mente il modello tradizionale.

Stefania – La vera paura quando parlavo di colpevolizzazione, non era la paura del rapporto gerarchico, è una paura legata alle conseguenze, di cui una delle prime che ti appare è che il separatismo è lo strumento di certi momenti della tua attività politica, che però in certi altri devi abbandonare. Il separatismo rimane la caratteristica del nostro movimento, il suo strumento; però ogni giorno dobbiamo verificare su altri contenuti la nostra forza.

Luciana – È la nostra forma embrionale di organizzazione.

Elena – Il problema mio è questo; secondo me non si tratta di reinventare; è che le cose stesse che abbiamo capito non le abbiamo approfondite: e anche in questo discorso c’entrano i contenuti e l’organizzazione. Per esempio, per quanto riguarda il problema organizzativo, noi abbiamo fatto cose vecchie e cose nuove, senza capire quando | facevamo quelle vecchie e quando quelle nuove. Mi sembra che oggi ci sia crisi proprio perché non si sa cosa abbiamo costruito, non si sa cosa è mattone e cosa è merda, non si sa cosa vogliamo portare avanti e cosa no, di conseguenza cosa succede: ideologizzazione, modellistica femminista, schematistismo.
Mi riferisco al fatto che il sabato sera bisogna uscire fra donne ecc.; nessuna parla più del maschio che ha. Abbiamo buttato via la fede matrimoniale. Abbiamo provato il ’68 ci siamo rotte del ’68, abbiam fatto il femminismo rifacendo gli errori del ’68 che sono: non fissaggio dei contenuti, spontaneismo, ideologizzazione, (comunismo utopico-femminismo utopico). È questo che mi spaventa, cioè il fatto che abbiamo espresso un sacco di cose e che non le abbiamo in mano; e allora si creano le professioniste che scrivevano e scrivono su di noi, mentre il movimento non scrive un cazzo. Secondo me c’è un rischio: il fatto di voler teorizzare troppo, dando una risposta globale a questa crisi del femminismo, facendo la sintesi della crisi, che è un modo di fare del tutto introiettato.

Donata – Ma siamo tutte d’accordo che il femminismo è in crisi? Siamo in crisi noi individualmente, i collettivi, chi?

Elena – Io ci giuro nel senso che a Napoli l’unico momento collettivo delle compagne è la pizza insieme. Molte compagne hanno fatto figli e sono tornate a casa, altre se ne vanno a studiare in America e altre si danno i bacetti. Tant’è che mi ritrovo con delle compagne con cui ho dei rapporti affettivi e basta; ma non mi va perché non riesco a stare con una compagna come ci stavo al liceo: affettività senza quagliamento, e nemmeno voglio il contrario. Mi interessa l’affettività con qualcosa da fare insieme. Secondo me, lo ripeto, siamo in crisi perché abbiamo prodotto milioni di cose e le abbiamo praticate facendo le spontaneiste. Secondo me abbiamo avviato e fatto un sacco di cose anche sull’economia, sul linguaggio ecc. però non abbiamo fissato collettivamente — perché la parola teoria ci spaventava, — quello che abbiamo pensato e prodotto e vissuto.

Luciana – Ogni donna dovrebbe essere capace di fare teoria sulla sua esperienza.

Elena – Certo.

Chantal – Forse c’è la paura della teoria perché la teoria ci divide.

Elena – Noi abbiamo fatto delle cose nuove secondo il seguente processo schematico: vissuto / verifica su questo vissuto in un momento collettivo / teorizzazione su questo / verifica se questo corrisponde a un bisogno più generale. Questo secondo me l’abbiamo fatto, ma ancora una volta senza coscienza, perché questo processo poi è diventato da una parte il supervissuto, dall’altra il teoricismo più sfrenato. Il separatismo secondo me è uno strumento di fondo e di organizzazione e però sono cosciente che è uno strumento di difesa, che durerà ancora per altri anni, prima che possiamo rinunciarci. Passerà il socialismo, poi il comunismo; abbandonare il separatismo sarà ipotizzabile in una società proprio nuova nuovissima.

Daniela – Vorrei collegarmi a quanto diceva Elena sulla teoria, Sono d’accordo sul fatto che il movimento è riuscito a dire un’infinità di cose che poi non sono state riprese e approfondite. Vorrei fare solo un esempio: il salario al lavoro domestico. Io non ho mai sentito discutere seriamente questa proposta da nessun gruppo. All’interno del movimento o c’è stata un’accettazione completa o c’è stato un rifiuto viscerale, spesso senza alcuna riflessione, senza pensare per esempio che si può partire da questa elaborazione per confrontarci, per vedere se è realizzabile, per collegarla alla struttura economica del Paese, per riferirci al nuovo diritto di famiglia che in definitiva non ha cambiato niente, o alla pensione delle casalinghe o a qualsiasi altra cosa vogliamo. Questo terrore di fare teoria ci ha portato ad ignorare anche l’elaborazione che alcune compagne, più o meno organizzate, stanno portando avanti.

Elena – Dall’emotività passare alla scientificità: io sono d’accordo. Noi emotivamente abbiamo capito e prodotto certe cose, però poi non le abbiamo teorizzate, organizzate, cioè fatte diventare patrimonio collettivo per le altre. Tu ti riferisci alle donne esterne proprio nel momento in cui approfondisci i tuoi contenuti, è così che il riferimento non è più astratto, colonialistico, perché le donne esterne vedono sempre più chiari i tuoi contenuti.

Chantal – Secondo me però non è finito il momento dell’urlo: noi dabbiamo urlare di più.

Luciana – A me non piace né la parola costruire teorie e neppure passare dalla emotività alla scientificità. Io voglio far teoria su quest’urlo, mio e di tutte le donne, ma non voglio farlo io per le donne e sulle donne, ma che ognuna riesca a crescere, fare teoria sulla propria esperienza.

Donata – Ma come può ogni donna fare teoria sulla propria esperienza?

Luciana – Crescendo insieme in certe strutture del movimento! Separate.

Elena – Noi abbiamo fatto così!

Chantal – Io sono perplessa. Sento che questo momento della teorizzazione è ancora lontano, sento che ancora dobbiamo tirar fuori urli, cioè dobbiamo continuare ad esprimere ancora molte cose emotive, che ci siamo tenute compresse dentro, soffocandole per molti motivi, per la paura di farci inglobare dai partiti ecc., Allora, invece di dire «adesso faccio teoria, partendo dall’urlo che ho fatto negli anni passati», io riprendo a urlare.

Luciana – L’urlo individuale della donna c’è sempre stato! Per farlo diventare politico c’è bisogno di riflessione, di teorizzazione.

Donata – Forse però, uno dei motivi per cui siamo in crisi è anche perché non siamo ancora in grado di dare risposte a nuovi avvenimenti e a nuove prese di posizione della sinistra, per esempio
delle donne dell’autonomia, che risposta dare noi stesse, che risposte dare ad esempio al problema della violenza.

Daniela – Il movimento femminista strangolato tra il PCI e le autonome.

Stefania – Porre in certi termini «la crisi» del femminismo è paralizzante. Parlare di fratture tra generazioni, tra autonome e filo-Udi, femminismo «intimista» e quello dei consultori, tra violente e pacifiste, è accettare degli schemi che non servono a noi, mentre servono agli altri per distruggersi. È introiettare le loro chiacchiere sulle «due società»; ci fa complici di campagne di stampa tipo Espresso e Panorama, Tivù e pubblicità (tipo Cori), che sono stati espressione dell’attacco più pericoloso che il movimento femminista ha subito in quest’ultimo anno. Voglio fare un esempio su come realmente invece possiamo procedere partendo da noi; nei collettivi di quartiere c’è la presenza di compagne legate all’area dell’autonomia e le esigenze che loro pongono come compagne giovani, disoccupate, studentesse, che fanno parte anche di un altro movimento, non portano a «fratture»; semplicemente costringono tutte le altre a misurarsi con problemi come disoccupazione, violenza, repressione ecc., che sono poi i problemi di tante donne, di tante di noi ed anche di quelle che ancora non si definiscono femministe.

Daniela – La cosa che si avverte positiva in tutti i collettivi è una grossa voglia di riunirsi, di fare qualcosa di positivo, dopo Bologna, che ha veramente scatenato un sacco di problemi.

Elena – Una delle tante cose dette parlando della crisi, vuoi o non vuoi sono venute anche fuori delle cose da fare. Se noi eravamo d’accordò sull’unità e sull’organizzazione e sull’approfondimento di tutta una serie di contenuti e di organizzazioni fatte. Approfondendo tutti questi fatti noi possiamo già uscire dall’impasse. Dovremmo riflettere su come portare avanti questi approfondimenti, come si può legare Effe, che temi affrontare, e quali obiettivi. Tutta la questione del problema deh rapporto con la cultura su cui abbiamo detto milioni di cose che poi non abbiamo approfondito, capito, appunto perché non ci piace dire teoria; c’è già un primo che fare a livellò concreto, che poi è vero che quando ti trovi a riflettere su un problema specifico di accorgi che le cose si possono fare, e recuperi anche l’autocoscienza e la possibilità di partire dal tuo vissuto, tutti questi temi vengono fuori.