LEGGE SUL LAVORO
parità solo sulla carta
Nella proposta di legge già parzialmente approvata abbondano le affermazioni di diritti delle donne ma scarseggiano gli strumenti atti a promuovere e a garantirne la realizzazione nel concreto.
il progetto approvato il 13 ottobre scorso dal Senato (e rinviato alla Camera dei Deputati per l’approvazione degli emendamenti apportati) a proposito della «parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro» rappresenta, senza dubbio, uno dei più significativi episodi della regolamentazione legislativa della condizione della donna nel nostro Paese (1). È superfluo evidenziare l’essenzialità del lavoro quale occasione incomparabile per la donna di raggiungere l’autonomia economica, di provare esperienze di socializzazione normalmente precluse dall’organizzazione familiare, di recuperare uno spazio politico in cui esprimere energie ed esigenze altrimenti deviate e soffocate: un’occasione offerta a pochissime donne privilegiate in termini soddisfacenti. La condizione storica della donna nel mondo del lavoro è stata da più parti, ormai, accuratamente descritta e tradotta in dati statistici di brutale evidenza.
Il lavoro extradomestico è svolto dalle donne, nell’assoluta maggioranza dei casi, in una situazione di sfruttamento, senza garanzie né legislative, né contrattuali, perché proprio le donne, emarginate dal mercato ufficiale, ingrossano le fila di quel ed. «esercito di riserva» reclutato dal mercato del lavoro precario, stagionale, a domicilio, in breve, definito «nero». Si è avallato nel nostro Paese un vergognoso dualismo del mercato del lavoro che devitalizza, di per sé, ogni proposito egualitario. Ma non basta. Anche quella magra percentuale di forza lavoro femminile impiegata nel mercato ufficiale, e protetta dalla relativa disciplina garantistica, discriminata sistematicamente nell’assegnazione delle mansioni, nello svolgimento della carriera, nella percezione della retribuzione sconta un costume sociale ed un assetto politico ed economico che tuttora stigmatizzano come residuale e secondario il lavoro extradomestico delle donne per esaltarne, mistificatoriamente, il ruolo «primario» legato allo svolgimento oscuro ed alienante delle mille, monotone incombenze quotidiane che realizzano la cura dei figli e della casa, l’assistenza ai malati ed agli anziani. A fronte di questa grave situazione di emarginazione e sottoutilizzazione delle energie delle donne, che reclama, a tacer d’altro, l’allestimento di servizi che socializzino le mansioni domestiche, l’educazione dei bambini, la cura degli anziani e dei malati, nonché una radicale riorganizzazione delle strutture di formazione professionale allo scopo di riqualificare l’offerta di lavoro femminile, la legge approvata dalla Camera appare assolutamente insoddisfacente. Non a caso si tratta di una legge concepita in un ambiguo clima di compromesso che, deprecabilmente, coinvolge le più rappresentative forze parlamentari. Sulla scia, essenzialmente, dell’esempio dell’ordinamento inglese, le cui più recenti misure legislative testimoniano un’esemplare attenzione alla complessità della specifica condizione di subalternità economica e sociale della donna, non sono mancate nel nostro Paese, nel corso degli ultimi tempi, iniziative (tendenzialmente, almeno) ispirate dal proposito di promuovere un generale disegno egualitario all’interno del quale operare interventi più settoriali sul tema del lavoro femminile. Alludo, in particolare, ai progetti presentati dal P.C.I., dalla senatrice indipendente di sinistra Carrettoni, dal P.S.I., tutti più o meno discutibili, sia ben chiaro, e tutt’altro che risolutivi della questione femminile, ma, senza dubbio, correttamente dotati di un più ampio respiro nell’affrontare i nodi cruciali di tale questione. Merita un giudizio decisamente duro, invece, il progetto governativo presentato dal ministro Anselmi, il più riduttivo perché circoscritto alla materia dei rapporti di lavoro, appunto, ed il più dequalificato perché prodigo nelle affermazioni di principio quanto lacunoso nell’apprestare ogni tipo di garanzia effettiva del trattamento egualitario. Esattamente attorno al corpo centrale di quest’ultimo progetto sono stati ricuciti brani di disciplina legislativa ricavati dagli altri, col risultato di approdare ad un testo di legge (quello già approvato dalla Camera) non sempre facile da decifrare, tutt’altro che esauriente e, soprattutto, tutt’altro che adeguato a tradurre i principi di parità formale in un apparato di strumenti operativi in grado di assicurare alle donne la legittima opportunità di accedere ad un lavoro il più possibile stabile, qualificato, retribuito. Senza sottovalutare la complessità della questione del lavoro femminile, senza ignorare che per riequilibrare la condizione di marginalità della donna, a questo proposito, occorrono iniziative accuratamente combinate incidenti nel costume sociale e nel sistema economico, dalla riforma dell’istruzione all’allestimento di servizi sociali, alla adozione di misure di politica economica specificamente dirette ad appoggiare la richiesta di lavoro femminile particolarmente frustrata dalla crisi congiunturale e strutturale del Paese, bisogna, tuttavia, riconoscere che l’intervento legislativo in questione (già debilitato dal mancato concorso delle altre iniziative necessarie a sostenerne l’efficacia) è insopportabilmente carente ed ambiguo.
Un minimo di lucidità nell’affrontare l’esame delle disposizioni salienti conferma che le stesse, pure modeste, ambizioni potevano essere realizzate con ben altro vigore e coerenza. Suggerirei, a questo proposito, di analizzare il nostro progetto (e seguirne, poi, la discussione al Senato) secondo tre diversi punti di vista, a mio avviso, qualificanti per valutare la serietà e prevedibile operatività della legge stessa: si tratta di guardare, da un lato, alla previsione dei diritti che informano il trattamento paritario, dall’altro, alla previsione degli strumenti ed organismi operativi in grado di promuoverne la realizzazione «spontanea» nel
tessuto sociale; infine, alla previsione dei meccanismi di accertamento e repressione delle violazioni.
Per quel che riguarda le affermazioni I di principio, esse non potrebbero, probabilmente, essere più ampie. Sono di- i chiarate illegittime le discriminazioni 1 relative alle assunzioni, alle iniziative ( in materia di formazione professionale, allo svolgimento della carriera, alla attribuzione di qualifiche, alla percezione della retribuzione, ecc.. (artt. 1-3): ma si tratta di affermazioni tanto ampie quanto insufficienti a riequilibrare la subalternità della forza lavoro femminile, essenzialmente, perché il potere legislativo ha trascurato il dato che tali discriminazioni raramente sono esplicitamente motivate in riferimento al sesso e, quindi, facilmente | identificabili e denunciagli. Verifichiamo quotidianamente, invece, l’imposizione di prove od esami ingiustificati (ad es., il sollevamento di pesi), al momento dell’assunzione, o la richiesta di requisiti gratuiti (ad es., una determinata altezza) che le donne, normalmente, non sono in grado di soddisfare oppure la sistematica dequalificazione professionale che surrettiziamente alimenta le sperequazioni retributive. È contro le discriminazioni più subdole e frequenti che la lotta va condotta con particolare decisione, non certo limitandosi alle generiche proibizioni, piuttosto, offrendo agli operatori giuridici (giuristi, avvocati, giudici), oltre che agli stessi soggetti interessati, le opportune definizioni ed esemplificazioni, cioè, tutti gli argomenti teorici e pratici che ne permettano la repressione nel concreto. Assolutamente deprecabile e del tutto ingiustificata appare la lacuna, a proposito di questo decisivo argomento, del nostro progetto, tanto più se si tien conto dei suggerimenti preziosi offerti in merito dall’accurata legislazione inglese raccolti, tra l’altro, sia pure parzialmente, dal progetto P.S.I.
Il generale disegno paritario comporta, inevitabilmente, una revisione di quella legislazione speciale protezionistica del lavoro femminile (disciplina della capacità lavorative e dei suoi limiti, del lavoro pesante, del lavoro notturno, tutela della lavoratrice madre, ecc..) che rappresenta un nodo cruciale di antinomie. Alimentata dai ben noti pregiudizi circa la presunta debolezza e diversità della donna, la «protezione» ha contribuito a rafforzare gli stessi nel costume sociale e, nel mercato della forza lavoro, ha determinato la caratteristica rigidità dell’offerta di lavoro femminile imputabile, tra l’altro, ai più gravosi oneri sociali. La prospettiva globale più corretta si qualifica, probabilmente, nel reclamare le condizioni di lavoro più decenti e tollerabili per tutti, uomini e donne, e, di per sé, appare incompatibile con la predisposizione di «isole di privilegio» a favore delle lavoratrici; d’altro canto, proprio la storica situazione (dato sociale, certo, e non naturale) di cronico svantaggio e debolezza della donna, prodotta, in maniera determinante, dal duplice carico di lavoro di cui è normalmente gravata, esige, a mio avviso, che la revisione della tutela speciale proceda esclusivamente in armonia con lo sviluppo degli interventi atti a risolvere dalle radici i problemi dell’occupazione femminile. E questo, ovviamente, per scongiurare il rischio, sempre presente, di un ulteriore e brutale sfruttamento delle donne nel mondo del lavoro avallato dalla legge, stavolta, e non compensato dalla conquista dell’effettiva parità su tutti i fronti. Si può, quindi, accettare l’ipotesi legislativa del diritto al pensionamento (facoltativo, però) agli stessi limiti di età previsti per l’uomo (art. 4) o della riduzione del divieto di lavoro, notturno (art. 5) a patto che tutte le forze sociali responsabili, a cominciare dai sindacati, s’impegnino quanto è necessario nella difficile impresa di mediare le esigenze connesse all’aspirazione paritaria con il rispetto tuttora dovuto alla storica debolezza della condizione femminile e nell’intento di promuovere, comunque, a favore della donna, le circostanze che ne facilitino, a tutti gli effetti, in riferimento agli oneri professionali come ai vantaggi, l’inserimento nell’area politica del lavoro,
La previsione della parità di trattamento in merito ad assegni familiari, pensione, assicurazioni sociali (artt. 9-12) appare tanto scontata (non a caso contenuta in tutti i progetti presentati dalle diverse forze politiche) quanto opportuna per accreditare l’immagine di una rinnovata dignità della donna nel mondo del lavoro e nei confronti del proprio nucleo familiare beneficiario, al proposito, del trattamento paritario. Niente più che una timida affermazione di principio risulta, invece, l’estensione al padre del diritto di assentarsi dal lavoro per accudire i figli (art. 7) attualmente previsto a favore della lavoratrice madre: gli ostacoli economici e di costume alla liberazione della donna dallo stereotipo dell’«essenzialità» della funzione materna, l’artificiosa divisione dei ruoli familiari non ne vengono certo scalfiti, mentre l’irrinunciabile aspirazione ad una procreazione assunta liberamente, e vissuta nel sociale, chiama in causa ben altrimenti incisivi interventi in materia di strutture sanitarie ed asili, consultori e servizi sociali.
Egualmente, può essere assunta come significativa, in via di principio, ma è assolutamente insufficiente, nel concreto, la sanzione di nullità dell’atto discriminatorio per motivi di sesso prevista (art, 13) ad integrazione del regime dello Statuto dei lavoratori. A parte la consueta difficoltà di individuare e denunciare la prassi discriminatoria indiretta, la nullità dell’atto relativo non reca particolari vantaggi se non si accompagna alla repressione specifica della condotta inquinata dal pregiudizio antifemminista ed alla reintegrazione della lavoratrice colpita nelle proprie legittime aspettative. Ma tutto il sistema di accertamento e repressione delle discriminazioni previsto dal progetto approvato dalla Camera risulta, in realtà, gravemente carente, malgrado le formule testuali possano far presumere il contrario. Lo schema processuale, non a caso mutuato ancora dallo Statuto, appare sulla carta eccezionalmente rapido e deformalizzato (art. 15), ma è destinato, inesorabilmente, ad urtare contro la mancanza di’ strutture giudiziarie, di operatori giuridici disponibili e preparati a realizzare una così spregiudicata amministrazione della giustizia,’ per non parlare dei gravi problemi di interpretazione teorica e pratica che quotidianamente ne compromettono l’efficiente funzionamento. I limiti istituzionali del. nostro sistema sanzionatorio civilistico, poi, pregiudicano in maniera a tutt’oggi irrimediabile l’efficacia del provvedimento del giudice che disponga, ad es,, l’assunzione nel posto di lavoro, l’assegnazione di una qualifica o l’attribuzione di determinate mansioni, con la conseguenza (ben nota agli interpreti che seguono da anni l’esperienza dello Statuto) che c’è ben poco da sperare in una revisione concreta della massima parte degli atteggiamenti discriminatori che non sia volontaria da parte dei responsabili.
A parte le lacune del sistema sanzionatorio civile, anche il meccanismo sanzionatorio penale non appare ben chiaro e suscita molti dubbi a proposito della sua incisività (artt. 15-16). Dubbi, invece, non sono possibili circa l’assoluta mancanza di ogni apparato che coordini, ad es., le competenze di uffici di collocamento, di amministrazioni locali, di strutture scolastiche per promuovere un clima sociale e politico favorevole al riequilibrio graduale e spontaneo della condizione della donna. Nessuno pretende che siano adottati nel nostro ordinamento, per tradizione estraneo a tali soluzioni, i complicati congegni operativi ideati, in proposito, dal legislatore inglese; è legittimo reclamare, nondimeno, un’accurata sollecitudine nell’escogitare un sistema efficiente di iniziative ed incentivi, anche amministrativi, adeguati a stimolare la penetrazione nell’assetto economico e politico del Paese delle tendenze paritarie ed il controllo sul rispetto della legge stessa da parte dell’intero corpo sociale.
Tanti argomenti decisivi, sia pure sommariamente affrontati, inducono, a mio avviso, a formulare un giudizio decisamente negativo sulla proposta di legge già parzialmente approvata: ricche sono le affermazioni di diritti in capo alle donne quanto carenti gli strumenti atti a promuoverne e garantirne la realizzazione nel concreto, mentre problematico risulta l’intero sistema sanzionatorio delle violazioni. Un ennesimo esempio di ottusità e pigrizia del potere legislativo nell’affrontare gli impegni cruciali dell’organizzazione sociale e giuridica del Paese? Certamente, ma con l’aggravante che, ancora una volta, sono vittime di questo vergognoso costume le donne. E non è ingiustificato neppure il sospetto che la relativa sollecitudine nel rapprestare ed approvare la legge (tempi incomparabilmente più brevi rispetto alla vicenda, ad es., dell’aborto) sia proporzionata alla sostanziale inutilità di quest’ultima se non sorretta da una robusta trama di riforme economiche e sociali: una sorta di contentino per l’opinione pubblica femminile dopo la frustrazione patita a proposito dell’aborto ed in previsione di chissà quali ulteriori delusioni.
A questo punto, vista la prossima scadenza dell’esame del Senato, urge, a mio avviso, realizzare un clima culturale e politico fertile di riflessioni e di critiche da cui scaturisca la lucida pretesa di una legge (senza, peraltro, realisticamente sopravvalutarne l’«autorità») esauriente ed efficace il più possibile ed, insieme, la consapevolezza e la decisione necessarie per reclamarne la gestione e controllarne l’applicazione nella maniera più proficua per le donne. In ogni caso, è essenziale scongiurare il rischio che questo ulteriore intervento legislativo venga accreditato presso la parte meno preparata della popolazione femminile del nostro Paese come produttivo di una più democratica condizione di vita e di lavoro: quest’ultimo traguardo reclama ben altre e decise iniziative da parte delle istituzioni politiche e coinvolgerà, inevitabilmente, le donne ancora in laboriose e prolungate battaglie.