PUBBLICITÀ

strega è bello e vola nuda

questa campagna è apparsa sulle più importanti testate della stampa italiana: dai periodici di opinione: Espresso, Panorama; ai periodici femminili: Grazia, Amica, Noi Donne, Gioia, Brava, Lei; sui periodici familiari: Gente, Oggi; sui periodici del settore: Vogue, Bazar, Linea Italiana, Confezione Italiana, e sui quotidiani più importanti: Corriere della Sera, La Repubblica, l’Unità.

ottobre 1977

le opinioni su questa campagna che vuole essere di rottura («una botta al sistema» come dice Silvio Saffirio, direttore dell’Agenzia) sono riassumibili in due posizioni: da una parte l’accusa di strumentalizzazione del femminismo nei testi usati, dall’altra, non dico urla di giubilo, ma… L’articolo apparso su «Noi Donne» n. 42 inizia così: «Tutto testo, niente immagini, ma quel testo colpisce dritto nel segno, come gli slogan gridati dalle ragazze nei cortei e riecheggia tanti discorsi uditi e fatti tra le donne in questi anni caldi del movimento femminile e femminista» e bontà sua termina concedendosi il beneficio del dubbio chiedendosi se questa pubblicità «sta dalla parte delle donne» o invece «è un nuovo modo di strumentalizzarle». Nello stesso articolo, Silvio Saffirio, valutando le critiche alla campagna e distinguendo tra quelle dei conservatori e quelle dei progressisti, puntualizza su questi ultimi «sono state critiche irrazionali, tutti d’accordo sul tetto, contestavano la firma, cioè il nome dell’Azienda, quindi il fatto pubblicitario. Se ad una parte si dice che certa pubblicità offende la donna e la si rifiuta, dall’altra si dice che questa strumentalizza la donna, e la si rifiuta ugualmente, è meglio dire chiaramente che si respinge semplicemente la pubblicità stessa»,
Non sono assolutamente d’accordo, né ad assumere posizioni radicali contro qualsiasi forma di pubblicità, né tanto meno su queste conclusioni che negano la possibilità che esista davvero un modo corretto di operare in pubblicità. Penso, che il cambiamento, sollecitato da anni, non si possa chiedere solo alla pubblicità, ma deve corrispondere da una parte ad un nuovo modo di produrre e dall’altra ad un modo diverso di consumare, maturo e consapevole, che conosca gli strumenti della pubblicità per poterla smascherare, ma anche indirizzare e modificare. È chiaro che la pubblicità non può e non deve restare in attesa passiva, ma cooperare attivamente a questi cambiamenti attraverso una più specifica lotta nel suo settore, che non veda più il pubblicitario come operatore solo ed esclusivamente dalla parte della committenza, ma anche dalla parte del consumatore, inteso nella sua globalità di individuo sociale. Non più in posizione di difesa della corporazione e dei suoi privilegi, ma che inizi un dialogo e una collaborazione con le associazioni dei lavoratori e dei consumatori. D’altra parte anche il movimento sindacale, pur avendo ottenuto il controllo degli investimenti nei vari settori, ha sottovalutato quella parte degli investimenti pubblicitari che creano un indirizzo di consumo e danno una immagine aziendale spesso in contraddizione con i contenuti che il sindacato vuole affermare con le sue lotte. A questo proposito ci dispiace che il Consiglio di Fabbrica della Cori, non abbia voluto aprire il dialogo con noi in merito a questa campagna, perché non conoscendola non poteva entrare nel merito dei contenuti. Cogliamo la occasione per chiedere ancora al C.d.F. della Cori, le sue valutazioni in merito. In questa campagna quindi è ancora il modo con cui si fa pubblicità, pur non offendendo la donna in senso sessista e maschilista, che non corrisponde ad un auspicato nuovo «modo» di intendere e fare pubblicità. Siamo ancora nell’ambito della trovata, dell’impatto emotivo e persuasorio, con un aggancio al «reale» frainteso e di conseguenza superficiale e solo strumentale ai fini che persegue. Lillo Perri di Pubblicità Domani si è inserito in questo dibattito con un commento apparso su Panorama n. 600 «Dare tanta importanza alla Pubblicità mi sembra un po’ volersi scaricare di responsabilità. Non si possono dare alle campagne pubblicitarie significati che vanno al di là delle intenzioni. La pubblicità cerca di inserirsi, come ogni settore, nei mutamenti della’ società». Commento sibillino, che forse delude un po’. Non basta che la pubblicità si inserisca nei mutamenti della società, se questo inserimento si riduce ad un recupero strumentale di questi mutamenti, e soprattutto quando assume significati che vanno al di là delle intenzioni. È il caso della Cori che opera in totale scollamento con quella che è l’azienda e il prodotto. Proprio per questo da una parte è stata attaccata per il fatto ciré, a tanto contenuto «ideologico» corrisponde la firma di una azienda che produce vestiti e che attraverso la pubblicità deve vendere questi, e non ideologie. Rimane valido che la pubblicità non deve avallare posizioni retrive e conformiste, e deve inserirsi nel famoso «sociale», ma, sempre e comunque, nell’ambito della sua funzione specifica, che è quella di comunicare l’esistenza sul mercato di un certo prodotto e predisporne l’acquisto, e rispettare l’effettivo riscontro del prodotto nel «sociale». E non «cercare l’attenzione a colpi di madonne» come ammette Saffirio, senza quindi assumere ruoli che non si può permettere di assumere. Sarebbe stato molto più interessante e giusto se l’Agenzia Pubblicitaria avesse fatto un’operazione di contro-pubblicità sotto forma di una pubblicazione divulgativa al reale servizio informativo dei consumatori. Ma non si può fare la contro-pubblicità in una campagna pubblicitaria pagata dalla committenza, diventa una operazione falsamente culturale in quanto è comunque finalizzata alla vendita di un prodotto, soprattutto se ci si abbandona a voli pindarici, che partendo da ottime intenzioni, finiscono nel qualunquismo. Così l’Agenzia presenta la campagna Cori: «Alla necessità rilevata da tempo dagli operatori dell’informazione, di una più civile e rispettosa comunicazione pubblicitaria ‘(Convegno di Noi Donne, interventi di Effe, articoli di Pubblicità Domani, relazioni al Convegno delle donne giornaliste, ecc.) la Agenzia C.G.S. risponde con la campagna Cori». Mi dispiace, ma questa campagna non è ancora la risposta giusta. Certo è cambiato il linguaggio, ma tutto sommato non cambia il modo di fare pubblicità, né in fondo in fondo il modo di vedere la donna. La donna è cambiata profondamente in questi ultimi anni, ma non sono sostanzialmente cambiati i prodotti che si producono per lei, e che riavallano il suo ruolo nella società. Quindi se il problema è quello di vendere gli stessi prodotti ad una donna che è cambiata, si ha la necessità, ancora una volta, di motivare l’acquisto dei prodotti, al di là dei reali bisogni che soddisfa. Niente è cambiato, alla donna di ieri si vendeva il fascino, l’eleganza, la femminilità,: offrendole l’identificazione con la diva del momento, oggi, alla donna nuova, si vende l’emancipazione o meglio, le si offre l’identificazione con la donna emancipata, sfruttando la sua esigenza di rinnovamento, il disagio del suo ruolo, un ruolo che sta diventando una scarpa stretta per tutte le donne. In questo senso la pubblicità va ancora in cerca di aree di consenso, anche senza l’aiuto di complesse analisi motivazionali, che del resto in Italia si fanno poco e male, e che l’intuito e l’osservazione del pubblicitario possono benissimo sostituire, come appunto in questa campagna. Niente di nuovo splende sotto il sole rassicurante e persuasorio del la pubblicità, «si tratta di vendere i miti in modo più intelligente» come dice Saffirio, (no, non avete capito male: è proprio il direttore della C.G.S.) e aggiunge «sebbene vendere l’emancipazione sia ancora molto prematuro come argomento di vendita. Attraverso quella, che potrebbe essere la vendita di una nuova immagine, ci sono dei contenuti che interessano la consumatrice, che magari non vuole nemmeno sentir parlare di femminismo, ma che ha certamente superato il problema di tenere al laccio il marito con una saponetta». È indubbiamente un’immagine molto vaga per definire il target della campagna Cori, di cui solo si sa che la fascia principale è una donna che va dai 30 ai 45 anni, e questa vaghezza salta fuori da tutta la campagna e soprattutto dallo slogan «Né strega, né madonna» rimodellato sullo slogan femminista «Né puttana, né madonna, finalmente solo donna» riadattato ad un conformismo borghese che vuole il concetto di strega contrapposto a quello di madonna. In questo senso il «solo donna» riproposto dalla Cori, ricucito su una lunga sequela di né così, né colà, una filastrocca tutto sommato divertente, dei ruoli imposti dalla donna dalla società e avallati dalla pubblicità, assume un significato ambiguo di «scatola vuota». Cosa vuol dire «solo donna» per i manipolatori di questo slogan? Una donna che è ben lontana da aver imboccato la strada della liberazione, forse lontana anche dalla emancipazione, una donna chiusa in una gabbia di aggettivi descrittivi del suo non-essere, soffocata da secolari oppressioni e condizionamenti sociali e culturali, e sotto sotto quale è il messaggio che le si rivolge? Puoi liberarti anche da tutto questo ancora attraverso l’acquisto, e più sotto ancora, non riaffiora il vecchio modello di femminilità espresso nella manipolazione consumistica della sua oppressione che da sempre la pubblicità ha esercitato? La pubblicità, e nel libro «La mistica della femminilità» di Betti Friedan è analizzato chiaramente, non ha sempre trasformato le insoddisfazioni della donna in capacità illimitata di autogratificazione attraverso l’atto feticistico dell’acquisto, del possesso sublimale di oggetti inutili, il più delle volte prodotti solo per soddisfare i suoi bisogni inconsci? Quel malessere e quella insoddisfazione incomprensibilmente presenti nelle donne di tutte le classi sociali, che il femminismo ha portato alla coscienza di tutte noi, individuando le origini nella oppressione, nello sfruttamento, nell’espropriazione del nostro corpo e della nostra dignità di esseri umani, attraverso i suoi principali strumenti di analisi e di lotta: l’autocoscienza e il separatismo.
Altre contraddizioni emergono da questa pubblicità ad una più attenta analisi.
Lorenzo Trossarelli, direttore della pubblicità della Azienda che ha il marchio Cori, afferma «Ora si avvicina, è evidente, un nuovo modo di concepire il consumo, e un’azienda può richiamare la donna a collaborare a certe scelte, anziché imporgliele». Una buona intenzione rimasta, ancora una volta, solo sulla carta e non espressa in questa campagna pubblicitaria. La consumatrice ne sa esattamente quanto prima sulla Cori, probabilmente niente che la possa aiutare a capire le sue scelte, aziendali di produzione, come opera nel settore tessile che è uno maggiormente in crisi in Italia, niente sulle materie prime che adopera e perché, niente sui costi di vendita, insomma niente che la possa aiutare a non essere solo il «terminal» passivo della produzione, come mi sembra di capire attraverso le parole di Lorenzo Trossarelli. In compenso, il gruppo Finanziario Tessile ha speso, per questa campagna probabilmente 600 o 700 milioni, {mediamente lo stanziamento pubblicitario è del 2% sul fatturato) non certo per rendere la consumatrice più responsabile delle sue scelte, aiutandola e indirizzandola correttamente all’acquisto, ma per farci sapere la sua idea sulla donna, o meglio per dirle solo come non dovrebbe essere, per dirle che «nessuno ha il diritto di dire cosa deve essere e come deve fare» e proporle un altro modello comportamentale falsamente liberatorio e privo di contenuti.
Credo quindi, che al di là del giudizio di strumentalizzazione del femminismo, il merito di questa campagna consiste nel far emergere le contraddizioni tra la nuova maturità acquisita in questi < anni dal mondo pubblicitario, e la sua incapacità, e non impossibilità, di esprimerla attraverso l’ideazione di una campagna. Di non tradurre, operativamente, tutti i buoni propositi che lo animano. Forse un tantino presuntuosa, quando afferma di essere «una campagna non tradizionale che “parla” perché ha delle cose da dire e le dice perché ha delle cose da cambiare. E continuerà finché non saranno cambiate». Ambigua, quando dice di «voler dare una botta al sistema». Contraddittoria, quando afferma «tutte le campagne nascono per far vendere meglio, anche la Campagna Cori, non sfugge a questa regola: il suo obiettivo è anche naturalmente vendere».

quello che non vedrete di questa campagna
Manifesto promozionale distribuito ai rivenditori e alla stampa del settore insieme al depliant di presentazione della campagna pubblicitaria

Disegni annessi alla presentazione della campagna per spiegarne meglio lo spirito…

…fatti «naturalmente» dai grafici dell’Agenzia Pubblicitaria