nora e le altre
quest’anno è il centocinquantesimo anniversario della nascita di Ibsen e ancora una volta 3 giornali riportano, oltre che vita ed opere, il solito discorso sull’emancipazione femminile che viene fuori soprattutto dal personaggio “travagliatissimo” di Nora di Casa di bambola.
se Nora è l’emblema, l’eroina ormai passata alla storia come colei che prende coscienza del suo essere ninnolo, bambola e poi … «nulla» per il marito, all’internò dell’istituzione famiglia, a rileggere «tutto d’un fiato” oggi l’opera di Ibsen, i suoi personaggi femminili stimolano senz’altro ad una lettura che va oltre a quel, la tradizionale di un Ibsen «femminista».
È certo che Nora possa suscitare ancora «l’interesse dei poco critici cervelli femminili”, come diceva Croce, per il suo gesto, ma perchè non passare qualche ora con le altre, con Inger, o con Eline, o anche con Agnese, o ancora con Svanild, con le «emancipate» dei Pilastri della società, con Rebecca, Heddà, Hedvyig, Ellide, o con Rita, Asta, Ireste….?! In uno dei primi drammi Donna Inger di Ostratt, l’Eline che nel primo atto dichiara di voler seguire la propria strada, di voler trovare la forza di «tutto osare per una giusta causa», ripiega niella fierezza di poter amare l’uomo, e di sentirsi amata: «come un cane mi sento felice dì possedere un padrone al quale lambire la mano, così io sono fiera di poterti guardare negli occhi e di poterti ascoltare quando mi mormori tenere espressioni… perchè io possa vivere è necessario che conservi il mio amore!”
Già subito si delinea insomma come le donne di Ibsen non possano aspirare che all’amore e alla famiglia, che non trovino la forza — perchè non sarebbe nella loro natura! — di occuparsi dì problemi sociali, ma che resti loro un solò desiderio: quello del figlio maschio: «come potevo amare le mie figlie —dice Inger — ricordavo intensamente il figlio dell’anima mia! Lui soltanto mi ricordava il tempo nel quale era stata veramente donna e nient’altro che donna…”
E che dire di Brand che dichiara apertamente: «per l’uomo la lotta, l’azione, le tempeste; per la donna la dolcezza che sanerà tutte le ferite, anche mortali”, alla propria moglie Agnese, aggiunge che a lei spetta una missione: «io combattere per vincere o soccombere, non importa.:, mentre tu devi porgermi la coppa dell’amore.”
E lei, che ormai ha dato tutto, la vita stessa, alla quale egli vuole portar via l’ultimo ricordo del figlio morto e che dichiara «Mi si uccida: piuttosto che portarmi via tutto! Vedi ho ceduto goccia a goccia! Non posso più!”, invece deve da* re tutto, fino all’ultimo, sotto lo sguardo di Brand, che tutto le chiede, anche di morire di dolore!
Così quello che già viene fuori è che le donne di Ibsen o sono madri, o sono mogli, oppure morte!
Così la Solvejg del Peer Gynt, è anche’ essa una sposa e una madre consolatrice: «Oh madre/sposa/donna senza colpa!/ Ti prego accoglimi, / fa che io ritrovi te / il mio riparo! le dice Peer: e qui «lei” è sposa, madre e vergine insieme! Mentre il personaggio femminile dei Guerrieri ad Helgeland, che è Hjordis, è perfettamente maschile, «il mio amore non è timido come quello delle femminucce», e allora lei non può arrossire, bensì incutere paura al marito che le dice «Tu sei troppo fiera, troppo forte…”. Invece con Svanild, Nora e qualche altra ad un certo punto sembra che il signor Ibsen metta in discussione (si fa per dire!) questo suo concetto del femminile, e lo fa soprattutto con una critica al matrimonio borghese, e tutto questo non è casuale, ha incontrato una femminista, che per un pò sembra fargli cambiare strada, ma per poco tempo, come vedremo! I primi sentori di «emancipazione» arrivano nella Commedia dell’amore, dove Falk dice a Svanild: «abbastanza presto vi rinchiuderanno nella gabbia dorata dove si onorano le convenzioni, ma dove la donna intristice!” Il passo avanti sembra compiuto, comincia la critica al matrimonio borghese e il discorso sul rapporto uomo-donna. Ma dell’uomo è la forza e della donna la generosità; e allora Svanild stessa dice al suo Falk che in due è più facile, perchè si uniscono le qualità: «Vedi? — dice Svanild — La lotta è facile, quando si è in due a combattere; e uno dei due è il più forte!” e lui «E l’altra generosa. Due esseri simili non potranno soccombere”. Invece poi soccombono, anche se Ibsen non ha l’aria di accorgersene! Lei si sposa l’essere mediocre, intanto quello che vale è l’amore puro, l’amore eterno, quello per Falk che non morirà mai! Però Ibsen nel frattempo continua il suo percorso, in avanti, verso l’idea che le donne si debbano emancipare, che il matrimonio è un affare di convenienze, formalismi e ipocrisie: così arrivano Lona, Dina e Marta, «i pilastri della società!” La trama è un pò complessa e quindi anche i pilastri della società è un dramma tutto da leggere: anche perchè i pilastri qui sono loro, le donne, e anche Nora, che nel suo Casa di bambola, arriva qualche tempo dopo, è una di loro. Qui fiumi di parole sono stati scritti per interpretare, censurare, giustificare … il paladino Ibsen, (dell’emancipazione naturalmente!) ma tanti sono i sospetti che arrivano a rileggerla oggi, e perfettamente giustificati, se poi continuiamo a leggere tutti gli altri personaggi della grande scena ibseniana. Nora, la bambola, il ninnolo pronto sempre a rispondere con le sue piroette a Helmer, pronta a travestirsi per lui, perone lui possa fantasticare e soprattutto tacere…
«Povera Nora smarrita, — parole di lui ~~ che deve essere sempre sincera con il suo proprietario, perchè lui sarà la sua coscienza e la sua volontà” (sempre parole di Helmer).
Nora, non è capace neppure di ascoltare il dolore dell’amica, a cui è morto il marito ed ora si trova in disgrazia, occupata com’è a parlare della sua felicità, della dolcezza di essere felici, dei bambini, della fortuna di avere un marito così…
E poi la sua bellezza, «come sarò bella domani, vedrai!”, «soltanto domani mi potrete vedere in tutto il mio splendore” : alla stregua dei suoi ninnoli e delle sue porcellane, un oggetto tutto da ammirare e guardare, per il piacere dello sguardo di lui… «Torvald ha per me una vera adorazione e perciò mi vuole tutta per se solo, come dice lui. Nei primi tempi era quasi geloso se mi udiva nominare le persone care di casa mia. Naturalmente smisi di farlo»; fin qui Nora è tutta per il suo signore, ma ad un certo punto accade qualcosa: «Non eri felice ma…” «No: soltanto allegra, ecco. Eri molto carino con me: la nostra casa non è stata altro che un luogo di ricreazione. La mia vita! Con mio padre una bambola-figlia; con te una bambola-moglie. E i nostri figli le mie bambole…” Ecco che lei sembra vacillare, tentare di voltare le spalle,-ma non è facile «Sei pazza?” domanda il marito. E comincia così il discorso del ricatto, dei doveri, «Così sei pronta a tradire i tuoi doveri più sacri?… quelli che hai verso tuo marito e i tuoi figli?” Ma lei sembra riuscire a sfuggire a quelli che ora chiama i miti. «Non credo più a questi miti, credo di essere un essere umano, come lo sei tu, o che almeno devo sforzarmi a diventarlo… non posso più ascoltare gli uomini, né badare a quello che è stampato sui libri. Ho bisogno di idee mie e di provare a vederci chiaro». … «ho capito … di essere vissuta per otto anni con un estraneo. Un estraneo che mi ha fatto fare tre figli… vorrei stritolarmi… farmi a pezzi…» Certo, a rileggere Nora in questa fase pare che Ibsen sia arrivato a quelle che critici autorevoli chiamano un momento della «politicizzazione del privato»: ma
Ibsen deve fare i conti con la società a cui appartiene, e … forse anche con se stesso.
Nora non può lasciare i figli e la casa, non le è concesso; deve invece, come farà in una seconda versione dell’opera, avere i suoi rimorsi, ritornare dalle sue creature, ricominciare a mangiare i dolci che le piacevano tanto… Le attrici della Nora «prima stesura» infatti rifiutano di interpretare questo personaggio immorale (come l’attrice Hedvig Niemann-Raabel, che — come qualcuno ha scritto — naturalmente la sera prima aveva interpretato Lady Macbeth!) e così lei si volta, è costretta a voltarsi, e ritorna dai suoi figli, nella sua bellissima gabbietta dorata, pensando — sotto il suggerimento di lui che altrimenti i figli sarebbero rimasti orfani, senza mamma ( «come lo sei stata tu!” rintuzza il marito), lei, la madre non può abbandonarli: il dramma è finalmente compiuto, cala il sipario! Così, mestamente forse, il pubblico di fine ottocento l’ha fatta rientrare in casa, e intanto arrivano le altre, Ellida ad esempio, la protagonista della Donna del mare: lei, come Nora prende coscienza della sua condizione, dice a Wangel che lui l’ha comperata, e lei non è stata migliore di lui perchè si è venduta. Era la sistemazione, l’appoggio per il resto dell’esistenza, ma «la presa di coscienza» porta alla messa in discussione di tutto ciò: «Io non avrei dovuto accettare. Mai! A nessun prezzo. Non avrei dovuto vendermi. Meglio il lavoro più umile, meglio la miseria… Ora vedo chiaro. Vedo che il nostro, in fondo, non è stato un vero matrimonio”. Ma tutto si ricompone, e il vero matrimonio arriva, in un’atmosfera da brivido come quella della Donna del mare, Ellida ridiventa la figura femminile che ci si aspetta da lei, lei, così diversa, nevrotica, lei che si immerge sempre nel mare, come colui che va nella tempesta, superata la «crisi” ritorna su quello che Gabriella Ferrugia, nella sua bellissima introduzione a Casa di bambola, chiama l’altare della femminilità. Ma non a tutte è concesso il destino di sopravvivere al dramma e allora Hedda Gabler, la donna assetata di libertà e di qualcosa di coraggioso, sommersa dalla tremenda realtà che la circonda si uccide, Ibsen ha ormai esaurito il suo momento femminista, alle donne non è concesso di emanciparsi né di elevarsi alle «alte vette dove a volte arrivano gli uomini”, a loro è concessa la rinuncia. Così rinuncia Rebecca di Rbsmelshsom, così Rita de II pìccolo Eyolf, così le donne di John Gabriel Borkman, tutte legate alla loro incapacità tipicamente femminile a elevarsi…
Rimane loro l’amore per il marito, mentre a lui, il marito la forza, la vittoria, gli alti ideali. Così un’ultima eroina, Irene, la protagonista di Quando noi morti ci destiamo, alla quale resta l’amore subbli-me per il quale muore.