note su un viaggio indiano di sole donne
in India più del 75% della popolazione vive nei villaggi; vedere solo le città è quindi estremamente limitato per poter capire a fondo la realtà indiana, compresa quella delle donne, certamente le prime a subire i pesanti e complessi condizionamenti della religione e della tradizione presenti in ogni atto quotidiano. Nel marzo scorso, durante un viaggio nel Sud dell’India, sono stata nelle campagne, iri villaggi irraggiungibili dalle strade asfaltate, accompagnata e ospite del movimento Sarvodaya, movimento gandhiano che lotta per la redistribuzione delle terre incolte dei latifondisti ai contadini che ne sono privi. Il Sarvodaya, che ha un grosso seguito nelle campagne, sia nel Nord che nel Sud, e conta su un’organizzazione veramente capillare fra i contadini senza terra, ha al suo interno, oltre ad altre strutture per la bonifica e il miglioramento delle terre, la Fondazione Kasturbha (dal nome della moglie di Gandhi). È un’organizzazione di sole donne e per le donne, autonoma dal Sarvodaya, inserita però nel generale progetto basato principalmente sull’autosufficienza di ogni villaggio, che è l’unica condizione per fermare l’esodo dei contadini senza terra verso le zone urbane che fa delle grandi città altrettanti mostri. Ho visitato così il Kasturbhagram (villaggio K.) situato in piena campagna nel Tamil Nadu, estrema punta meridionale dell’India.
Dopo sei ore di viaggio da Madurai, la città che serviva da base per visitare i villaggi assieme ai gentilissimi amici del Sarvodaya, ci fermiamo finalmente davanti ad un cancello, che appare improvviso dietro una curva, dopo chilometri e chilometri di campagna assolata e desolata. Un cartello rosso dice: Kasturbhagram; alla memoria di Kasturbha Gandhi.
Entriamo in questo luogo finalmente ombreggiato; ma aldi là dell’ombra e della pulizia che noto immediatamente, avverto subito la grande calma delle persone che lavorano muovendosi silenziosamente tra le palme altissime e le piccole costruzioni bianche del villaggio. Dico persone ma in realtà per ora vedo solo donne.
Il segretario del Sarvodaya che ci ha accompagnato confabula con tre di loro (sorridenti e per nulla stupite di questa visita) sulla sorte mia e del mio compagno di viaggio.
Poi veniamo affidati nelle mani di Ramala, la più giovane delle tre. Visto che gli Indiani sono di poche parole, non so ancora esattamente dove mi trovo.
So solo che, dietro mia richiesta, oggi dovevamo visitare un’organizzazione di donne, ma probabilmente, poiché in Italia noi compagne siamo organizzate in modo più politico ma purtroppo più parziale (ci vediamo la sera alle riunioni poi tutte tornano alla propria vita), vedere un villaggio esclusivamente di donne mi sorprende molto.
Ramala, che per due giorni ci accompagnerà a visitare il villaggio, è una delle responsabili del Kasturbhagram., È vestita col saree, come tutte le donne, ma con un’eleganza e una pulizia particolari: il saree, bianco e nero, è di cotone filato a mano; lo noto a prima vista, ormai abituata a capire gli Indiani anche dalla stoffa dei loro vestiti. La classe media avvoltolata in orrendi tessuti sintetici, i ricchi addobbati di seta bella ma un po’ pacchiana, fino ai «gandhiani» che si vestono di cotone filato a mano secondo gli insegnamenti del «mahatma». Sono ospite di queste donne per due giorni e si vede dal loro camminare in fretta tra la cucina e la veranda dove sono io, che il nostro arrivo crea un po’ di problemi. Ma nel cercare di mettermi a mio agio, nell’offrirmi acqua di cocco e noccioline, né Ramala né le altre sono solo gentili. Si vede che dietro al paziente e metodico rituale con cui accolgono l’ospite c’è anche una enorme curiosità per me come persona.
Infatti rispondono alle mie domande con l’aria spigliata e viva di chi, mentre parla, cerca di capire dove vivo, i motivi per cui sono lì, il tutto assieme a una specie di vanità che assomiglia un po’ a quella di noi compagne, quando andiamo a una riunione del movimento con una gonna nuova o la permanente fresca. Ramala ha 22 anni; parla un inglese perfetto perchè ha studiato alle scuole superiori. I suoi genitori abitano in campagna, in un villaggio abbastanza lontano dal distretto di Erode, dove ci troviamo ora. Si sono sposati, per volontà dei loro parenti, rispettivamente a 6 e 11 anni; Ramala me lo racconta quasi con l’orgoglio di chi ha la coscienza dei passi in avanti fatti; mi spiega anche, prima di portarmi a visitare il villaggio, qual’è la vita che l’attende se torna a vivere nella casa paterna, quale il destino delle donne in campagna dove i doveri religiosi, di casta e del clan familiare scandiscono la loro vita momento per momento, attività per attività, con regole e consuetudini totalmente aliene dalla loro volontà e dai loro desideri, riducendole a meccaniche esecutrici di un rituale totalizzante. I matrimoni sono sempre e tuttora combinati dai familiari e anche se attualmente nessuno più si sposa a 6 anni (infatti era di pochi giorni prima una legge del governo che differisce a 18 anni l’età minima per il matrimonio), spesso a 30 anni le donne si trovano già con 5 o 6 figli e il marito ubriaco. Nelle campagne, tra gli uomini, c’è molto alcolismo, dovuto alla disgregazione che si insinua nei villaggi in seguito ai tentativi di occidentalizzazione, modernismo e urbanesimo, tramite i suoi modelli di vita. Questo è il quadro che Ramala mi fa, anche se non aggiunge molto in realtà, anzi mi conferma ciò che per più di due mesi ho visto correre davanti ai miei occhi passando per le campagne: immagini di donne magrissime e bruciate dal sole al lavoro nei campi chinate nell’atto di raccogliere in tempi serrati le piantine di riso, donne stradine e terraiole (questa è l’emancipazione tramite il lavoro concessa alle donne), donne muratore a volte incinte o con bimbi nudi che saltellavano dietro, donne anziane con volti ormai persi nel nulla, o come ho visto a volte vicino ai templi, vecchie mendicanti troppo oberate dai numerosi parti e dai pesantissimi lavori per non diventare pazze, chiedere l’elemosina con aggressività o con una profonda disperazione sul viso. Ho ancora negli occhi, come un’allucinazione, la donna spettinata, vestita di stracci, ormai mezza nuda, che si rotolava per terra urlando, vista pochi giorni prima in una strada di Madurai. Sono contenta quindi dopo due mesi passati tra la disperazione e la miseria, di avere accanto a me Ramala con la sua vitalità e il suo entusiasmo (paziente però all’indiana), e di poter con lei visitare qualcosa che le donne stanno facendo in prima persona.
E proprio oggi che è l’8 marzo, la tradizionale e ormai un po’ stantia giornata della donna, il bisogno che covo da mesi di entrare nella realtà delle donne indiane sta per essere soddisfatta! Questo Kasturbhagram è stato costruito nel 1954, in parte con denaro che la famiglia di Rasturbha alla sua morte aveva devoluto per l’emancipazione e il progresso femminile, in parte con soldi raccolti dalle donne dell’organizzazione. Vengono cosi costruite una scuola elementare, 5 o 6 casette per alloggiarvi bambini orfani o abbandonati, una scuola di taglio, una per filare il cotone, una per maestre, una per assistenti ai problemi rurali, corsi tutti della durata di 2 anni, con gli alloggi per le ragazze che li frequentano.
Attualmente c’è anche una banca e un ufficio postale: questi sono gli unici posti dove si possono vedere due uomini, che però, come mi sottolinea Ramala, non vivono nel villaggio.
È quindi abitato solo da donne, circa trecento, e da bambini, circa un centinaio. ” E un posto veramente tranquillo per le donne; qui nessuno ci disturba» aggiunge la mia amica, e in realtà anche se io mi sono chiesta se e come vengano risolti qui i problemi sessuali, deve essere già una grossa conquista, per donne che hanno come prospettiva solamente rapporti sessuali imposti da un contratto fra i genitori, rischi di continue e non volute gravidanze, poter studiare, imparare un mestiere, starsene tra donne, in pace. Non è tanto l’obiettivo, non rivoluzionario in sé, quanto il modo in cui queste donne gestiscono il villaggio che mi ha stupito. Una scuola elementare la sanno mettere in piedi anche le suore; ma qui i bambini vengono educati in un modo diverso: non fanno religione, ma leggono brani dai testi sacri di tutte le religioni, vengono educati al lavoro dei campi, all’autosufficienza. E qui infatti tutte e tutto è autosufficienza: i bimbi ospiti in casette piccole e bianchissime coltivano un proprio orto, un campo, dei fiori: è vero che l’infanzia è un’invenzione della borghesia, e si vede qui dove il bambino è rispettato come una persona che, secondo le sue possibilità, aiuta, amato e rispettato senza quei coccoli mielosi, frutto a volte più dell’ “industria del bambino” che di vero amore per l’essere che c’è dietro a un corpo piccolo e tenero.
Nel villaggio sono state accolte anche tre famiglie di contadini fuori casta privi di terra, perchè il Rasturbhagram ne aveva troppa e non riuscivano a lavorarla. Quando c’è bisogno le ragazze e i bambini stanno alzati fino a notte fonda per finire un raccolto, per non perdere la propria autosufficienza: tutto ciò che usano proviene dai campi e dal loro lavoro: mangiano quello che coltivano, si vestono col cotone filato da loro, raccolto nei loro campi, usano il metano derivato dalla fermentazione di piante che nascono nelle loro terre. Il sovrappiù viene venduto, a condizione che avanzi dal fabbisogno. «L’autosufficienza — mi dicono — fa sì che, qualsiasi cosa capiti, noi non dipendiamo da nessuno”.
Ne’ dall’uomo ne’ dal governo, ritenuto da queste donne qualcosa di estremamente remoto e estraneo alla propria vita. È dal desiderio di mantenere questa autosufficienza che nasce l’enorme spinta che le fa lavorare fino a notte, che fi in modo che, sui tetti della scuola io trovi a seccare le pannocchie di granoturco, con un’utilizzazione totale e anticonvenzionale di tutti gli spazi. Visitiamo anche i campi, vediamo i pozzi che servono per l’irrigazione delle terre, notiamo un campo per i giochi e un teatrino, visitiamo le scuole, le cucine, le sale per sartoria e per la filatura del cotone, tutte di una povertà e di una pulizia che intenerisce.
prepararsi per dire no ai condizionamenti della società
Le ragazze che frequentano questi corsi, che ci sorridono o ci seguono, sparse qua e là sotto le palme a studiare, sedute sui muretti a scherzare, avranno uno strumento in più per dire no ai condizionamenti della società, quando torneranno ai villaggi: una cultura e una professionalità, ma soprattutto l’aver intravisto che ci può essere una vita alternativa a quella squallida e gravosa che i genitori prospetteranno loro. I compito, che questo gruppo si prefigge, di liberare sé e le altre donne dai condizionamenti della miseria, dell’ignoranza, della superstizione e dal baratro d’indifferenza in cui quasi la totalità degli uomini e delle donne vive richiederà molto tempo.
«Probabilmente si potranno vedere i frutti tra 3 o 4 generazioni” mi dice la mia amica, mentre, nel buio di questa campagna indiana, stiamo andando al-l’Health Center costruito da loro, assieme ad una scuola media, in un villaggio attiguo, abitato da tutti, uomini e donne. Questa sicurezza con cui Ramala porta avanti un lavoro che darà frutti solo tra anni ma nello stesso tempo la coscienza che servirà non solo alle altre donne, alle future generazioni, ma serve anche ora a lei stessa, non smette di sorprendermi. E infatti non si ritiene, solo per quello che fa, esente dai problemi che hanno le donne nei villaggi: attendono anche lei, e pesano sulla sua testa i pregiudizi, il matrimonio imposto, i lavori di casa, i figli.
“Queste donne invece sono dentro ai villaggi, alla cultura antica ma vera dell’India; vogliono fare da sole, senza l’aiuto del governo, senza la lunga mano paternalista dell’uomo; vogliono, lavorando e contando solo sulle proprie forze, avere coscienza di sé e della propria vita”.
crescere con i ritmi della natura
Lei a 22 anni è riuscita ancora a dire di no, è qui e, cosciente dei tempi strettissimi che la premono (in India per una donna non essere sposata a 25 anni significa arrecare un danno incredibile alla reputazione della famiglia e un vincolo per le sorelle minori), con calma e testardaggine, continua il suo lavoro, che ritiene giusto, con una concezione del tempo a noi totalmente sconosciuta. Non per questo è una santa, anche se a volte, in realtà mi è venuto da guardarla come se non fosse fatta di carne, Invece no: è vivissima, scherziamo, ridiamo, è piena di voglia di vivere e di capire tutto, comprese le problematiche del movimento femminista in Italia, benché profondamente cosciente che qui, in queste campagne, è impossibile per lei e per le altre un discorso chiaro sulla sessualità, e quindi, sorridendomi quasi a scusarsi, lo sfugge anche con me. All’Health Center ci accoglie la levatrice, una donna anziana piccolissima, sorridente ma evidentemente intimidita dalla nostra visita. Qui è la prima volta che vedono gente occidentale; bianchi, come dicono loro che sono nerissimi, e a volte quando, rispondendo alla loro domanda, dici che vieni dall’Italia, ti guardano con l’aria un po’ infantile di chi intravede, senza collocarlo geograficamente, un paese solo immaginario. ha levatrice ci accompagna nella sala parto; c’è un lettino ginecologico, un mobiletto con 4 o 5 medicinali (quelle giuste, penso); tutto è bianchissimo e pulitissimo. Non si sono avuti, qui, casi di morte per parto: per l’India è una vera conquista.
Nella stanza accanto ci sono una trentina di culle; è una specie di asilo nido dove le donne lasciano i bambini prima di andare a lavorare nei campi. Usciamo e sprofondiamo nella notte indiana: in questo buio, tra grilli e cicale che cantano, le stelle enormi che pare gravino, assieme al buio, sulla tua testa e sulle tue paure inconscie, tra alberi quasi vivi mentre sono mossi dalla brezza che finalmente rinfresca il corpo, camminando per sentieri conosciuti solo a Ramala, dove intuisci un incredibile brulicare dì vita animale notturna, lontana migliaia di chilometri non solo dall’Italia, ma anche dalla mia realtà, penso alla giornata passata. All’allegria, alla bellezza, al rispetto di sé di queste donne, alla disponibilità nei miei confronti, ma anche alla loro ostinazione e alla loro concreta estraneità davanti alle irraggiungibili mete di occidentalismo, per un attimo allettanti, ma forse ingiuste per loro, che potevano affiorare dai miei discorsi. E giustamente rifiutano il modernismo, giustamente rifiutano il cinema mieloso e moralista che può offrir loro la città, rifiutano gli apporti dello squallido occidente: i sarees di nylon, le scarpe come lo zatterone, le terribili cotonature dei capelli che si vedono tra la classe media delle città, i prodotti di bellezza «western style” che sanno di brillantina, i fotoromanzi pieni di attrici ciccione (il grasso qui è simbolo di benessere). Queste donne invece sono dentro ai villaggi, alla cultura antica ma vera dell’India; vogliono fare da sole, senza l’aiuto del governo, senza la lunga mano paternalista dell’uomo; vogliono, lavorando e contando solo sulle proprie forze, avere; coscienza di sé e della propria vita. Ho fatto la sciocchezza di chiedere, secondo i miei parametri occidentali, cosa fanno nel tempo libero. Ma qui il tempo libero non esiste, perchè non esiste la città, con la fabbrica, il padrone e la catena di montaggio e quindi il tempo non è scandito dal lavoro e dal tempo libero del marito.
I tempi vengono dai raccolti e da loro stesse, secondo il ritmo che questa unione donne e natura comporta. Al tramonto, con l’insegnante di musica che canta e suona per noi una canzone struggente come solo quelle indiane sanno esserlo, in questa calma e in questa pulizia quasi patetica, lontano dal rumore, dalla città, dalle macchine, dall’uomo, dal suo odioso mondo, mi sento veramente lontana dalle loro guerre, dalle loro nevrosi.
E mi pare che riesca finalmente a emergere un altro lato dell’umano, quello femminile, fino ad oggi rimasto una potenzialità inespressa, per cui anche lo stare tra donne non è qui solo uno slogan, una parentesi strappata e forza alla nostra giornata, tutta impostata su ritmi alieni al nostro modo di essere; non è solo un rifiuto con la sua paralizzante negatività, spesso per noi purtroppo l’unico modo di reagire, ma un consapevole tentativo di impostare un nuovo rapporto col mondo, alla ricerca di tempi e ritmi nostri.