un antifemminista al mese
pier paolo pasolini
Le provocazioni che Pasolini periodicamente lancia dalle prime pagine dei grandi quotidiani sono ancora, incredibilmente, oggetto di dibattito in un’Italia diventata forse ’ moderna ’ — come afferma Pasolini — ma rimasta ineluttabilmente provinciale. Nel 1968 amò i poliziotti. L’anno scorso teorizzò che si può essere ’ schiavi e felici ’. Era inevitabile che oggi non ci risparmiasse il suo commento alla strage di Brescia chiamandoci — con una mirabile citazione di Dostojevski — a prosternarci davanti agli assassini.
La novità, questa volta, sta nel fatto che Pasolini non solo legge male la società italiana, ma legge male anche Dostojevski.
E questo (cultura per cultura) ci sembra una cosa seria. Secondo la nuovissima lettura che dei Fratelli Karamazov ci dà Pasolini, padre Zo- sima si prosterna (e noi dovremmo fare altrettanto) davanti a Dimitri, il « parricida ». (Corriere della Sera, 24 giugno u.s.). Eh no, professore. Che non abbia letto il libro fino in fondo? Padre Zosima si prosterna davanti a Dimitri Karamazov non perché è (cioè sarà) parricida, ma perché verrà a torto accusato di parricidio: e dovrà, sì, sopportare « il più disumano dolore », ma non per avere, come i fascisti di Brescia, ucciso. Non è una differenza da poco. Nella sua cella affollata dei vari personaggi del romanzo, padre Zosima seppe effettivamente distinguere: chi non distingue — il vero dal falso, il fascista dall’antifascista, le apparenze dalla realtà — è Pasolini, che con tanta presunzione ci impone il suo uso approssimativo della semiologia.
Di fronte alla costernazione dell’Italia intera per la strage di Brescia, Pasolini sfoglia il manuale di semiologia e sentenzia che i giovani fascisti e i giovani antifascisti « sono culturalmente, psicologicamente, e quel che è più impressionante, fisicamente interscambiabili ». Ora, che PPP non distingua tra i jeans di boutique di un giovane borghese e quelli macchiati di chi li usa per lavorarci, perché sembrano stinti tutti e due, passi; ma che affermi che « si può parlare casualmente per ore con un giovane fascista dinamitardo e non accorgersi che è un fascista » è troppo — e personalmente ci sembra anche incredibile che si possa parlare casualmente per ore. Pasolini ammette tuttavia che tra fascisti e antifascisti una distinzione c’è: una sola: « una ’ decisione ’ aprioristica che, per essere conosciuta, deve essere detta ». In altre parole, Pasolini distingue un fascista dinamitardo solo se quel fascista dinamitardo gli dice di essere un fascista dinamitardo. Più o meno come la polizia italiana: di questo passo, lo assumeranno presto al Ministero degli interni. E nella o- scura notte pasoliniana, in cui tutti gli italiani sono neri, dove pensate che siano le donne? Accomunate forse nell’indistinto polverone generale? Nossignori. Le donne, puramente e semplicemente, non ci sono. Tanto è vero che quando Pasolini analizza il voto del 12 maggio, sentenziando — poiché « conosce la semiologia » — che è avvenuta negli italiani una « mutazione antropologica » (gli italiani non sono più quelli), non coglie quella che è stata la « mutazione » più significativa rivelata dal referendum su Idivorzio: i passi avanti compiuti dalla donna nella sua presa di coscienza.
La donna, per Pasolini, è emblematicamente seduta sul sellino posteriore della motocicletta, oggetto soddisfatto della propria condizione, e serve soltanto a definire l’uomo così come serve a definirlo il possesso della Honda: due accessori ’ e- sornativi ’, la donna e la Honda.
E’ vero che Pasolini attribuisce questa immagine della donna alla società borghese; ma intanto è il primo a crederci: se l’uomo sogna la Honda (o la Ferrari, o la Porsche), se cerca di uniformarsimarsi ad un certo modello « borghese » e consumistico, è, secondo lui, su istigazione della donna (vedi il settimanale ’Tempo’ del 16 giugno u.s.) Non vede che oggi la donna rifiuta di essere oggetto di consumo, e che questo suo rifiuto è il primo passo verso il rifiuto del consumismo; e lamenta la sorte del maschio italiano dolorosamente sottratto alla civiltà contadina e guadagnato, appunto, alla società dei consumi.
Non stupisce quindi che su ’Tempo’ del 16 giugno u.s., in una recensione del libro di Dacia Marami ’ Donne mie ’, dove per altro non ha il coraggio di firmarsi anche se non rinuncia all’uso reiterato dell’aggettivo ’ e- sornativo ’, Pier Paolo Pasolini si esprima come segue, descrivendo la tanto rimpianta età dell’oro cattolico-contadina come era vissuta in una borgata romana: « Dopo il crepuscolo non c’era più una ragazza per strada. Nelle compagnie dei ragazzi non compariva mai una ragazza. L’educazione dei ragazzi avveniva tutta tra maschi: il ‘ modello ’ da realizzare, per un ragazzo, era un modello popolare culturalmente elaborato da maschi ».
Oggi — lamenta Pasolini — non esistono più « an- drocei e ginecei: il quartiere è pieno di bande ’ miste ’ di ragazzi e ragazze; i giardinetti sono pieni di coppie che si sbaciucchiano… In ogni caseggiato c’è almeno una minorenne che fa l’amore indistintamente con tutti i maschi coetanei ». Dove, come si vede, la semiologia si colora di una sospetta competitività.
In fondo, Pasolini non è altro che lo spettatore- tipo di Carosello. Seduto davanti al televisore, guarda delle immagini stereotipe sorridenti e identiche e, « anomica- mente », aspetta che esse si spieghino: aspetta che, dopo aver riso, sorriso, volteggiato e compiuto una serie di azioni dallo scopo ignoto, ma tutte molto decorative e interscambiabili, si voltino verso l’obiettivo e dicano la parola magica, la « decisione aprioristica »: si tratta di birra tot, di dentifricio tat, di motocicletta tut. Se l’ultima scena di Carosello salta, se il televisore si rompe, se la spiegazione non viene, la scena, il mondo, è incomprensibile, la realtà è irraggiungibile: il giovane dai capélli lunghi reclamizzava uno shampoo, un aperitivo, una cucina a gas, o una bomba?
Su questo televisore così perversamente rottosi nel 1968 Pasolini costruisce la sua teoria sociale e culturale. Perché, per sua stessa esplicita ammissione, la sua incapacità di distinguere ha una precisa data di inizio, il ’68. « Dal 1968 gli italiani sono divenuti indistinguibili » afferma. Cioè, il mondo gli si è trasformato in immagini fisse dietro alle quali non riesce più a vedere. E’ una cosa che si potrebbe anche capire, o addirittura qualche volta condividere, se Pasolini, con la presunzione dello ’ esperto ’ (semiologo e uomo di lettere) non rovesciasse la situazione: pretendendo che tutto sia divenuto uguale ( « parricidi » e accusati a torto di parricidio), va a prostrarsi davanti agli assassini fascisti di Brescia.
Vogliamo lasciarlo, una volta per tutte, « esornativamente » prostrato lì?