una legge a doppio taglio
La legge sulla tutela del lavoro a domicilio, varata in modo definitivo dal Senato il 5 dicembre 1973, viene a modificare profondamente lo stato di tutto quel settore di lavoratori e riguarda un milione e mezzo di lavoranti a domicilio. Ufficialmente, questi lavoratori sono, nella maggioranza, ignoti sul mercato del lavoro. Sono lavoratori — lavoratrici — emarginati dalla progressiva diminuzione dell’occupazione, dallo scoraggiamento della ricerca inutile di un posto di lavoro, dalla età non più giovane che rende difficili le possibilità di impiego. Questo esercito di lavoratori scoraggiati trova spesso sbocco nel lavoro a domicilio, che è una sottoccupazione. Le donne ne rappresentano oltre il 90% degli addetti, qualificando questo lavoro come prettamente e quasi esclusivamente femminile e sono una dimostrazione di come, a fronte della flessione della occupazione femminile che in dieci anni è diminuita di un milione e mezzo di posti-lavoro, la manodopera della donna sia stata progressivamente eliminata dal mercato ufficiale del lavoro, in conseguenza di tutta una serie di mancanze: la carenza dei servizi sociali, la inadeguata preparazione professionale, i trasporti non funzionali.
La richiesta del lavoro a domicilio è la diretta conseguenza della crisi di alcuni settori produttivi e del processo di ristrutturazione della piccola e media impresa che, di fronte al rialzo dei costi, ha cercato una compensazione in una nuova organizzazione del lavoro. E’ stato stabilito che il lavorante a’ domicilio costa all’imprenditore il settanta per cento del costo del lavorante interno e a questo calcolo va aggiunta la diminuzione del rapporto fra investimento e addetti, visto che molti lavoratori a domicilio — numerose soprattutto nella produzione tessile, maglieria, calzetteria, abbigliamento e calzature, che richiede macchinario relativamente semplice — utilizzano generalmente attrezzature, impianti e locali di loro proprietà.
Oltre alle ragioni economiche vi sono anche ragioni strutturali che determinano il fenomeno del lavoro a domicilio. Infatti attraverso le lavoranti a domicilio le piccole e medie aziende ottengono una flessibilità di lavoro che le rende pronte alla varietà della domanda di mercato. Questa possibilità di ampliamento e di contrazione della produzione rappresenta un vero polmone di riserva della piccola e media industria ed ha pesato in maniera cospicua nella soluzione dei problemi economici e tecnici che i mercati e gli eventi proponevano. Tali soluzioni, però, sono state pagate dalle lavoranti a domicilio che, sbandate, isolate, esposte agli egoismi imprenditoriali, sono state occupate o emarginate a solo uso e beneficio dei capi d’azienda.
La nuova legge vuole stabilire una parità, fin dove è possibile, tra il lavoro subordinato e ripetitivo dell’operaia e quello della lavorante a domicilio.
In sintesi in legge dice: E’ lavoratore a domicilio chiunque esegue nel proprio domicilio lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori.
- datori di lavoro che intendono commettere lavoro a domicilio sono obbligati ad iscriversi in apposito « registro » dei committenti » istituito presso l’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione.
- datore di lavoro che faccia eseguire lavoro al di fuori della propria azienda è obbligato a tenere un apposito registro sul quale debbono essere trascritti il nominativo ed il relativo domicilio dei lavoratori esterni, nonché l’indicazione del tipo e della quantità del lavoro da eseguire e la misura della retribuzione.
E’ fatto divieto ai committenti di lavoro a domicilio di valersi dell’opera di mediatori o di intermediari.
Coloro che vogliono svolgere lavoro a domicilio, devono iscriversi nel registro istituito presso ciascuna sezione comunale dell’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione.
Presso ogni Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione è istituita una commissione per il controllo del lavoro a domicilio.
Come opererà la legge di fatto? Vi sarà un primo periodo di disagio da ambe le parti interessate, imprenditori e lavoratori, e timore da parte delle lavoranti a domicilio di perdere il lavoro. Tale timore porterà ad eludere la legge, in molti casi, di comune accordo.
L’area delle lavoranti a domicilio è grande: un milione e mezzo circa, come abbiamo detto, ma non è organizzata né solidale; né basta fare una legge, come si sa, perché questa sia operante. Bisogna che essa sia recepita nella mentalità, come un riconoscimento, da parte, degli imprenditori, di un diritto di parità dei lavoratori e come una presa di coscienza di tali diritti da parte dei lavoratori. Se la legge, ora, sarà applicata, di fatto, per un 20%, sarà già una vittoria. Poi il tempo farà il resto.
Un primo fatto è già avvenuto. A Modena ci si è accordati, per tutta la regione, per un compenso fisso per le lavoratrici a domicilio. Tale compenso, con l’attuazione della legge, sarà raggiunto con gradualità, entro due anni, per favorire gli imprenditori, salvaguardando, però, i contributi, che si cominceranno a pagare subito. E’ un atto di comune volontà. E’ anche una speranza che l’acquisizione di una certa parità salariale e previdenziale tra operaia occupata in fabbrica e fuori della fabbrica porti ad un contenimento del fenomeno del lavoro a domicilio e delle sue forme degenerative e ad una spinta allo sviluppo del lavoro all’interno dell’azienda.
Fin qui ciò che riguarda tecnicamente la legge, la sua struttura, la sua applicazione. Ma il discorso sul lavoro a domicilio va ben oltre. E’ una scelta autonoma questo lavoro? No, non lo è. Tutelato finché si vuole, resterà una sottoccupazione imposta alle donne dalla situazione sociale nella quale vivono.
La regola è sempre la stessa: il ruolo di casalinga-madre aggiunto a quello di lavoratrice che non può uscire dalla casa perché non sa a chi affidare i figli. La famiglia è la sua realizzazione umana e il suo limite allo sviluppo come « persona ». La casa è il luogo dove la sua famiglia vive, ma anche quello coatto dal quale non può uscire. Il lavoro a domicilio, allora, è il massimo dello sfruttamento camuffato da beneficio, l’occasione-necessità che la lega alla casa. Non ne esce più, fa troppo comodo a tutti; alla famiglia e al datore di lavoro.
Il lavoro della lavorante a domicilio, equiparato in parte dalla legge al lavoro dell’operaia della fabbrica, è del tutto differente nella sua realizzazione pratica. L’operaia, con i suoi stabiliti turni di lavoro, esige, e spesso ottiene, gli asili nido e svolge un lavoro alla volta, non tre insieme come la lavorante a domicilio. Inoltre, l’esigenza dei servizi sociali da parte della classe operaia femminile determina una spinta ad una modernizzazione della vita produttiva. La lavorante a domicilio, invece, lavora di più, guadagna di meno, arricchisce gli altri sulla sua sola pelle e non acquista neppure in dignità, perché è una lavoratrice disprezzata che subisce una castrazione subdola.
Il lavoro a domicilio, tutelato o no dalla legge, sembra creato apposta per lasciare la società come è, senza cambiamento sociale, senza servizi, senza interventi e spese dello Stato; una società il cui costo alto è pagato, nel mercato del lavoro, dal cosiddetto « sesso debole », ciascun rappresentante del quale deve, nella vita, faticare quanto tre uomini assieme.
Ciò che la legge del lavoro a domicilio in concreto potrà determinare di positivo è la presa di coscienza delle donne sul loro superlavoro e la loro unione, le farà uscire dall’isolamento e darà loro coscienza di classe.
I grandi mutamenti sociali, infatti, non si determinano con la legge, ma dipendono dalla capacità di coesione e di movimento delle masse ed è in questa prospettiva che noi vediamo il futuro contributo che la legge sul lavoro a domicilio darà al movimento operaio femminista.