aborto: non lo fo per piacer mio
La posizione di effe
L’aborto non è una festa: l’aborto legale, o, meglio ancora, libero e gratuito che vogliamo, ha un senso, ci sembra, perché: a) diventa il primo passo per la rivalutazione della gioia di essere madri, una gioia difficile, in un paese come l’Italia, di donne oberate di figli; b) perché riconosce alla donna, che non l’ha mai avuta, la disponibilità intera e responsabile del proprio corpo, liberandola dal sentimento del peccato — il peccato di avere un corpo — che l’educazione cattolica, sia pure tra morbide complicità, alimenta. Non è,una festa: sappiamo che alcune femministe la pensano diversamente, esigiamo che l’aborto diventi per tutte le donne, senza discriminazione – di classe, non più traumatico, come dolore fisico, della estrazione di un dente: esistono oggi tutti i mezzi tecnici per ottenere questo scopo, e il rapporto, che pubblichiamo qui di seguito, su un intervento di aborto in una clinica di Washington, lo conferma: tuttavia, seguitiamo a pensare che difficilmente una donna, perlomeno una donna matura, una donna adulta, possa decidere di farsi asportare l’embrione con leggerezza, tantomeno con un sorriso di trionfo sulle labbra: non crediamo perciò, in modo assoluto, che la lotta per il diritto di aborto esprima il massimo delle aspirazioni femministe, e che esaurisca gli obiettivi del movimento: anche se questa lotta va fatta e, in un paese arretrato, per costume e legislazione, come l’Italia, va fatta subito e con durezza. Recuperare la gioia di essere madri: chiediamo: quale credibilità può avere il rifiuto del diritto di aborto alle donne italiane, quando la ragazza-madre Lucia Coletta è vissuta due anni in una grotta col suo bambino, e le «istituzioni» lo sapevano, tant’è vero che le passavano 1500 lire (mille
e cinquecento) al mese di sussidio ONMI? Ed ancora: quale credibilità può avere il rifiuto del diritto d’aborto alle donne italiane, quando sì tende a chiudere quei pochi esperimenti proposti a vantaggio della ragazza-madre, come quello della Casa della Madre e del Fanciullo di via Pu-siano, a Milano, con tutti i suoi limiti di selettiva scarsezza di posti disponibili, e di autoritarismo mal celato dal ricorso ad ambigue équipes medico-sociologiche? Disponibilità intera e responsabilità del proprio corpo, da parte della donna: l’uomo ha sempre disposto del proprio corpo, la donna no: la proibizione dell’aborto, infatti, ha questo preciso significato di iniquità, di discriminazione tra i sessi. La donna che interrompe volontariamente una gestazione, ficchiamocelo bene in testa, non è un’assassina: è una donna che ha valutato e distinto i motivi per cui entrerebbe in conflitto con questo figlio non desiderato — al limite anche il riconoscimento dì una propria indisponibilità ad essere madre — e che scegliendo di abortire compie un gesto non casuale ma responsabile. Nell’ottica di questo nostro discorso (difficile) sull’aborto, abbiamo quindi raccolto per il primo numero di Effe alcune testimonianze: il resoconto di un aborto in una clinica- di Washington, la testimonianza in prima persona dì una straordinaria (per maturità ed equilibrio) donna di borgata, una madre di sette figli — una specie dì Madre Coraggio — che paragona la propria esperienza con quella della figlia diciottenne; la cronaca infine delle lotte che sì sono sviluppate nell’estate e ancora al principio dell’autunno intorno alla Casa della Madre e del Fanciullo, a Milano, e le storie e le testimonianze delle ragazze ospiti della Casa.