dalla fabbrica con amore
Lotta, casa, bambini, marito, lavoro: le operaie della Feda, occupando la loro fabbrica, hanno preso di petto la complessa realtà della condizione femminile operaia. Come e andata? E’ stata una ostinata coraggiosa anche allegra fatica: questo il succo delle testimonianze che abbiamo raccolto a Cinisello Balsamo
Della Feda — la fabbrica di Cinisello autogestita da una trentina di operaie — hanno parlato tutti i giornali. Noi non siamo andate a Cinisello per registrare un fatto di cronaca, ma per tentare di capire che cosa ha significato per le donne della Feda questa esperienza, questo diverso modo di lavorare e vivere insieme. L’esperimento ha i suoi limiti concreti, data la situazione della piccola industria tessile italiana: è molto improbabile che l’autogestione serva a far riaprire la fabbrica e a far riassumere le operaie. Ma a noi il caso Feda interessa soprattutto come testimonianza di cosa vuol dire per un gruppo di donne — donne che vivono la difficile condizione operaia — lottare insieme, portando all’interno del mondo del lavoro i problemi connessi alla «condizione femminile». Quello che segue è il diario di un giorno trascorso con le operaie della Feda. Il significato della loro lotta è in ciò che loro stesse hanno detto e, soprattutto, in ciò che ogni giorno fanno. Arrivo alla Feda alle nove di mattina. È un edificio a due piani, grigio, circondato da una cancellata ricoperta da striscioni e manifesti: «No ai licenziamenti», «La Feda lavora senza i padroni».
All’entrata sono appesi i manifesti di Lotta Continua e degli anarchici: il linguaggio è quello noto, ritmato dagli slogans «rivoluzionari». C’è da scommettere che le donne non ne hanno scritto una parola. Infatti i cartelli sui muri del corridoio, quelli firmati Feda, sono semplici, schematici, raccontano in date e cifre la storia della lotta: gli scioperi, le manifestazioni, le varie iniziative prese dalle operaie. Leggo il bilancio delle sottoscrizioni: le entrate totali sono stati di 3.087.330, le spese di 1.766.620, per i salari se ne sono andate 1.248.000 lire, mezzo milione figura sotto la voce «altre spese».
Accanto al bilancio c’è un grande ritratto di Allende ( siamo all’indomani del golpe cileno). Sotto, a grandi lettere, è scritto: «Solidarietà coi lavoratori cileni». Lungo i muri del corridoio, su vetri, sulle porte si susseguono i soliti slogans di tutte le occupazioni («il proletariato vincerà» «No ai padroni»). Dietro a molte scritte si intuisce la mano dei gruppi: è improbabile che le donne della Feda vogliano paragonarsi ai fedayn e ai tupamaros.
Il grande «NO» tracciato sull’orologio dell’entrata, quello però deve essere stato scritto da loro, dalle donne. Me lo conferma la prima operaia che incontro: «Sì, è un lavoro diverso adesso, senza l’occhio della «maestra» che sorveglia. Non è che ne approfittiamo, ma abbiamo potuto cambiare l’orario per avere il tempo di mandare avanti la famiglia e la casa». Da una stanza (ex-ufficio del direttore) escono di corsa un paio di bambini. «In tutto sono una decina — spiega la donna — Siccome non potevamo lasciarli a casa, abbiamo fatto l’asilo in fabbrica». Il pavimento dell’ufficio è cosparso di giocattoli, i bambini saltano sulle brandine, eccitati e felici.
«Per loro è una festa — sorride Concetta, napoletana, 36 anni, quattro figli — non vorrebbero mai tornare a casa».
Il cortile intorno alla fabbrica — uno spiazzo di cemento e asfalto dove crescono penosamente qualche ciuffo d’erba e un salice sbiadito — è stato trasformato in un rudimentale «parco-giochi». C’è un’altalena di fortuna appesa al salice, giocattoli sparsi intorno in un felice disordine, un tavolo su cui i bambini possono disegnare e scrivere. «Il primo problema — spiega Concetta — è stato: come si fa a occupare e nello stesso tempo a mandare avanti casa e famiglia?». Già, come si fa? L’occupazione va bene, la difesa del posto di lavoro è un diritto, che nessun marito, padre o fratello contesta («I mariti e i padri — commenta un’operaia — qualche volta si lamentano perché stiamo fuori, ma poi si ravvedono, sanno che bisogna lot-
tare per il lavoro») ma dalla donna operaia si pretende che, miracolosamente, mandi avanti tutto; lotta, casa, famiglia, bambini. Per «star dietro a tutto» le donne della Feda si alzano verso le cinque, massimo sei, portano i bambini in fabbrica, all’improvvisato «asilo interno», lavorano dalle 9 alle 11,30, si precipitano a casa a preparare da mangiare, tornano alle due, continuano a lavorare fino alle cinque e poi di nuovo a casa: pulizie, bambini, i panni da lavare, da stirare. A che ora vanno a letto? La risposta è sempre la stessa: «Quando si finisce». Poi c’è il problema dell’occupazione notturna. Naturalmente vengono stabiliti dei turni (ogni notte restano sette o otto donne) ma anche qui ci sono difficoltà non contemplate dai canoni soliti delle occupazioni «normali». Sul restare in fabbrica di notte, padri e mariti hanno mostrato qualche perplessità. «Mio marito — racconta una donna — non voleva che restassi la notte, perché per una donna è sconveniente». «Ma poi quasi tutti hanno capito che si doveva fare — aggiunge un’altra — e ci hanno aiutato».
«Mio padre — racconta Isabella, 24 anni, riflessiva, pacata — vuole che io torni, la notte. Invece io voglio restare; perché se succede qualcosa voglio essere presente. La prima notte che abbiamo occupato sono venuti i poliziotti, era la prima volta che vedevo una cosa del genere e ho avuto paura, ma poi, non so come spiegarmi, era bello perché si era tutte insieme». Isabella fa una pausa, cerca le parole.
Un lavoro a dimensione donna? L’interno della fabbrica di Cini-sello durante l’occupazione. Le operaie con i figli. «Per loro è una festa, non vorrebbero mai tornare a casa». Per la prima volta infatti i bambini potevano entrare nel luogo di lavoro della madre.
«Lei vuole dire — interloquisce un ragazzo, membro di un gruppo che dall’inizio dell’occupazione si è insediato alla Feda — che si è determinata l’acquisizione di una coscienza politica che prefigura un nuovo tipo di organizzazione del lavoro…». Si lancia in un soliloquio da manuale. Isabella, perplessa, rimane zitta, con le sue parole non dette. Le chiedo di farmi visitare la fabbrica. Mentre saliamo le scale, mi dice: «Quel che volevo dire è che per noi l’autogestione dovrebbe servire a far tornare i padroni, ad assicurarci un posto di lavoro. Però questa lotta non è solo per noi, ma per garantire l’occupazione anche per gli altri a Cinisello, nelle altre fabbriche». Entriamo in uno stanzone dove una ventina di donne lavorano, sedute alle macchine da cucire. Parla Giulia, siciliana, 23 anni, da tre in fabbrica: «Io mi trovo bene qui. Certo è una vita piena di sacrifici, perché si lavora il doppio, in fabbrica e a casa. Certe volte mi dico che appena mi sposo sto a casa, ma poi penso che con il lavoro sono indipendente».
Maria, sposata con un bambino di due anni, annuisce: «Certo che anch’io preferirei stare a casa, perché qui, tra casa, lavoro e bambini non si finisce mai. Però se sapessi che posso mettere il bambino in un posto dove è ben curato, che a casa sono aiutata, vorrei lavorare perché lavorare fuori è la prima cosa per l’indipendenza». Le altre sono d’accordo. Nunziata, una calabrese di cinquant’anni, da vent’anni al nord, fa il punto della situazione con un intervento pieno di lucidità: «Certo — replica — che tante donne preferirebbero stare a casa, se il marito potesse mantenerle. Lavorare così è pesante per tutte, è un lavoro doppio. Ma se si avesse chi ci aiuta, se ci fossero i posti per i bambini e così via, se il lavoro fosse diverso, come è adesso qui, che si decide da sole, senza l’occhio della maestra incollato addosso, tutte vorrebbero continuare, perché come dice Maria è la prima cosa per essere libere. Sarebbe ora che gli uomini cominciassero ad aiutare in casa, non devono avere paura di perdere il prestigio di maschio, perché i lavori di casa non sono ridicoli. Io dico: se due persone sono compagni della vita, perché non devono dividere tutto? Perché il lavoro che fa la donna deve essere considerato meno importante di quello che fa l’uomo? Per me è importante che la donna lavori fuori. Mio marito, per esempio non voleva, diceva che le donne che lavorano sono tutte puttane e mi ha costretto a stare a casa. Io rimpiangevo il lavoro. Lui mi diceva: ‘Ti tengo a casa a fare la signora, cosa vuoi di più, guarda che vitaccia fai se lavori!’. Ma stare a casa è vegetare, non è vivere. Preferisco tribolare ma lavorare fuori, stare a contatto con gli altri. Per esempio lottando per il mio lavoro ho capito che quel che faccio qui è politica, che può servire anche gli altri. Tutto è legato: quel che succede qui e quel che succede fuori». un fischietto dà il segnale delle undici e mezzo: le donne si precipitano fuori, vanno a casa a preparare da mangiare alle famiglie. Un gruppetto resta, hanno organizzato una mensa nel seminterrato. Concetta fa gli spaghetti per tutti, 1 bambini entrano ed escono correndo. A tavola si parla di tutto: dei telegrammi di solidarietà, dei due milioni promessi dal comune, delle posizioni dei sindacati. Soprattutto si parla del lavoro, di come è diverso da prima, come è bello decidere da sole, lavorare senza l’«occhio della maestra addosso».
C’è un’atmosfera rilassata, serena. Dal cortile arrivano le voci dei bambini che giocano.
Dopo la pausa del pranzo ricomincia l’andirivieni dei fotografi, dei curiosi in visita, dei sindacalisti, degli extra-parlamentari. C’è assemblea, mi annunciano: tutte si riuniscono in sala mensa, ci si siede in cerchio, I bambini fanno qualche tentativo d’incursione, corrono da un fotografo all’altro cercando di acchiappare le macchine fotografiche. Il leader della situazione è un giovane sindacalista della Cisl: è lui che parla, imposta i problemi all’ordine del giorno, avanza le proposte. Le donne si limitano ad intervenire ogni tanto, con qualche commento marginale. Rientra nei ruoli cosiddetti << naturali» che in pubblico le donne facciano parlare gli altri (cioè gli uomini). Così come rientra nell’ordine «naturale» delle cose che abbiano due lavori: in fabbrica e a casa. Non è certo colpa del sindacalista o del marito di Concetta se la situazione è quella che è. La società in cui viviamo condiziona pesantemente sia gli uomini che le donne, né l’uomo né la donna sono liberi di scegliere il proprio modo di essere uomo e donna. I condizionamenti, tuttavia, pesano in misura maggiore sulle donne, soprattutto quelle meno privilegiate, come appunto le operaie della Feda. Scoprire che non si tratta dell’ordine naturale delle cose, ma del prodotto di un certo tipo di società non è un processo che avviene per virtù propria: occorrono delle occasioni concrete.
Per le donne della Feda l’autogestione è stata proprio l’occasione di scoprire che le cose possono essere diverse, che può esistere un modo più giusto, più umano di lavorare insieme, di stare con gli altri (e quindi di essere se stesse). Per molte di loro si tratta solo di un’intuizione confusa, dall’inizio di una presa di coscienza che forse la delusione del fallimento dell’autogestione soffocherà sul nascere. Ma il senso di dignità nuova, di .solidarietà e di rispetto reciproco, la gioia di costruire insieme, di prendere in prima persona le decisioni che riguardano la propria vita che sono il frutto più significativo di questa esperienza, non potranno essere cancellati facilmente. Me lo conferma una frase di Isabella, che mi accompagna all’uscita e si ferma un attimo sulla porta, con un sorriso metà timido e metà fiero: «Il fatto è che prima ci si salutava appena, buongiorno e buonasera, adesso ci conosciamo: è diverso».