la moda di moda
La moda è un’industria e non un destino come ce la presentano stilisti e giornali femminili.
Ogni abito è un segno che sarebbe meglio scegliere da sole.
Da Annabella, Novembre 1978, «le nostre firme più famose hanno cambiato idea su di noi. Non più soldatini ma fascinose lady anni ’40-’50… bisognerà pensarci per tempo perché riportano in auge formule impegnative: la donna-donna, il tocco osé, la femminilità, l’eleganza, il sexy, Una silhouette impeccabile senza “sbandamenti”, gambe tutte da vedere da gonne spaccatissime al limite dello spaccabile, in bilico su tacchi da vertigine. Il rilancio di uno chic classico, misurato, mitigato o meglio stravolto da scollature abissali, trasparenze che non lasciano dubbi, da fessure che aprono tutte le gonne». Da Paese Sera, Dicembre 1978, il giornalista Valentini ci spiega e tranquillizza «anche se le femministe radicali e militanti possono interpretarla come una sconfitta o una provocazione la nuova moda del ’79 a base di spacchi e trasparenze sancisce una definitiva emancipazione: attraverso la riappropriazione del corpo, l’indipendenza personale e la conquista di una più libera identità».
Proviamo allora noi donne ad interpretare da sole, senza traduzione di grilli parlanti, il significato degli effetti della Moda, vista qui come forza inevitabile, come effetto necessario: «questa estate i vestiti saranno aderenti»; quindi l’aderenza è quello che deve succedere agli abiti, per causalità naturale e per prescrizione legale. Sembra un puro e semplice fatto; si tace delle decisioni delle singole persone che fanno la Moda: questo silenzio trasforma l’aderenza di un abito in evento surreale, fatale. La cronaca giornalistica, ponendo la moda come fatalità inevitabile, le lascia l’ambivalenza di una forza senza origine ma con volontà date come naturali e quindi superflue da spiegare. Oppure, per allontanare l’intervento degli dei creatori, ne cerca la causa nelle richieste non del produttore ma della consumatrice che vede espressi i suoi bisogni inconsci, da lei stessa ignorati. L’abito, il prodotto di moda diventa un universo autarchico dove i pantaloni vanno da soli sotto gli abiti e le scarpe a trampolo “che danno un’andatura da starlet molto felina” vanno da sole a calzare gambe inguainate nello stesso colore dell’abito. Tutta la retorica giornalistica di Moda fa innocenti i suoi decreti passati come norma ancestrale di un regno della natura, non più sotto la legge degli uomini ma sotto la legge delle cose. Le imposizioni di pochi cosiddetti creatori che spostano i loro bisogni nevrotici sulla donna, passano distanziati sotto le apparenze di uno spettacolo, oppure convertite in pure constatazioni quasi fossero esterne alla loro volontà. La stampa d’opinione, il giornale femminile creano la moda nel momento stesso che l’annunciano, che la prescrivono. Producono la moda per poi vedervi solo un fenomeno, senza parlare della causa: lasciano sviluppare questo fenomeno come se dovesse la vita solo a se stesso. Nel momento in cui il valore di Moda incontra l’abito da sera “con travolgente scollatura a sottoveste di linea scivolata ma sinuosa” lo scollo, l’aderenza, diventano la moda dell’anno che rigidamente rifiuta la moda che l’ha preceduta cioè il proprio passato. Chiama senza scrupoli abiti tristi e severi quelli che ieri erano suggestivi di una femminilità segreta. Quest’anno i costumi, dice, saranno “fasciatissimi e drappeggiati”: l’anno scorso erano quindi sbracati e sguarniti? Ogni nuova moda è un rifiuto di ereditare, un sovvertimento contro l’oppressione della vecchia moda; la Moda vede se stessa come un diritto naturale del presente sul passato; vive in un mondo che essa vuole e vede stabile. Nel momento stesso in cui crea un sistema molto rigido di segni-alla-moda del tutto arbitrari, la Moda si adopera a porli come ragioni pure senza giustificarli «l’importante è che gli abiti siano di colori spericolatamente vistosi, i pantaloni assolutamente aderenti, gli accessori violentemente in contrasto… una moda per ridere che si fa beffe di stereotipi e luoghi comuni». Più la moda è irreale e più le sue funzioni false sono imperative, per darle almeno’ il prestigio dell’utilizzabile, Un alibi funzionale per neutralizzare il suo forte senso di colpa di sentirsi futile «giacconi pratici, caldi, adatti per i viaggi e la vita dinamica… sono estremamente robusti… per passare l’inverno a riparo dei rigori e delle intemperie». Il linguaggio stesso della retorica giornalistica espressa per di più da giornaliste donne, è un linguaggio assolutamente vecchio nella cultura di massa attuale: non conosce il dramma, la catastrofe, in nessun modo il male. C’è una legge di euforia che fa vivere la donna di cui si parla nel migliore dei mondi possibili: è il linguaggio di una madre che recinta la figlia giovinetta dai mali del mondo estraneo. La giornalista di moda, esempio unico fra 1 produttori di mass-media, crea una situazione da romanzo rudimentale, senza tempo, continuamente euforico, molto ebete. Quando parla di «arancio Van Gogh, azzurro che avrebbe incantato Renoir, rosso del periodo fauve di Picasso», piuttosto che dire cultura è l’idea di cultura che vuole mostrare: una cultura di qualche nozione, da brava scolara adulta sempre aggiornata. Quanto poi al succedersi apparentemente inspiegabile di fogge, larghezze, lunghezze, ecc., è ancora l’intervento della letteratura di Moda che fa sprofondare 11 consumatore in un disordine caotico quando gli presenta l’ attuale sotto l’aspetto di nuovo assoluto, fidando sulla relatività della memoria umana. La Moda fa parte certo delle forme di neomania apparse con il capitalismo: il nuovo, è ormai legge, come valore che si compra. Ma il nuovo di Moda ha una speciale funzione sociale molto evidenziata e dipendente dalla sua ambiguità: è contemporaneamente imprevisto e sistematico (dopo lo stretto il largo, ecc.), regolare e dovuto al caso; assomma in un ritmo straordinario il comprensibile, necessario all’uomo per vivere, ed il caso, che partecipa del mito della vita — l’avventura senza rischio —. Però piuttosto che viversi il suo pezzo teatrale da lei costruito, con i costumi da lei scelti, come prima attrice insieme alle altre prime attrici, tutte mascherate secondo voglia, tristezza, paura o gioia del momento, la donna si fa comparsa rivestita e mossa dalla regia del gran maestro (lo stilista, il creatore, quasi sempre maschio).
Nella moda la donna interviene sempre come obiettivo non come soggetto, usata sia perché spende denaro, sia perché rassicuri la paura maschile di -castrazione sociale e sessuale. E’ un uomo neanche molto avvertito nella analisi’ di costume (il giornalista Valentini di Paese Sera) che dice: «La conferma più evidente che la crisi del femminismo è semmai di crescita e di maturità, è fornita dal fatto che a questo fenomeno di riflusso si accompagna contemporaneamente un recupero della femminilità». Se invece analizziamo in modo meno superficiale e immediato il senso della moda attuale (sexi, femminilissima, osè, scollata anni ’40-’50 ecc.) vediamo uscirne fuori una donna .molto femmina, molto poco persona femminile. Il corpo è costretto dall’impaccio rigido dell’abito, che diventa sempre più aderente, il movimento è rallentato da tacchi altissimi che però danno un’andatura provocante, adescatrice, molto consolatoria per il maschio, ancora il gallo per cui le galline, ritornate nel pollaio dopo una vacanza femminista, si agghindano e fanno rollare il sedere. La paura della liberazione dei desideri e dei corpi, ricercata, gridata dal femminismo, ha prodotto la fuga all’indietro al periodo tranquillizzante della donna-donna del ’50; ha risuscitato la panoplia classica della seduttrice nel sogno maschile ormai non più proibito (il femminismo ha reso sessualmente disponibile la donna: è servito a qualcosa!). Il ritorno dentro i ranghi dei ruoli maschile-femminile è parallelo sia dal punto di vista politico che estetico: per l’uomo il riflusso verso posizioni conformistiche e moderate, di ruolizzato in un ambito produttivo, ha significato che l’interesse per il lavoro ha sostituito l’interesse per l’ostentazione. Quindi l’esibizionismo si è modificato in scopofilia, trasformando il desiderio di essere visto in desiderio di vedere: l’uomo ritorna dentro abiti sobri, seri, da uomo non da fricchettone colorato verso cui non c’è più invidia. Inoltre l’uomo si censura il desiderio di esibizione spostandolo sulla donna. E’ orgoglioso di farsi guardare attraverso la femmina che ha accanto: e in questo rivela suo malgrado, il desiderio di identificazione con la compagna,
La donna si allinea in questo momentaneo richiamo all’ordine, ritornando nella pelle di bomba del sesso voluttuosa e tentatrice oppure di lady chic tipo fuoco-sotto-la-cenere — sempre per gratificare l’uomo ritornato nel grigiore del conformismo quotidiano —; lui forse ha perso in sussulti ribellistici e giovanilisti ma ha guadagnato uno stuolo di femmine che sembrano vivere per farsi guardare e scegliere.
Al contrario, nel momento caldo della rivendicazione femminista, il corpo era mostrato da strati non costrittivi di tessuto che appoggiavano sul corpo rivelandolo, non modificandolo nelle dimensioni: la donna riprovava il piacere dell’erotismo cutaneo e muscolare. Poi la sensualità diffusa di tutto il corpo femminile, di cui sembrava che le donne stessero avendo coscienza è stata repressa in una sovrastruttura a corazza che le allarga le spalle imbottendole e le dà un’aria minacciosa, ingombrante, incombente, La minaccia che la donna rappresenta (la temibile fica dentata) è espressa nel segnale estetico dell’abito. Per ultimo il pericolo è esorcizzato: è stato un incubo; la donna dolce, docile o aggressiva-sexy, bella fica è sempre lì. L’abito lo segnala. E’ ancora, come sempre, una moda fatta sulle donne, al di fuori delle donne e soprattutto non da donne. Qui lo stilista omosessuale “il creatore intuitivo in un rigoglio incontenibile quindi vitale di forme nuove”, sembra partecipare ai bisogni rassicurativi del maschio etero: la difesa verso la donna, nemico comune, anche se diversamente pericoloso. Per l’omosessuale stilista questa moda gratifica particolarmente i suoi desideri esibizionistici spostati sulla donna rivestita secondo lo stereotipo di donna-donna: la può contemporaneamente odiare ed identificarsi in lei.
Quindi, data questa realtà con cui facciamo in ogni modo i conti, un tipo di intervento della donna credo sia quello di smontare attraverso un’analisi a più livelli il meccanismo cosiddetto creativo, e quello estetico-psicologico che c’è dietro il prodotto di moda. E’ importante ancora conoscerci nei nostri desideri narcisistici, esibizionistici, di autostima, di decorazione, per non farli strumentalizzare troppo tranquillamente da un Armani («odio le femministe ma riconosco che sono state utili, hanno svegliato la donna, ora posso vestirla con più fantasia» ) o da un Versace («non desidero fare la donna elegante ma che appaia intelligente»). E’ ridicolmente fuori tempo, per noi leggere ancora «Dedicato ad una donna. Da almeno tre grandi uomini. Un modello da donna nasce sempre da questi fondamentali presupposti: deve essere un prodotto elegante, anzi eleganitssimo. Deve fare molto moda; deve far sentire accanto la discreta presenza di un uomo… Alla voce uomo c’è da rivelare che sono addirittura tre: un designer, uno stilista, un ingegnere che lavorano in équipe per dedicare alle donne questo gioiello… Dedicato ad una donna. Una donna a cui certe cose si dicono con il fuoco», Sarà più attuale leggere «Dedicato ad una donna. Da almeno tre donne (senza grandi)».