lo scandalo dell’amore

Nel vivo della rivoluzione d’ottobre Anna Achmatova scrive le sue più belle poesie d’amore ed entra a far parte della cultura popolare. Perciò la Kollontaj…

marzo 1979

«Padre mio, amica mia, mio brusco aiuto»: così Osip Mandelstam, in un sonetto del 1931, pregava Anna Achmatova di serbare le parole che le dedicava «per il gusto di fumo e di disgrazia», perché parole di un «fratello non riconosciuto, ripudiato dalla famiglia del popolo». Del grande lirico Mandelstam l’Achmatova era stata amica e compagna di lavoro, di ricerca poetica, fin dal lontano 1910, quando giovanissima si stabilì a Pietroburgo per frequentare i “Corsi superiori femminili” della capitale, quei corsi di studio ancora separati, faticosa conquista della generazione di donne russe che l’aveva preceduta. A Pietroburgo Anna incontra anche il Poeta Nikolaj Gumilev, a cui probabilmente è dedicata una lirica autoironica e disincantata (Tante cose chiede l’amata) e, insieme a questi due uomini e ad altri, partecipa della fondazione del movimento poetico detto “acmeista”. Per quel che valgono i manifesti programmatici di un movimento poetico l’acmeismo si proponeva di contrapporsi all’estenuata astrattezza del simbolismo, cercava “un più equilibrato rapporto fra soggetto e oggetto”, “un più intenso peso dato all’esperienza vitale”. Per dirla con Mandelstam: «il poeta non vuole altro paradiso fuori dal vivere. Noi non vogliamo, ci limitiamo a salire su quelle torri che possiamo costruire noi stessi». Ma dell’Achmatova i critici tendono a sottolineare una specificità, un suo essere donna anche nel linguaggio poetico, una sua maniera “stanca, morbosa, femminile e profonda immersa in se stessa” — scriverà nel 1921 Aleksandr Blok — che la fa essere infinitamente lontana da quel fiorire di forze fisiche e spirituali proclamato e parlato, a volte in modo anche un po’ manierista, dal resto del movimento acmeista.

Già, perché l’Achmatova di Sera, di Rosario, di Stormo bianco e di Piantaggine fu soprattutto poetessa d’amore, di solitudini narcistiche, di attese, di attenzioni tenui e quasi ottocentesche al proprio corpo di donna, ai segni, agli oggetti che lo travestono e lo rivestono, simboli tangibili di fragilità. C’è molto parlar di guanti, di manicotti, di veli nelle poesie della giovane Achmatova, con non poco scandalo della critica militante del tempo. E, se le date hanno un senso, motivo di “scandalo” ce n’era non poco. La “fragile dama borghese”, come sprezzantemente veniva chiamata, non appende la sua lira amorosa alle fronde dei salici per voto nemmeno in anni tesissimi: le sue più belle liriche d’ amore le scrive dal 1912 al 1921. In più, a rinforzar lo scandalo, va aggiunto che Anna non fu mai poetessa d’elite, i suoi libretti bianchi, nella Russia del tempo, non si trovavano solo nei boudoir aristocratici, ma giravano di mano in mano nelle scuole, i liceali copiavano dal loro stile le dichiarazioni d’amore e i giovani del Komsomol li tenevano nella propria bibliotechina, insieme a Lenin e a Cernicevskij. Insomma Anna Achmatova faceva parte della cultura popolare (di massa, si direbbe oggi), malgrado proclamasse la propria estraneità alle cose: «In questa mia esistenza vidi poco: ho cantato ed atteso» — scrive già nel 1914. Tant’è che nei primi anni venti Anna Achmatova — l’antipolitica per eccellenza — è oggetto di un dibàttito politico, fra Alessandra Kollontaj e Arbatov sulla Molodaja gverdija, il giornale della gioventù comunista. Ed è un dibattito di non poco interesse. Alessandra Kollontaj, interessata a mantenere vivo il problema di una specificità femminile nel dibattito politico del tempo, la difende piegandola ad uno stereotipa a lei caro, quello di “una donna di nuovo tipo che, attraverso il suo lavoro, si apre la strada della vita”, una donna insomma che canta ancora il “mistero dell’amore” perché sta in una linea di demarcazione, vittima di una schiavitù delle emozioni che solo la nuova società può vivere. E’ curioso come, inframezzate al saggio della Kollontaj, le liriche della Achmatova acquistano un tono un po’ sciatto, cronachistico, rivendicativo, quasi il linguaggio della poetessa venga piegato all’assunto dell’articolista. Si tratta di impressioni di lettrice italiana, digiuna di russo, e valgono quello che valgono, ma quei frammenti sono infinitamente diversi nella splendida traduzione di Raissa Naldi (Anna Achmatova, Nuova Accademia, 1962) dai toni raccolti quasi mistici. A volte, poi, il tradimento che la Kollontaj fa del testo è del tutto palese. Riporta il primo verso di una lirica che è quasi un manifesto: «A te sottomessa? Sei impazzito!», Ma la poesia continua: «Sottomessa io sono alla sola volontà di Dio / Io non voglio né palpito né sofferenza / il marito è per me un carnefice, e la sua casa una prigione / Ma vedi sono tuttavia venuta io stessa; / dicembre è nato, i venti urlano nei campi, / ed era così sereno in tua prigionia / e dietro la finestrella faceva guardia la tenebra». Così, scelta la perigliosa via del contenutismo, il contraddittore di Alessandra Kollontaj, Arbatov, ha buon gioco nel sostenere quanto pericolosa sia per la gioventù comunista la tenue dama dal “gusto malato”. Conta le parole (questo sì che è materialismo) e trova, nella raccolta Rosario, sette volte malinconia e venticinque volte morte e derivati, più volte voile, guanti, tacco, pelliccia e giacchetta, e poi marocchino, broccato e specchio e, come se non bastasse, icona, angelo e Cristo. Arbatov è uomo d’onore. E’ tutto vero. Io non faccio di mestiere la critica letteraria e non so spiegarvi con un discorso specialistico, paludato, perché Anna Achmatova mi piace, mi dice molto. Né voglio cadere nel trabocchetto di Alessandra Kollontaj e tentare di dirvi che serve >a noi, che parla di noi: forse è proprio una dama russa, mistica ed estenuata, lontana, molto lontana. Ma c’è un saggio, sul numero di recente uscito di Quaderni piacentini intitolato “Il Poeta e la figlia del macellaio”, in cui Cesare Ca-ses difende il diritto ad una lettura libera, non specialistica, in qualche modo anarchica, dei testi poetici. Lo difende dalle pretese dei “logotecnocrati” e non dei neozdanovisti, ma non è questo che ci interessa in questa sede. E allora liberamente e aspecialisticamente dico che c’è un modo in cui Anna Achmatova canta l’amore per l’uomo che non è né intimista e corrotto come vorrebbe Zdanov (“metà suora, metà puttana” — disse di lei e nel 1946 fece bandire i suoi scritti “formalisti e cosmopoliti”), né rivendicativo come vorrebbe la Kollontaj. E’ sempre un parlare dello scacco, dell’incontro mancato, del distacco, perché “c’è un confine nell’intesa umana / e non lo varca né ardore né passione / … Neppure l’amicizia può varcarlo / né anni d’alta e fiammeggiante gioia / …Chi vuole raggiungerlo è folle / … Ora sai perché non senti il mio cuore / battere sotto la tua mano”. E anche quel famigerato specchio, che tanto turbò solari coscienze, non rimanda gli orpelli, i fiori e i manicotti, ma la solitudine di un incontro mancato, non per caso o per sfortuna, ma perché l’amore per l’Achmatova è sempre incontro mancato. Quando il fantasma prende corpo (Dì sera) è inevitabilmente volgare, non banalmente alla maniera della Kollontai perché l’ uomo non capisce e non rispetta la donna, ma perché l’altro è “sempre” volgare rispetto al nostro fantasma d’ amore.

Per dar pace agli storicisti va detto che anche l’Achmatova incontra la storia, ma non nell’epopea, bensì nella tragedia. Alla fine degli anni trenta scriverà un poema, Requiem, per il figlio prigioniero nel gulag. Le donne russe non le incontrerà in lotta per l’emancipazione, ma come madri dolenti davanti agli spioncini delle prigioni: di loro “ho appreso come si infossino i volti” — dirà.

 

Bibliografia

(Anna Achmatova, Poesie, traduzione di Raissa Naldi, Nuova Accademia 1962.

Anna Achmatova, Poema senza eroe e altre poesie, traduzione di Carlo Riccio, Einaudi 1963.

Per il dibattito politico vedi i saggi su A. Achmatova in: Claudio Fracassi, Alessandra Kollontaj e la’ rivoluzione sessuale, Editori Riuniti 1977.

 

di sera

La musica suonava nel giardino

con trattenuto dolore;

fresco ed acuto odor di mare

avevano sul .piatto le ostriche ghiacciate.

Egli mi disse: «Sono un buon amico!»

e sfiorò la mia veste:

ma non somiglia in nulla a una carezza

il tocco delle sue mani.

Così si liscia un gatto od un uccello,

così si guardano le snelle cavallerizze:

non c’è che.riso negli occhi tranquilli

sotto l’oro lieve delle ciglia.

Ma le voci afflitte dei violini

cantano dietro il velario di fumo:

«Benedici finalmente i Cieli:

sei per la prima volta sola con l’amato».

(Da Rosario, 1914)

 

nello specchio

Al collo un filo di grani minuti;

celo le mani nell’ampio manicotto.

Distratti guardano gli occhi

e non sanno più il pianto.

Il volto impallidito

dal lilla della seta;

arriva quasi fino ai sopraccigli

la mia frangetta trascurata.

E più non è simile al volo

questo lento passo, quasi avessi

sotto i piedi una zattera

anzi che il legno a quadretti.

La pallida bocca è socchiusa,

irregolare, affannoso il respiro.

Sul petto tremano i fiori

dell’incontro mancato.

(Da Rosario, 1914)

 

epilogo

I.

Ho appreso come s’infossino i volti,

Come di sotto alle palpebre s’affacci la paura,

Come dure pagine di scrittura cuneiforme

Il dolore tracci sulle guance,

Come i riccioli da cinerei e neri

D’un tratto si facciano d’argento,

Il sorriso appassisca sulle labbra rassegnate,.

E in un ghigno arido tremi lo spavento.

E non per me sola prego,

Ma per tutti coloro che erano con me, laggiù,

Nel freddo spietato, nell’afa di luglio,

Sotto la rossa muraglia abbacinata.

II.

S’è di nuovo avvicinata l’ora del suffragio.

Vi vedo, vi ascolto, vi sento:

E colei che fu a stento condotta allo spioncino,

E colei che non calpesta il suolo natale,

E colei che, scrollando la bella testa,

Disse: «Qui vengo, come a casa».

Avrei voluto chiamare tutte per nome,

Ma hanno portato via l’elenco, e non so come fare.

Per loro ho intessuto un’ampia coltre

Di povere parole, che ho inteso da loro.

Di loro mi rammento sempre e in ogni dove,

Di loro neppure in una nuova disgrazia mi scorderò,

E se mi chiuderanno la bocca tormentata

Con cui grida un popolo di cento milioni,

Che esse mi commemorino allo stesso modo

Alla vigilia del mio giorno di suffragio.

E se un giorno in questo paese

Pensassero di erigermi un monumento,

Acconsento ad esser celebrata,

Ma solo a condizione di non porlo

Né accanto al mare dov’io nacqui:

Col mare l’ultimo legame è reciso,

Né nel giardino dello zar presso il desiato ceppo,

Dove l’ombra sconsolata mi cerca

Ma qui, dove stetti per trecento ore

E dove non mi aprirono il chiavistello.

Perché anche nella beata morte temo

Di dimenticare lo strepito delle nere “marusi”,

Di dimenticare come sbatteva l’odiosa porta

E una vecchia ululava da bestia ferita.

E che dalle immobili palpebre di bronzo

Come lagrime fluisca la neve disciolta

E il colombo del carcere che tubi di lontano,

E placide per la Neva vadano le navi,

(Da Requiem, 1940)