mille e un modo per evadere la legge
In nessuno dei Paesi delle Comunità Europee è stato realizzato pienamente il principio della parità delle retribuzioni sancito dal trattato CEE e da una Direttiva del Consiglio.
nonostante le molte delusioni che le speranze di riformare la società esistente hanno portato, negli ultimi anni, al movimento femminista, si credeva che almeno sul piano della parità di retribuzione si fossero raggiunti alcuni risultati non più reversibili. Invece la recente pubblicazione della relazione della Commissione delle Comunità Europee sullo stato di applicazione al 12 febbraio 1978 del principio di parità tra retribuzioni maschili e femminili ci ha chiarito le idee, La conclusione della relazione è che il principio della parità delle retribuzioni, che avrebbe dovuto essere sancito in base all’art. 119 del Trattato CEE e alla Direttiva del Consiglio del 10 febbraio 1975, non è stato realizzato pienamente in nessuno dei Paesi comunitari.
Per quel che riguarda l’Italia, il quadro non è a prima vista dei peggiori, Secondo dati che si riferiscono all’ottobre del 1976, lo scarto percentuale tra i guadagni medi orari lordi degli operai dell’industria (uomini e donne) era infatti del 19,9 per cento (1791 lire per gli uomini e 1434 lire per le donne), inferiore a quelli degli altri Paesi della Comunità. Ma questi dati sono calcolati tenendo conto solo dell’occupazione manifesta, mentre è ormai ben noto che in Italia più di 2 milioni di donne sono occupate nel mercato del lavoro clandestino, con salari nettamente inferiori a quelli dell’occupazione manifesta. E se è vero che il numero degli uomini che svolgono attività lavorativa “irregolare” è ancora maggiore, va tenuto presente che il lavoro “nero” è spesso — per gli uomini — un secondo lavoro. Per la forza lavoro femminile, invece, quello “nero” è l’unica occupazione remunerata (dato che il lavoro domestico è ancora del tutto gratuito). Anche se su un piano generale non esistono più negli Stati membri disposizioni legislative regolamentari ed amministrative che comportino discriminazioni salariali, esistono tuttavia forme di discriminazione indirette o nascoste. Queste si riscontrano nei sistemi di classificazione professionale e nelle loro modalità di applicazione da parte delle imprese. In questo modo, una sotto-classificazione delle donne all’interno di talune categorie professionali talvolta conduce alla formazione di fatto di categorie professionali praticamente riservate alle donne. Alcuni statuti di funzionari dello Stato o dei settori parastatali prevedono ancora diversi vantaggi in denaro o in natura (indennità di famiglia, alloggio, titoli di trasporto), legati alla nozione di “capofamiglia” intesa sempre al maschile. Le condizioni di attribuzione di questi ‘vantaggi dovrebbero quindi essere rivedute in funzione del concetto più moderno di “responsabilità del genitore”.
Inoltre, gli uomini che di notte effettuano lo stesso lavoro svolto di giorno dalle donne percepiscono talvolta salari di base più elevati, mentre i salari di base dovrebbero essere identici, dal momento che la “gravosità” del lavoro notturno è compensata da maggiorazioni salariali specifiche. Analogamente, ad alcuni uomini viene attribuito un salario più elevato con il pretesto che il datore di lavoro potrebbe affidare loro mansioni “più pesanti”, cosa che in realtà questi non fa. La Commissione auspica che in tutti gli Stati membri siano istituiti comitati o commissioni incaricati di promuovere l’occupazione femminile e l’uguaglianza tra lavoratori e lavoratrici per quanto riguarda la possibilità di lavoro e la retribuzione. Gli organismi di questo tipo che già esistono in alcuni Paesi dovrebbero essere dotati di poteri e mezzi più ampi. La Commissione ritiene tuttavia che progressi decisivi potranno essere realizzati soltanto se le donne stesse — la cui rassegnazione e scoraggiamento in proposito sono del tutto comprensibili — si assumeranno le proprie responsabilità, in particolare con l’aiuto delle organizzazioni sindacali e dei comitati nazionali.
Attualmente, chiunque si ritenga leso dalla mancata applicazione del principio della parità delle retribuzioni può far valere i propri diritti dinnanzi alle autorità giudiziarie competenti- sia direttamente in base all’art. 119 del trattato CEE, nella sfera di applicabilità diretta riconosciuta dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sia in base alle disposizioni legislative e regolamentari nazionali, derivanti dalla trasposizione della Direttiva del 10 febbraio 1975.
Questa direttiva si proponeva in particolare di facilitare alle donne l’accesso alle azioni giudiziarie prevedendo un’informazione soddisfacente delle lavoratrici sui loro diritti ed assicurando la loro tutela contro il rischio del licenziamento che poteva derivare dalla presentazione di un reclamo presso la direzione dell’impresa, o da un’azione giudiziaria. La Commissione constata che non vi sono ricorsi nel Lussemburgo e in Danimarca, che essi sono quasi inesistenti in Belgio, Francia, Italia e Paesi Bassi, poco numerosi in Irlanda e di numero consistente soltanto nel Regno Unito, dove negli anni 1976-1977, circa 2.500 casi individuali sono stati portati dinnanzi ai Tribunali del Lavoro. Meno della metà sono andati in udienza, mentre gli altri sono stati composti in via amichevole o per conciliazione. Per dare una spiegazione all’esiguo numero dei ricorsi occorre notare che molte donne ignorano ancora, se non i loro diritti, almeno gli strumenti loro offerti e le procedure che possono seguire per farli valere.
Nuove iniziative di diffusione, di sensibilizzazione e anche di divulgazione devono pertanto essere prese. A tal fine occorre sottolineare l’importante ruolo di aiuto e consiglio svolto per esempio dalla “Commissione per la parità di trattamento” nel Regno Unito (che ha indubbiamente la legislazione più avanzata), ruolo che potrebbe utilmente essere esteso a tutti i Comitati di questo tipo. Ancora troppo spesso, le donne temono di essere licenziate se rivendicano la parità salariale, soprattutto nel clima di crisi economica e di disoccupazione di cui, da quasi cinque anni, soffrono i Paesi della Comunità. Sembra in proposito che le misure nazionali di “tutela” contro il licenziamento, corrispondenti all’art. 5 della Direttiva del ’75, si traducono, in pratica nella maggioranza dei casi, in semplici risarcimenti di danni ed interessi o in indennità, e questo non costituisce un elemento sufficiente di “dissuasione”.
D’altronde per facilitare alle donne l’ accesso alle vie giudiziarie, sarebbe ugualmente auspicabile di accordare loro, su scala generalizzata’e in funzione beninteso del loro livello di reddito, un’assistenza giudiziaria gratuita.