siamo cambiate

“Siamo diventate un po’ tutte quelle donne che abbiamo incontrato, quelle donne che hanno diviso con noi i loro obiettivi e le loro lotte”.

settembre 1980

Tutto sommato, quando abbiamo deciso di andare a Copenhagen, per dovere di informazione, rinunciando a una parte delle nostre vacanze e decidendo di vendere i manifesti di Effe per pagarci il viaggio, non sapevamo bene cosa fosse il “Forum”, vale a dire la Tribuna parallela che si svolgeva contemporaneamente alla Conferenza dell’ONU.
Sicuramente non era una riunione femminista. Tra le 131 organizzazioni non governative (NGOs, nel gergo dell’ONU) che lo avevano promosso, solo 22 erano organizzazioni di donne, e certo non tra le più femministe: associazioni professionali femminili, l’YWCA, il Consiglio internazionale delle donne, il Soroptimi-st, l’associazione delle Girl Scouts…
C’era tanto di “comitato organizzatore”, una Presidentessa, Elisabeth Palmer, che aveva presieduto l’YWCA internazionale per molti anni, un ufficio organizzativo a New York coordinato da due donne, una dell’Uganda, Rwaba zaire Paqui e una inglese, Marianne Huggard, e un budget, 450 mila dollari offerti in parte dagli stessi NGOs, in parte dall’ONU, dal Governo danese, fondazioni e privati.
Si sapeva che era stato predisposto un programma e si erano invitate alcune associazioni selezionate e alcune personalità. E poi, con la scusa che Copenhagen non è una città così grande sì erano scoraggiate le donne dall’andare e noi stesse non c’eravamo sentite di organizzare un gruppo dall’Italia.
Ed invece al Forum sono arrivate 8000 persone, in massima parte donne in rappresentanza di organizzazioni tradizionali, agenzie per il controllo delle nascite, movimenti di liberazione nazionale, Chiese, agenzie di «viluppo, governi, gruppi femministi, pubblicazioni… Molte rappresentavano semplicemente se stesse. E il Forum si è trasformato in un’occasione unica per incontrarsi, stabilire rapporti, per capire, per imparare, per cercare anche di influenzare la conferenza ufficiale che si svolge a qualche chilometro di distanza al Belle Center. L’unico canale per fare questo era un’azione di “lobbying” e alcune donne lo avevano preso molto seriamente, come le belghe ad esempio, che ogni sera organizzavano una riunione con qualche rappresentante della loro delegazione. Anche noi abbiamo cercato di fare un po’ di lobbying sulle nostre delegate, prese dal lavoro al Bella Center (o forse troppo impegnate a controllarsi tra di loro…) e che raramente si facevano vedere all’Università Amager, dove appunto era organizzato il Forum.
Per 10 giorni 8000 donne hanno quindi dato vita a quella che è stata giustamente definita la vera conferenza delle donne in, contrapposizione a quella del-FONU, conferenza di governi. Anche al Forum a volte scoppiavano conflitti tra la politica mondiale e le questioni delle donne. Ma al Forum il dibattito era meno diplomatico, più apertamente arrabbiato ed esteso all’intero arco dei diritti civili in tutte le parti del mondo. Hanno potuto parlare le madri argentine di Plaza de Mayo dei loro figli scomparsi, le donne del Salvador delle torture subite, le ukraine contro i gulag, le cilene in esilio, le boliviane, disperate per il colpo di Stato contro la democrazia nel loro Paese, le ebree dei Paesi arabi, le brasiliane che avevano ricevuto minacce di morte per il loro impegno politico, le donne del Sahara occidentale, le cambogiane… Le uniche di cui non abbiamo sentito la voce sono state le iraniane non khomeiniste e le afghane non governative. Mancavano anche le femministe russe che proprio in quei giorni erano state cacciate dal loro paese (solo Natalie Malachouskaya è venuta a Copenhagen, ma quando ormai il Forum aveva finito i lavori). La maggior parte delle donne paria-vano partendo dalla loro esperienza personale. “Non accusateci di introdurre la politica nel Forum. Nei nostri Paesi la politica è questione di vita e di morte. Siamo donne, ma siamo anche combattenti per la liberazione del nostro Paese. Queste cose non sono separate” ci ha detto una donna del Salvador.
Nonostante le diversità, sii sentiva però il desiderio di lottare contro le ineguaglianze, le ingiustizie, le sopraffazioni, per la pace. E un messaggio di pace è stato il primo ad essere portato alla Conferenza dell’ONU: 500.000 firme raccolte dal movimento delle donne per la pace.
Ogni giorno all’Università Amager si sono tenuti una media di 150-170 seminari, tavole rotonde, gruppi di lavoro, proiezioni di films. I temi trattati sono stati i più vari: dalla tratta delle prostitute all’allattamento al seno, dalla violenza in famiglia all’uso di tecnologie più appropriate per lo sviluppo economico, dai problemi delle donne in menopausa all’uso del videotape nelle ricerche sulle donne, dal salario al lavoro domestico al come organizzare una rete bancaria per le donne dei Paesi in via di sviluppo, dal sessismo nei libri di testo alle multinazionali.
Alcuni di questi seminari e tavole rotonde facevano parte dì programmi organizzati secondo una logica “maschile” come, ad esempio le tavole rotonde tenutesi presso la Royal Sehool of Librarianship. Queste avevano lo scopo di discutere sui principali temi e gruppi di temi della Conferenza dell’ONU: Eguaglianza, Sviluppo, Pace; Salute, Istruzione, Lavoro; razzismo e sessismo; rifugiati, emigrazione e i problemi della famiglia nelle società in via di sviluppo. A queste tavole rotonde hanno partecipato 65 studiose e dorme impegnate in politica da 40 Paesi diversi. E’ stato dunque possibile ascoltare e avvicinare alcune tra le più conosciute e popolari figure femminili, dalla boliviana Domitila a Maria Lourdes di Bintassilgo, ex Primo Ministro del Portogallo, da Marie Angelique Savane, sociologa senegalese, a Betty Friedan, da Hilda Bernstein, che da anni lotta contro l’apartheid a Ester Boserup, l’economista che per prima si è occupata del rapporto tra condizione femminile e sviluppo economico, da Nawal el Sadaawi, medico egiziana che ha scritto diversi libri sulla donna dei Paesi arabi a Motlalepula Chabaku, di gran lunga la più simpatica, del Sud Africa, che molte vorrebbero candidata alia Segreteria dell’ONU. L’aspetto più interessante di queste tavole rotonde era la possibilità di formare un gruppo di lavoro con le varie conferenziere.
Altri seminari erano il frutto di un’organizzazione durata diversi mesi. E ricorderemo a titolo d’esempio quelli sotto l’egida dell’Exchange (definito un forum nel forum) e dell’Women’s Studies International.
L’Exchange, un comitato ad hoc, creato nella primavera di quest’anno e finanziato da fonti governative e non governative in Europa e negli Stari Uniti, aveva preso l’avvio dall’idea che molte donne impegnate nello sviluppo economico avrebbero desiderato incontrarsi tra di loro, scambiarsi esperienze e stabilire contatti e collegamenti. L’Exchange è riuscito a pagare il viaggio a quasi 400 donne provenienti da tutte le regioni del mondo ed ha organizzato una ventina di gruppi di lavoro che andavano dall’uso delle tecnologie più appropriate per Io sviluppo agricolo alle diverse esperienze di organizzazioni di donne, dall’uso dei mass media per l’istruzione all’educazione sessuale delle bambine. Le organizzatrici dell’Exchange sperano di pubblicare un rapporto dettagliato sili vari gruppi di lavoro e sulle indicazioni pratiche che ne sono risultate, nonché l’elenco delle partecipanti. Un progetto per il finanziamento di tale rapporto è stato presentato alla Commissione delle Comunità Europee.
Il Women’s Studies International, organizzato dalla Feminist Press e dalla National Women’s Associ ation degli Stati Uniti, dalla S.N.D.T., l’Università delle donne di Bombay e dall’Istituto Simone de Beauvoir di Montreal, ha tenuto quattro seminari (approfondimento delle conoscenze sulla donna, programmi di studio per la donna, promozione di testi scolastici e di materiale didattico non sessisti per bambini e adulti, studi per la donna e interesse pubblico) e le tavole rotonde i cui temi variavano da come organizzare un centro di ricerca sulla donna a “donne e letteratura”, dai programmi di studio sulla donna nell’ambito universitario al “femminismo e i suoi nuovi orizzonti”. Qui, — ci diceva una delle organizzatrici, — hanno lavorato fianco a fianco, accantonando ogni divergenza ideologica, donne provenienti da Israele e dalla Giordania, dall’Iran e dagli Stati Uniti, dalla (Bulgaria e dalla Corea del Sud.
Questi sono soltanto alcuni degli esempi del tipo di lavoro che si è fatto al Forum. Praticamente ogni associazione o gruppo o singola persona che desiderasse discutere su un argomento specifico poteva chiedere alle organizzatrici l5 uso di una stanza e di attrezzature per la proiezione di films e diapositive.
C’era poi un’intera sezione informale: Vivencia, concepita come un’area per fornire spazio, tempo e supporto organizzativo a chiunque volesse svolgere una attività qualsiasi, anche creativa, senza un programma predeterminato. Nei lo cali di una delle tavole calde dell’Università erano stati ricavati quindici “chiostri”, suddivisi per aree geografiche e un enorme bancone per l’esposizione e la consultazione di pubblicazioni femministe da ogni parte del mondo. E’ stato in questo spazio, organizzato dall’ International Women’s Tribune Center, — nato dal Forum di Città del Messico per migliorare la comunicazione tra le donne impegnate nei movimenti femministi e femminili in ogni parte del mondo —che ha avuto luogo la maggior parte degli incontri informali — e proprio per questo più fruttuosi — al fine di costituire reti e collegamenti (networking) a livello internazionale, regionale e subregionale, in un clima veramente femminista, dove il contatto umano tra le donne anche molto diverse tra loro era più importante di qualsiasi elemento di disaccordo. In questo spazio, dove si sono incontrate quelle donne che avevano alle spalle una militanza politica femminista sia nei Paesi industrializzati dell’Occidente sia in quelli del Terzo Mondo, non si sono avuto quegli scontri ‘politici” che invece hanno turbato alcune tavole rotonde e riunioni plenarie, dato che a Vivencia le donne parlavano un linguaggio comune, sia che provenissero dallo SriLanka, dalla Birmania, dalla Colombia o dall’Italia.
Ed è stato a Vivencia che si è organizzato l’incontro più affollato. Sul giornale “Forum 80”, che veniva pubblicato ogni giorno in inglese — ma il cui direttore era un uomo! — si era Ietta una frase “parlare di femminismo a una donna che non ha acqua, cibo e casa, è dire sciocchezze”. Si sono quindi voluti chiarire alcuni concetti base, per proseguire nei lavori con il terreno sgombro da ogni malinteso.
“Per molto tempo i mezzi di comunicazione patriarcali hanno dato un’immagine del femminismo come di un lusso estraneo alla vita delle donne, specialmente alla vita delle donne del Terzo Mondo. Come femministe rifiutiamo questa immagine e ribadiamo che il femminismo è un progetto politico che riguarda tutti gli aspetti della vita umana. Il femminismo quindi si rivolge e deve occuparsi di fatti aventi rapporto con Y alimentazione, l’acqua, la famiglia, così come quelli relativi alla discriminazione sessuale, la violenza contro le donne, lo sfruttamento economico, il razzismo e lotta contro tutte le istituzioni nei paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo che hanno perpetuato la dominazione e la diseguaglianza”. Questo era il contenuto di un volantino distribuito per publicizzare l’incontro. Nella Conferenza intenazionale femminista di Bankok, organizzata nel 1979 del Centro Asiatico e del Pacifico per la donna e lo sviluppò, si è data una definizione del femminismo in base a due obiettivi a lungo termine:
il raggiungimento della eguaglianza, dignità e libertà per la donna, tramite il potere delle donne di controllare la loro vita e i loro corpi dentro e fuori la casa;
Io sradicamento di tutte le forme di diseguaglianza e oppressione attraverso la creazione di un ordine sociale ed economico più giusto a livello nazionale e internazionale.
“Superare il femminismo e la politica — è stato detto durante l’incontro — vuol dire limitare il significato e il potenziale del femminismo come nuova prospettiva di sviluppo e di cambiamento sociale. Speriamo che le donne di questa conferenza siano aperte ad esplorare il femminismo come progetto politico che vada oltre le divisioni politiche patriarcali e attraversi le frontiere nazionali”.
In realtà a Copenhagen non c’è stato un solo Forum. Ce ne sono stati un numero infinito, forse tanti quante sono state le partecipanti. Tante sono state le possibilità di incontro e le possibili combinazioni di “workshops” e “panels” a cui ognuna poteva andare che probabilmente nemmeno una delle donne presenti ha avuto la stessa esperienza. Forse quelle che ne hanno tratto maggior beneficio sono state le donne venute per approfondire un solo argomento. Molte donne sono ormai specializzate in un campo specifico e hanno alle spalle anni di esperienza e di lavoro politico da dividere con le altre donne.
“In due settimane — ci ha detto Amy Swerdlow dell’International Women’s Studies — siamo riuscite a fare un lavoro che altrimenti avrebbe richiesto due anni».
Ovviamente ci sono state lacune e problemi. Molte si sono lamentate dell’organizzazione, ma bisognava non aver mai provato ad organizzare un incontro femminista per trovare carente il lavoro fatto al Forum (Tra l’altro l’Università, ad un solo piano, nonostante il labirinto dei corridoi, era un ambiente ideale). C’era naturalmente il problema delle lingue. L’inglese aveva preso il sopravvento. Ma come pensare che sì sarebbero potuti organizzare 150 gruppi di interpreti per otto ore al giorno? Comunque le donne si sono molto aiutate tra di loro e chi parlava più di una lingua traduceva per la vicina.
A volte la spontaneità è diventata anarchia, quando più gruppi di lavoro sullo stesso argomento avevano luogo contemporaneamente. Ma il più delle volte — valga l’esempio delle mutilazioni sessuali — ci sono state riunioni collettive con tutti Ì gruppi anche se su posizioni diverse.
Molte si sono lamentate che il Forum era stato organizzato in modo tale da evitare qualsiasi tipo di azione comune e di risoluzione generale, che “i 1000 fiori che si erano lasciati sbocciare servivano a contenere le discussioni all’interno dei gruppi e a limitare la comunicazione”. (Forum ’80) Ogni tentativo di tenere riunioni plenarie è fallito e le risoluzioni adottate da alcuni gruppi di lavoro, che sono state consegnate alla Presidente della Conferenza alla fine dei lavori, non erano certo rivoluzionarie.
In realtà non era necessario che il Forum arrivasse a delle dichiarazioni unitarie e a delle proposte per la Conferenza dell’ONU. Il Programma d’Azione e le risoluzioni adottate da quest’ultima sono già in sé documenti rivoluzionari. Se i governi le applicassero cambierebbe completamente il mondo.
Vi sono infatti conglobati tutti i diritti, le eguali opportunità, la divisione del lavoro, richiesti dai movimenti di liberazione della donna dei Paesi occidentali negli anni 70. Si parla persino di sessismo e di violenza in famiglia. Anche se non ili sessualità. Non c’era quindi bisogno di ulteriori dichiarazioni, risoluzioni, documenti.
La vera “azione” nel Forum è consistita nei contatti, nei legami, che si sono formati, nel serio lavoro fatto all’interno dei seminari, nell’organizzazione di reti ed incontri su temi specifici a breve termine.
Un rammarico: che il Festival Internazionale delle donne artiste, organizzato nello stesso periodo dal gruppo danese KIK (Donne e Cultura) non abbia pò tuto essere organizzato negli stessi locali della Università Amager. Infatti il lavoro artistico delle donne è stato presentato in una serie di gallerie, musei, cinema, teatri (dove tra l’altro si pagava 1′ ingresso) ed ha sicuramente offerto alle donne artiste l’opportunità di unirsi, di parlare, di scambiarsi idee, ma ha finito con diventare un’iniziativa per addette ai lavori.
L’ultimo giorno, quando nella cerimonia conclusiva, dopo i balli delle tahitiane, i canti delle africane, dopo i discorsi ufficiali, quando Vinie Burrows, un’americana con una voce stupenda, ha cantato “Eravamo 8000 donne, ci siamo riunite per parlare, per imparare, per partecipare, per lottare, sapendo che abbiamo il destino nelle nostre mani” ed ha invitato ognuna di noi a stringere la mano della vicina, per un momento una grande commozione ha preso tutte e le parole del discorso di chiusura di Elisabeth Palmer non sono più sembrate retoriche; “Dieci giorni fa siamo giunte qui come individui, ognuna con le proprie preoccupazioni, cercando soluzioni per i nostri problemi. Oggi ce ne andiamo essendo cambiate. Siamo diventate un po’ tutte quelle donne che abbiamo incontrato, quelle donne che hanno diviso con noi i loro obiettivi e le loro lotte.
Torniamo a casa pronte a continuare a lottare non solo per la soluzione dei nostri problemi, ma in relazione ai problemi delle donne di tutto il mondo.
Partiamo con un senso di solidarietà, avendo compreso che la solidarietà non è un sentimento, ma un impegno costante e che Eguaglianza, Sviluppo e Pace sono indivisibili, non possono realizzarsi per ognuna di noi finché non sono una realtà per tutte noi”.