un palazzo per uscire dalle case
Abbiamo parlato con alcune compagne del movimento femminista romano del loro rapporto con la sede del Governo Vecchio. Riportiamo le loro valutazioni stralciandole dalle conversazioni.
Quando ho visto il palazzo così grande, con le colonnate, le vetrate ho provato piacere. Dopo tante esperienze di locali sotterranei, di cantine (noi, le talpe) finalmente uscivamo fuori nella città, stavamo al livello della gente normale. Era un tentativo di inserimento nella realtà quotidiana. Ci sono andata dall’inizio con il mio collettivo di donne insegnanti. Ma la nostra pratica contrastava con il luogo e con le altre pratiche politiche. Volevamo approfondire l’autocoscienza e ci ritrovavamo con un via vai continuo di presenze politiche diverse con esigenze diverse. La nostra realtà individuale e collettiva urtava contro le altre esperienze. Ho visto il Governo Vecchio come un luogo ufficiale dove si confrontavano le pratiche che erano fuori, quelle dei collettivi, in occasioni in cui emergevano soprattutto le differenze, insomma il luogo dell’ideologia del femminismo. Di fronte agli avvenimenti politici sempre più incalzanti e che richiedevano risposte continue è stato un momento di coagulo importante, l’unico punto di riferimento per noi nella città. Volevo sentirlo mio, ma l’incontro con le donne era sempre molto filtrato da situazioni che non erano vissute dalle donne né dentro i collettivi né al Governo Vecchio. Si discuteva, ci si scontrava su quello che sembrava importante momento per momento a ogni gruppo di donne. Il rapporto era anche un po’ come nelle manifestazioni, che sono luoghi anche di incontro, più nei desideri che nella realtà. All’inizio l’occupazione è stata soprattutto del MLD e questa situazione pesava un po’ nel nostro lavoro, p. es. l’autocoscienza veniva considerata da loro come un’ attività legata solo al privato. Però c’è stata anche la positività dell’incontro con una pratica diversa. Ultimamente non sono stata più stimolata ad andare al Governo Vecchio, penso che noi donne cerchiamo nuovi modi, spazi per esprimere la nostra soggettività, non solo un luogo fisico. Penso alla mia realtà di lavoro, il punto di riferimento lo voglio anche là. Per me il cosiddetto ritorno al privato è stato un periodo di riflessione in cui mi sono tolta la pelle dell’ideologia. Si costruisce qualcosa quando l’ideologia muore e le donne riescono a vivere nella realtà sociale. Le energie del movimento sono state incanalate su un binario lungo, ma unico (la sede, il consultorio). Il Governo Vecchio o altre sedi centrali sono in grado di rispecchiare una molteplicità di percorsi delle diverse donne? Le diversità sono state negate nella realtà, si sono create nuove divisioni: le vecchie del femminismo e le nuove, le classi di età. La ricchezza delle pratiche è vissuta in ambiti ristretti. E’ difficile fare un collettivo al Governo Vecchio, soprattutto oggi che il collettivo è mutato, penso alle donne che si riuniscono su interessi maturati in questi anni. Se il Governo Vecchio non riesce a rispecchiare i diversi bisogni delle donne e rimane il luogo dove si chiamano a raccolta le donne, risulta ambiguo. Oggi c’è bisogno di rompere gli schemi. E’ sicuramente il luogo più segnato dagli avvenimenti esterni che hanno segnato il movimento in questi ultimi due anni e dall’ingresso delle nuove generazioni. Un luogo senza radici che ha prodotto nuovi rami.
di rosalba spagnoletti
Il Governo Vecchio è il luogo politico del movimento quando deve rispondere unitariamente, quando viene colpito direttamente. Penso a Giorgiana Masi, alla legge sull’aborto, ai grossi episodi di violenza. Accanto a questo penso agli scontri tra le diverse “forze politiche” del movimento; che il nostro è un movimento composito anche dal punto di vista politico tradizionale l’abbiamo toccato con mano proprio al Governo Vecchio. La realtà dei collettivi storici che si riunivano fuori aveva un suo modo di coprire le differenze. L’autocoscienza consentiva la ricomposizione. Ma è anche il luogo della politica selvaggia, dove ti devi attrezzare per andarci, anche psicologicamente, altrimenti non puoi reggere il livello di comunicazione che c’è tra le donne. Ha evocato anche tutti i momenti di paura, di repressione che per me sono stati legati alle assemblee del ’68: la difficoltà di prendere la parola, la perdita di familiarità che ho con le compagne nel collettivo anche quando non ci vado d’accordo, una censura che mi viene anche dal vedere tante donne tutte insieme, non provata alla Casa dello studente quando facemmo il convegno sull’aborto. Era un momento diverso del movimento, oggi al Governo Vecchio il movimento dialoga con un fantasma che è l’esterno, la politica dell’uomo.
Questo è un aspetto, c’è poi tutto un altro risvolto che ho scoperto con il gruppo delle 150 ore. Ho potuto accorgermi- della domesticità di questo luogo, anche nella sua disperazione se guardi le piccole aree ritagliate ti rendi conto della traccia femminile che c’è dentro. Abbiamo fatto riunioni sedute per terra con la candela in mezzo, piene di cicche, ci siamo lamentate e appena c’è stata la possibilità abbiamo cercato di attrezzare qualcosa che noi abbiamo sempre trovato nelle case, nei piccoli gruppi, ma con una differenza. Quando è stato proposto di fare il collettivo nelle case le donne non hanno voluto. L’idea di fare questa pratica nelle case sembrava soffocante, andare alla casa della donna era importante perché dava politicità alla pratica. Il luogo assorbiva simbolicamente la politicità. Essere riuscite a mettere in piedi dentro al Governo Vecchio questo lavoro che stiamo facendo, che è uno dei lavori classici interni, da autoriflessione, mi sembra che mi consenta di non perdere il contatto con tutte le donne. Il Governo Vecchio mi dà l’idea del movimento delle donne, non del movimento femminista; se penso ad un luogo dove incontro le donne che non sono solo femministe penso al Governo Vecchio.
di manuela fraire
Se penso a che cosa sono state le sedi delle donne nella mia esperienza femminista penso soprattutto alle mie difficoltà nel mettere insieme uno spazio nostro con altre donne. Oggi capisco che il mio rifiuto inconscio riguardava la casa, le cose da cui ero scappata. La mia militanza precedente nel collettivo di via Pomponazzi si era svolta in una sede fisica maschile che mi faceva uscire per forza dalla casa: una sede “organizzata”è più in rapporto con il lavoro, la casa delle donne mi evocava la casa e i suoi orrori. La prima intuizione della natura di questo disagio l’ho avuta riflettendo sul desiderio di fuga che mi suscitavano le tendine del consultorio di S. Lorenzo, i suoi posacenere e il pavimento sempre spazzato. Forse Capo d’Africa è stata un tentativo diverso, ma è durato troppo poco. Via Germanico l’ho sentita abbastanza mia, un luogo dove la pratica dell’autocoscienza si univa ad una sede aperta. Al Governo Vecchio all’inizio non c’andavo perché era un’occupazione del MLD, c’è stata una specie di settarismo da parte di noi compagne dei collettivi di formazione comunista che dopo la chiusura di via Capo d’Africa sentivamo come una sconfitta andare al Governo Vecchio. Poi la possibilità di un rapporto con il quartiere che via Germanico non garantiva mi porta ad affacciarmi in questa sede gigantesca. La sensazione prevalente è l’estraneità. Per me il Governo Vecchio è legato a un’altra generazione di donne estranee alla pratica politica dei collettivi, che ha espresso più la distruzione delle immagini legate alle istituzioni politiche e familiari, e non mi sembra che le donne la vivano automaticamente come liberazione. Questa dimensione unita alla struttura stessa dell’edificio, spezza qualunque tipo di rassicurazione: non c’è quella della sede politica, che forse esiste solo per le donne che hanno lì una loro aggregazione, né quella della casa delle donne. Ma il Governo Vecchio è stato anche oggettivamente uno spazio unificante per il movimento, anche se la logica delle riunioni è stata spesso quella delle assemblee alla Casa dello studente.
di gabriella frabotta
Per un anno e mezzo ho frequentato regolarmente la sede del Governo Vecchio. Poi dopo l’estate del ’78 ho deciso che non ci avrei più messo piede. Così è stato; passavo per quella stradina e guardavo quel portone aperto come una parte del mio passato. Ho pensato spesso ai motivi di questo mio rifiuto. Il principale è che io ero andata in quella sede come tramite (o credendomi tramite) tra il mio collettivo di quartiere e il Centro; nel momento in cui il collettivo aveva esaurito la propria esperienza, la mia delega veniva a cadere. Non ero più motivata; andavo al Governo Vecchio individualmente, conservavo un potere che non aveva più un fondamento nella realtà mentre rappresentavo solo me stessa. E per questo il freddo, la sporcizia, la solitudine del luogo non erano più sostenibili. Erano inaccettabili. Il luogo mi appariva ora come la testimonianza di un fallimento, la rappresentazione tangibile dell’incapacità delle donne (mia) di progettare, costruire e vivere nel separatismo. Andare in un luogo e sentirsi presa in Un labirinto di stanze vuote. Dal buio i corpi e le voci delle Compagne “come stai” Incontri frettolosi, battute rapide Si recita su fondali scarabocchiati Da frasi senza senso. “Mi dai una sigaretta? Grazie”. Chiacchiericci sommessi nelle stanze chiuse.
“Scusate dov’è la riunione?” Sempre in fondò a destra. Invecchiate siedono le compagne Tese e livide si guardano Non sono più belle come un tempo. E poi la ripetitività del luogo, delle persone, delle situazioni, delle sigle, degli schieramenti. Le contraddizioni che nella pratica del collettivo si riuscivano a superare, ora qui apparivano fatali.
di iride