workshop sulla prostituzione
A Copenhagen posizioni divergenti di vari gruppi. Ne parlano Kathleen Barry e Margo St. James.
E’ stato uno degli argomenti più dibattuti, al Forum: decine di “workshops” organizzati da vari collettivi di prostitute inglesi e americane, centinaia di donne che ogni volta si stipavano nelle aule dell’università per seguire il dibattito, molte polemiche e anche., purtroppo, un nutrito scambio di invettive. Tutto questo per la prostituzione, uno dei problemi più spinosi che il movimento femminista si trova da qualche anno ad affrontare. E’ del 1973 in America il primo collettivo di prostitute, Coyote, fondato da Margo St. James. Da allora ne sono nati molti altri, soprattutto in America, ma anche in Inghilterra, Germania, Francia, Svezia, Danimarca, ecc. A Copenhagen se ne è discusso per la prima volta, fra femministe, a livello mondiale.
C’erano le americane, molto numerose come sempre, c’erano le europee, ma anche le asiatiche, che hanno raccontato della piaga della prostituzione abbinata al turismo, soprattutto in Thailandia e in Corea del Sud. C’erano le africane,- che-hanno-parlato -dei-bordelli del Ghana e della Costa d’Avorio, dove vengono “spedite” ragazze, spesso giovanissime, “prelevate” un po’ dappertutto, anche in Europa (particolarmente in Francia). Si è parlato anche della famosa convenzione ONU del 1956 “per la soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione di altri”, ratificata soltanto dopo 18 anni e rimasta praticamente lettera morta. I primi “workshops.» sull’argomento sono stati organizzati da Kathleen Barry, autrice del libro “Female Sexual Slavery” (La schiavitù sessuale femminile) che parla appunto del traffico di donne e bambine attraverso il mondo intero. Lo scopo era di creare, al termine di una serie di “workshops” per approfondire il tema e acquisire ulteriori informazioni ascoltando le testimonianze delle donne presenti, una rete informativa a livello mondiale che permetta di rompere l’omertà che circonda il traffico delle donne. Quasi subito però sono nate violente polemiche fra Kathleen Barry e le americane di Coyote, da una parte, e il collettivo inglese delle prostitute, capeggiato da Selma James, dall’altra. Selma James è una femminista americana di vecchia data, che vive ora in Inghilterra e che ha fondato i “Gruppi per il salario al lavoro domestico”.
Il discorso della James e delle prostitute inglesi è stato molto duro e violento; e ha puntato soprattutto sull’aspetto economico, secondo loro assolutamente trascurato dalla Barry. Esse sostengono che l’unica molla che porta una donna a prostituirsi è la necessità di sopravvivere, quindi un problema di ordine finanziario; che il tipo più comune di prostituzione in tutto il mondo è quello della casalinga, prostituita al marito, che in cambio la “protegge”, esattamente come qualunque magnaccia; che dunque l’unica soluzione è appunto il “salario al lavoro domestico” che, rendendo la donna economicamente indipendente dal marito, le permette di non “prostituirsi” più. Le prostitute inglesi hanno anche sostenuto che non è tanto importante parlare del traffico delle donne, ma che occorre invece attaccare a fondo, il ruolo di prostituta che tutte le donne hanno, nel momento in cui si sposano.
In questo discorso erano presenti comunque numerose contraddizioni: ad esempio, se è vero che qualunque prostituta smetterebbe se avesse un’altra fonte di reddito, come è stato sostenuto, perché rivendicare, come hanno fatto, il ruolo della prostituta come donna liberata, che non dipende più dal marito, (ma in compenso dipende da molti altri uomini)? A questo e a molti altri interrogativi non è stata data risposta. L’impressione comunque è stata quella di un grosso problema di “leadership” del movimento delle prostitute, che i gruppi del “Salario al lavoro domestico” sembrano voler conquistare.
Su una cosa si sono dichiarate tutte d’accordo: occorre battersi perché vengano abolite tutte le leggi che criminalizzano le prostitute e perché si facciano invece leggi più dure contro protettori e sfruttatori. Maggiori perplessità ha invece suscitato l’esempio della Svezia, dove esiste una legge che criminalizza i clienti, perché finisce per colpire soprattutto la prostituta.
-Le prostitute inglesi, poi, hanno, attaccato il movimento femminista, colpevole di essersi spesso rifiutato di aiutare e sostenere prostitute violentate. Per quanto riguarda l’Italia è stato portato l’esempio di Claudia Caputi per la quale, è stato detto, il movimento si è mosso solo dopo lunghe esitazioni, proprio per il fatto che era una prostituta.
Al dì là delle polemiche, comunque, l’impegno di tutte le partecipanti ai “workshops” è stato quello di continuare a confrontarsi, anche e soprattutto fra collettivi femministi e collettivi di prostitute, favorendo, per quanto è possibile, la creazione di questi ultimi.
“…Considerando la quantità di magnaccia, sfruttatori, membri di “gangs” che organizzano e controllano la prostituzione, uomini che lavorano in bordelli e saloni di massaggio, che operano e usufruiscono della pornografia, che picchiano le mogli, che molestano i bambini, che commettono incesto, che sono “clienti” e stupratori, non si può non rimanere sconvolti dalla vastissima popolazione maschile che determina la schiavitù sessuale femminile”.
E’ un brano tratto dal libro “Female Sexual Slavery” (La schiavitù sessuale femminile), il “best-seller” americano di Kathleen Barry uscito nel 1979. Americana di San Francisco, sociologa e femminista con una lunga militanza alle spalle, un viso da bambina sotto una massa di buffi capelli un po’ bianchi e un po’ neri, la Barry è considerata oggi una delle più grosse studiose del problema della prostituzione. Kathy Barry ha affrontato soprattutto il traffico di donne dai Paesi del Terzo Mondo verso l’Europa e l’America, ma anche all’interno stesso di questi continenti. E’ di pochi giorni fa in Italia, ad esempio, la notizia di una ragazza veneta costretta con le minacce a prostituirsi e poi venduta dal suo “padrone” ad un amico, che ha continuato ad usarla come fonte di reddito. La Barry ha compiuto una ricerca durata quattro anni, in America, Asia ed Europa. Ha parlato con centinaia di donne, ha letto migliaia di rapporti della polizia e dell’ONU, ha sentito testimonianze su testimonianze. Ne è Uscito un libro sconvolgente. A Copenhagen, dove Kathleen Barry ha tenuto diversi “workshops” sulla prostituzione, abbiamo parlato a lungo con lei del suo libro e delle reazioni che ha suscitato.
E. – Quando hai iniziato a scrivere “Female Sexual Slavery”?
K. – Mi occupavo del problema da molto tempo. Ho pensato seriamente per la prima volta di scrivere un libro nel 1975 e ho intensificato le ricerche. Poi nel 1976 c’è stato il processo contro Patricia Hearst (l’ereditiera americana rapita dai simbionisti e costretta, con le minacce, a schierarsi dalla loro parte, n.d.r.) e il caso mi è sembrato emblematico della condizione di schiavitù fisica, sessuale e psicologica in cui moltissime donne si trovano. Così sono andata avanti.
E. – In che rapporti sei con i collettivi americani di prostitute?
K. – Margo St. James e le Coyote, ad esempio, mi hanno molto aiutato durante la preparazione del libro e abbiamo lavorato insieme. Non so come le altre prostitute americane abbiano accolto il libro, ma certo quelle di San Francisco, mi hanno sostenuto fino in fondo.
E. – Ti ho chiesto questo perché qui a Copenhagen sei stata attaccata, in modo anche molto violento, dal collettivo delle prostitute inglesi, organizzate da Selma James e legate a “Wages for housework” (“Salario al lavoro domestico”). Ti hanno accusata di volerti costruire una carriera sulle spalle delle prostitute, di esserti venduta per molti dollari, di parlare troppo del traffico della prostituzione e troppo poco della prostituzione “normale” e, soprattutto, di essere “contro”, le prostitute, di avere un atteggiamento moralista. Cosa rispondi a queste accuse?
K. – Andiamo con ordine, perché le risposte sono tante. C’è quella mia personale, come Kathleen e basta, e in fondo non si tratta nemmeno di una risposta. Sono stupefatta e amareggiata; queste cose mi hanno fatto stare molto male. Il fatto è che non riesco a credere che fra donne che si dicono femministe possa scatenarsi tanta violenza, che si possa ricorrere alla calunnia per controbattere idee che non si condividono. Per fortuna però qui ho incontrato anche donne meravigliose, che mi hanno molto aiutata. Tornando alle accuse non rispondo nemmeno a quella sui soldi, perché non ne vale la pena. Quanto allo sfruttamento del tema della prostituzione per costruirmi una brillante carriera, non vedo perché se sono io a scriverne e parlarne, sfrutto le prostitute. Se sono le altre, va tutto bene.
E. – La James in realtà sostiene che non hai diritto a parlare “da esperta” perché non sei una prostituta.
K. – Sono stronzate. Nemmeno Selma James, a quanto mi risulta, è mai stata una prostituta. Tutti i collettivi dì prostitute comprendono anche donne che non lo sono mai state. E poi sarebbe come dire che solo chi è stata violentata può parlare di stupro. Un’assurdità. Io sono libera di parlare e scrivere sulla prostituzione; loro sono libere di criticarmi, purché su basi concrete e non insultandomi come hanno fatto finora. Quanto al fatto che ho parlato soprattutto del traffico delle donne, certo, ho fatto una scelta precisa, perché è il problema di cui si parla meno, nonostante le numerose quanto inattuale risoluzioni ONU sull’argomento.
E. – E sull’accusa di essere “contro” le prostitute, cos’hai da dire?
K. – Senti, qui il discorso si fa lungo e difficile. Voglio essere chiara perché i giornalisti finora hanno molta confusione. Io, come femminista, non posso considerare la prostituzione un lavoro come un altro e quelle che, come Selma James, lottano solo contro i protettori, contro le leggi, ecc. (tutte lotte giustissime, intendiamoci), secondo me non capiscono che le due cose vanno insieme e che non serve a nulla lottare e organizzarsi se poi non ci si batte contro l’”istituzione prostituzione”. Io non mi sono mai prostituita e credo che non potrei mai farlo, ma questa è una mia posizione personale. Resta il fatto che continuerò a lottare contro la prostituzione e non certo contro le prostitute. E’ un discorso indubbiamente difficile, che le prostitute non accettano facilmente, lo sentono spesso come una forma di moralismo, una lezione. E a volte hanno anche ragione. D’altra parte, aiutare le prostitute a uscire dal terribile gioco in cui sono prese è comunque molto difficile, anche perché è impossibile immedesimarsi in loro.
E. – Ma spesso sono loro stesse a chiedere di essere aiutate.
K. – Sì, certo. Non sono ancora molte, ma sono sempre di più. E’ un po’ come per lo stupro: vanno nei “crisis centers”, come quello delle Coyote a San Francisco, e in fondo quello che vogliono è solo parlare, trovare qualcuno con cui sfogarsi, che le sappia ascoltare. Poi ritornano e a poco a poco acquistano coscienza dei loro diritti, scoprono quasi un mondo nuovo, anzi scoprono proprio “il mondo”. Conoscono per la prima volta piaceri negati: quello di vivere anche di giorno, di andare per strada senza essere “marchiata”, avendo diritto al rispetto degli altri. Riscoprono il rispetto di loro stesse, del loro corpo. Perché quando fai la puttana, sei un corpo “per gli altri”, pubblico. Io credo anche che la grande maggioranza delle prostituite non si renda conto dei rischi, dei pericoli continui, non ha coscienza della fine che fanno molte. Quando facevo le ricerche per il mio libro sono andata negli archivi della polizia di San Francisco e ho visto fotografie orribili, inimmaginabili, di prostitute assassinate. Ecco, credo che se vedessero anche una sola di quelle fotografie, non avrebbero più il coraggio di continuare. Per andare avanti devono censurare tutto.
E. – Tu, sia nei “workshops” che nel tuo libro, hai attuato una distinzione fra la “prostituzione forzata”, cioè quella delle donne che vengono rapite, sequestrate, e poi costrette a prostituirsi pena la morte, e la prostituzione di quelle che “scelgono”, in qualche modo, di farlo. Selma James e le inglesi sostengono che si tratta di un discorso assurdo, perché nessuna donna sceglie di prostituirsi, ma è costretta a farlo per vivere.
K. – Non è vero. Esistono donne (non sono la maggioranza, è vero, ma sono molte) che scelgono di prostituirsi perché è un modo che a loro non dispiace per guadagnarsi da vivere. Sono in genere “upperclass”, lavorano in appartamenti propri, per lo più senza protettore, in condizioni di relativa sicurezza. Sono spesso casalinghe, studentesse, ecc. Secondo me, questa è una forma di prostituzione volontaria. Poi ci sono quelle che sono costrette a farlo perché altrimenti non mangiano. E occorre ancora distinguere fra quelle che accettano di prostituirsi per mangiare, e quelle che invece non sanno nemmeno che verranno costrette a fare le puttane. Intendo parlare dì quelle donne che, come la maggioranza delle ragazzine che scappano di casa e molte donne del Terzo Mondo, vengono attratte col miraggio di un lavoro sicuro e ben pagato, senza rischi, spesso a tempo determinato, e poi sono sequestrate, picchiate e torturate perché non tentino di fuggire e obbediscano.» E questa è sicuramente “prostituzione forzata”. E di questa prostituzione bisogna parlare, parlare il più possibile, perché il silenzio è la tomba di troppe donne.
E’ alta, con una frangia di capelli neri che rende più geometrici i lineamenti del viso, un sorriso che le illumina tutta la faccia, un forte accento “West Coast”, la pelle liscia tirata dai numerosi “liftings” che lei stessa dichiara di aver fatto (“come Ronald Reagan”, dice con una smorfia di disgusto). Vestita con camicia trasparente stampata a leopardo, pantaloni super-aderenti in pelle nera e tacchi altissimi, si muove indaffarata nei corridoi della ufficialissima conferenza ONU al Bella Center, facendo continue puntate al Forum. In una pesante borsa che trascina sempre con sé, porta distintivi e magliette con il simbolo del coyote, che ha dato il nome al primo collettivo di prostitute che lei, Margo St. James, ha fondato in America nel 1973. Da quel primo nucleo è nata una grande organizzazione (la “National Task Force on Prostitution”) presente in 5 Stati, con decine di migliaia di aderenti, uomini e donne, prostitute e non. Lei, Margo St. James, ne è leader indiscussa, ormai un personaggio in tutta l’America. Ha un ufficio a San Francisco, con 12 persone che ci lavorano a tempo pieno, più diverse altre che prestano lavoro volontario. Per finanziare la NFTP ha creato un giornale (“L’urlo del coyote”), vende T-shirts, canottiere, distintivi e borse, tutto con il suo marchio, la testa del coyote, e organizza ogni tanto balli in maschera con migliaia di persone. Dietro questo “business” tipicamente americano c’è però un discorso politico lungo e serio, una lotta che dura da anni e Margo è ormai temuta e rispettata dall’“establishment” politico di Washington.
Siamo sedute al sole nei bellissimi giardini dell’università di Copenhagen, sede del Forum, e Margo a voce bassa racconta come è diventata prostituta.
M. – E’ cominciata così: io ero arrivata da poco a San Francisco. Ero una solida ragazzotta di campagna, molto eccitata dalla vita della grande città. Lavoravo in un bar, sai preparavo i cocktail eccetera. La sera mi piaceva vedere gente, stare in compagnia e così invitavo spesso degli amici a casa mia: si ballava, si stava insieme, e non succedeva proprio nulla di strano. Poi, una sera (era il 1962) è arrivata la polizia, che credo mi controllasse già da tempo, dicendo di sapere che facevo la puttana.
Io sono cascata dalle nuvole e gli ho detto che erano pazzi e che non avevo mai scopato per soldi in vita mia. Allora hanno provato a incastrarmi con un’altra tattica e mi hanno chiesto quanti soldi avrei voluto se fossi stata una puttana. Io, seria ci ho pensato un po’ e gli ho detto: «Certamente più di quelli che avete”. Comunque, il risultato è che sono finita in prigione. Un mio amico avvocato si è dato da fare per tirarmi fuori, ma la faccenda è durata diverso tempo. Stavo proprio male. Poi c’è stato il processo e il giudice, dopo avermi condannata (e quindi ormai ero schedata), mi ha detto con un bel sorriso: «Lei promette a questo tribunale che non succederà più, non è vero?”. Ho riflettuto un attimo e con un bel sorriso gli ho risposto: “E invece penso che stavolta succederà davvero”. E così ho cominciato. Era come se tutti si aspettassero da me che lo facessi e io l’ho fatto. Tanto, il risultato era lo stesso.
E. – Come mai hai pensato di fondare un centro di aiuto per prostitute?
M. – Dopo undici anni di quel mestiere avevo visto cose così terribili, donne distrutte, soprusi e violenze di ogni genere, che nel 1973 ho deciso di istituire un “crisis phone” (una linea telefonica d’emergenza, n.d.r.). Avevo molti sostegni anche all’interno dell’associazione degli avvocati di San Francisco e così Fazione si è allargata e il gruppo delle Coyote ha cominciato a crescere sempre più. Pensa che nel 1973 persino l’associazione americana delle suore ha chiesto la decriminalizzazione della prostituzione. In America dal 1960 c’è una legge che proibisce l’adescamento. Poi ogni Stato ha una serie di leggi più o meno punitive nei confronti delle prostitute. Dappertutto, ad esempio, è vietato servire da bere a una prostituta. Il che significa che se tu entri in un bar e hai una faccia che al cameriere sembra quella di una puttana, non bevi. Poi due prostitute non possono vivere insieme, non solo, ma a chiunque è vietato vivere con una prostituta. Noi di Coyote dunque siamo per la completa decriminalizzazione della prostituzione e per una legge, invece, che colpisca duramente lo sfruttamento, che è il pericolo maggiore. Vogliamo una riforma del codice e abbiamo sostenuto la presentazione al Congresso di un progetto di legge. La prostituzione deve essere considerata in America un “national affair”.
E. – Che cosa fate per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo problema?
M. – Beh, fin dal 1973 con Coyote ho cominciato a girare per gli Stati Uniti in lungo e in largo per parlare della prostituzione. Sono stata dappertutto, sai: università, centri culturali, organizzazioni di donne. E anche di uomini. Perché visto che la prostituzione esiste perché ci sono le puttane, ma anche e soprattutto i “tricks”, i clienti, tanto vale raggiungere anche questi ultimi. E poi c’è il giornale, il materiale di documentazione, anche un film.
E. – Da molti anni ti batti soprattutto contro la prostituzione giovanile.
M. – Ah sì, quella è una vera tragedia. In America abbiamo 500.000 prostitute e prostituti sotto i 21 anni. La piaga della prostituzione giovanile è terribile. E i ragazzi così giovani sono molto più vulnerabili, le ragazze soprattutto sono soggette a infezioni e infiammazioni all’utero e alla cervice. E’ stato calcolato che fra le prostitute al di sotto dei 25 anni c’è una forte incidenza di tumori alla cervice. I ragazzi molto giovani si controllano anche molto meno rispetto alle malattie veneree. Insomma, io sono assolutamente contraria alla prostituzione prima dei 21 armi.
E. – Il problema fondamentale mi pare sia quello della possibilità, per una prostituta, di “sganciarsi”, di uscire dal giro.
M. – Infatti è questo il problema più grosso ed è per questo che nel ’73 ho fondato il Coyote. Ma è anche la cosa più difficile da ottenere. Per due motivi: il primo è che ci sono i “pimps”, Ì protettori, che ricattano, spesso anche affettivamente, massacrarlo di botte o addirittura ammazzano. Per questo sono necessarie leggi che eliminino lo sfruttamento e i protettori.
Il secondo motivo è la società, che in genere respinge la prostituta che vuole “mollare”, non l’aiuta in nessun modo, anzi continua ad emarginarla. La polizia in questo senso è forse il nemico peggiore, perché molti poliziotti sono conniventi con i magnaccia, spesso fanno parte dei “rackets”, spessissimo picchiano e violentano le prostitute che vanno a denunciare i protettori. Mai, o quasi mai, le aiutano. Però sempre più spesso ci sono donne che hanno il coraggio di denunciare. E’ stato simbolico, da questo punto di vista, il processo di Grenoble, in Francia, nel mese di luglio. Tre prostitute hanno avuto il coraggio di denunciare i protettori, che sono stati condannati. Quelle donne ora vivono in un incubo continuo, nascoste, minacciate. E’ una vita d’inferno. Ma il loro gesto ha un valore enorme e deve essere d’esempio per molte altre.
E. – A questo punto, Margo, io vorrei capire una cosa: so che tu continui a fare la prostituta. Perché?
M. – Vedi, ci sono molte donne che lo fanno per fare un’esperienza nuova, diversa, per amore dell’avventura. Io lo faccio perché… beh, perché “I like my job”, mi piace il mio lavoro.