dossier

il lavoro femminile

marzo 1982

L’offerta di lavoro femminile è in continua crescita in tutti i Paesi industrializzati. Questo processo è incominciato nel corso degli “anni ’50” e degli “anni ’60” accelerandosi decisamente negli ultimi dieci anni. I dati forniti dall’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economici) indicano un aumento di ben 24.754.000 unità delle forze di lavoro femminili per l’insieme dei Paesi industrializzati aderenti a tale organizzazione, dal 1970 al 1980. ed è previsto un ulteriore aumento di 22.833.000 unità nel decennio in corso. La forza lavoro femminile sarebbe quindi aumentata in tutti i Paesi industrializzati del +2% in media all’anno, quando invece quella complessiva, aumentava del +1%. Questo aumento della forza lavoro femminile è stato poi maggiore a quello registrato dalla popolazione femminile in età lavorativa. Infatti, il rapporto tra le forze di lavoro femminili totale e la popolazione femminile in età lavorativa, cioè quella compresa tra i 15 e i 64 anni, è passato dal 44,5% al 49,5%. Anche il “grado di femminilizzazione” delle forze di lavoro sarebbe passato dal 35.2% al 38% con aumenti ancor più marcati nei casi della Norvegia, del Portogallo, della Spagna, della Svezia e degli Stati Uniti. Si prevede che tale andamento della forza lavoro femminile continui anche nel corso degli “anni ’80”.
Le previsioni effettuate dall’Ocse, su indicazioni fornite dagli esperti dei singoli Paesi, indicano un ulteriore aumento dei rapporti tra forze di lavoro e popolazione femminile al 51.3% nel 1985 ed al 53,1% nel 1990, mentre l’analogo rapporto per i maschi scenderebbe dall’86.4% del 1980 allo 85.5% nel 1985 e all’85,3% nel 1990; il “grado di femminilizzazione” delle forze di lavoro aumenterebbe dal 38% del 1980 al 39.1% del 1985 e al 40% nel 1990.
La forza lavoro femminile in Italia sarebbe aumentata nel corso degli “anni ’70” di 683.000 unità. Il rapporto tra forze di lavoro e popolazione femminile in età lavorativa è infatti passato dal 29.6% del 1970 al 32% nel 1980. Le previsioni per gli “anni ’80” sembrano però alquanto diverse. Gli esperti dell’Ocse indicano un probabile aumento di 394.000 unità, il che porterebbe il tasso di attività (calcolato tenendo conto solo della popolazione femminile in età lavorativa) al 32.7% del 1990. La situazione italiana appare quindi più complessa di quella riscontrabile in altri Paesi. A che cosa si dovrebbe attribuire il diverso andamento della forza di lavoro femminile italiana prevedibile nei prossimi anni rispetto a quello registrato nel recente passato? perché le donne italiane dovrebbero assumere atteggiamenti diversi dalle donne degli altri Paesi nei confronti dei mercati del lavoro? La risposta a questi quesiti non è per nulla semplice. Senza dubbio, l’andamento della domanda di lavoro nel tempo si riflette in misura determinante su quello della forza lavoro femminile in Italia. D’altro canto però quest’ultima non dipende solo dalla domanda di lavoro. Occorre perciò passare dalle analisi economiche tradizionali, sui dati di offerta e di domanda di lavoro, a quelle che riescono a tener conto, in qualche misura, dei “comportamenti di attività” e dei condizionamenti socio-istituzionali di un particolare sistema economico in relazione ai diversi mercati del lavoro. In tal modo potremo allora verificare se le donne oggi possiedono “cinquecento sterline l’anno ed una stanza propria”, cioè hanno la possibilità, come sostiene Virginia Woolf, di partecipare attivamente ai cambiamenti della società e quindi anche di non essere più discriminate nell’ambito dei mercati del lavoro solo perché donne. Qual è quindi la capacità delle donne italiane ad intervenire nell’ambito dei processi produttivi?
Nel 1980 le donne in Italia erano 28.755.000. un po’ di più della metà (51,23%) della popolazione complessiva. Il 20% erano bambine sino a 13 anni, il 23% erano giovani donne tra i 14 e i 29 anni ed un altro 18% erano donne anziane che avevano superato i 60 anni di età; le donne adulte, cioè quelle che hanno un’età compresa tra i 30 e i 59 anni di età erano quindi solo il 39% di tutte le donne italiane. Inoltre l’89% delle donne in Italia possiede al massimo la licenza di scuola media inferiore, il 9% il diploma di scuola media superiore e solo il 2% la laurea. Al contrario, tra gli uomini si ha una percentuale minore per chi è in possesso di istruzione che arriva sino alla scuola dell’obbligo (l’86% degli uomini nel 1980 era senza titolo di studio, o aveva la licenza elementare, o aveva la licenza di scuola media inferiore) ed una maggiore nel caso del diploma di scuola media superiore e della laurea (11% degli uomini aveva il diploma di scuola media superiore e il 3% la laurea). Se si osservano poi le donne in base al loro stato civile, sempre nel 1980, in Italia, il 39.4% era nubile, il 50% coniugata ed il 10.6% vedova, separata, divorziata o già coniugata. Se più correttamente si calcola tale percentuale sulla popolazione delle donne in età attiva, tali percentuali risultano il 26% donne nubili, il 66% coniugate e l’8% donne “sole”. Gli uomini che hanno avuto esperienze matrimoniali ed ora invece sono “soli” risulterebbero in percentuale minore delle donne in entrambi i casi: 3% sul totale della popolazione maschile ed il 2% tra la popolazione attiva (14-70 anni); al contrario i celibi risulterebbero in percentuale maggiore (45% e 33% nella popolazione maschile compresa tra i 14 e i 70 anni). Per cui. il matrimonio è ancor oggi una meta importante per le donne.
Tuttavia, risulta anche una maggiore capacità delle donne a rimanere “sole”, rispetto a quella riscontrata tra gli uomini, una volta che tale matrimonio sia finito per i motivi più diversi. Infatti, tra le donne con più di 60 anni di età solo il 17% delle donne risulterebbe coniugata contro il 24% degli uomini. In ogni caso l’età del matrimonio si sarebbe elevata anche per le donne negli ultimi anni. Nel 1980 il 5% delle donne tra i 20 e 24 anni di età risultava coniugata (l’l% tra gli uomini), il 10% tra i 25 e i 29 anni di età (7% uomini), il 24% tra i 30 e i 39 anni (22% uomini), il 24% tra i 40 e i 49 anni di età (24% uomini) ed il 20% tra i 50 e i 59 anni di età (22% uomini). Il 70% delle donne che non si sono mai ufficialmente sposate di quelle in età attiva (14-70 anni) ha un’età che va dai 14 ai 29 anni; una percentuale alquanto simile è presente anche tra gli uomini (68%).
Le donne però si distinguono tuttora dagli uomini per la loro minore partecipazione ai mercati del lavoro. Sempre nel 1980, ben il 74% delle donne italiane non offriva ufficialmente lavoro ed il 64% di quelle comprese nella fascia di età che va dai 14 ai 70 anni di età contro il 45% degli uomini ed il 26% di essi se si considera solo l’età attiva. Chi sono le donne che non appartengono alle forze di lavoro in Italia? Nel 1980 erano 21.282.000 unità, di cui 13.356.000 avevano un’età compresa tra i 14 e i 70 anni. Si sa quindi che le donne che non offrono lavoro, in maniera ufficiale, sono 5.652.000 con un’età inferiore ai 13 anni e 2.275.000 con più di 70 anni di età. Quelle in età compresa tra i 14 e i 70 anni sarebbero invece: 1.891.000 tra i 14 e i 19 anni di età (il 14%). 824.000 tra i 20 e i 24 anni (il 6%). 841.000 tra i 25 e i 29 anni (ancora il 6%). 2.078.000 tra i 30 e i 39 anni (il 16%). 2.366.000 tra i 40 e i 49 anni di età (il 18%). 2.696.000 tra i 50 e i 59 anni (il 20%). 1.050.000 tra i 60 e i anni (l’8%) ed infine 1.610.000 tra i 65 anni e i 70 anni (il 12%). Le donne quindi non partecipano ai mercati del lavoro perché studentesse, perché coniugate (non si ha ancora l’informazione sul carico familiare di ciascun gruppo di donne), perché anziane. Infatti, tra le non forze di lavoro femminili in età compresa tra i 14 e i 70 anni, il 69% è dato da donne coniugate, il 22% non sposate ed il 9% attualmente “sole”. Se tra le donne appartenenti alle forze di lavoro il 20% è in possesso di diploma della scuola media superiore ed il 5% della laurea significa che le donne che non offrono lavoro hanno una minore istruzione ed “esperienza” lavorativa delle altre. Dai dati ufficiali non si rileverebbe infatti, il fenomeno del rientro nei mercati del lavoro una volta assolti i “doveri” della maternità, come invece appare nei paesi anglo
sassoni. Quali sono allora le caratteristiche delle donne che invece offrono lavoro in Italia? Come si diversificano da quelle che invece non vogliono partecipare attivamente ai mercati del lavoro o magari sono impossibilitate a farlo?

Le forze di lavoro femminili erano in Italia 7.473.000 unità nel 1980, di cui 7.425.000 unità in età che va dai 14 ai 70 anni (il che significa che ben 48.000 unità erano donne con più di 71 anni di età, di cui 32.000 occupate e 16.000 in cerca di lavoro). Tra le donne che invece offrono lavoro al di sotto dei 70 anni di età ben il 39% ha meno di 30 anni di età. Quest’ultime sono per il 63% nubili, per il 36% sposate e solo l’l% “sole”. La percentuale si abbassa al 24% per la classe di età compresa tra i 30 e i 39 anni ed al 20% per quella tra i 40 e i 49 anni di età. In queste due classi di età invece la grande maggioranza delle donne che offre lavoro è sposata: l’81% per le donne con un’età che va dai 30 ai 39 anni e l’80% per le quarantenni. Solo il 13% delle cinquantenni offre lavoro e si arriva addirittura al 3% per le sessantenni. Se si raffronta poi l’offerta di lavoro delle donne con quella degli uomini, in relazione al titolo di studio, si osserva che le giovani donne, cioè quelle al di sotto dei 30 anni, hanno un livello di istruzione più elevato di quello riscontrabile tra i giovani di sesso maschile: il 18% di esse era senza titolo di studio o possedeva la licenza elementare (tra i maschi ciò consisteva nel 23%), il 50% aveva la licenza di scuola media inferiore (il 53% per i maschi), il 28% possedeva un diploma di scuola media superiore (21% tra i maschi) ed il 4% erano laureate (3% per i maschi). Nelle altre classi di età vale lo stesso discorso per le donne in possesso del diploma di scuola media superiore e della laurea. Tuttavia si rilevano anche percentuali maggiori di donne nel caso di bassi livelli di istruzione. Per cui. si può sostenere che l’istruzione gioca un ruolo molto rilevante nel determinare l’offerta di lavoro femminile al di là dei condizionamenti derivanti dall’età e dallo stato civile. Le donne che offrono lavoro per il mercato in Italia agli inizi degli “anni ’80” sono quindi in prevalenza giovani, non sposate con un elevato grado di istruzione. Le altre donne invece, cioè quelle con più di 30 anni di età, sono in larga misura sposate. Queste ultime continuano ad avere un livello di istruzione più elevato degli uomini, pur essendoci una fascia rilevante di donne, in questo contesto, senza alcun titolo di studio o perlomeno con un livello di istruzione molto basso. Si può quindi sostenere che tra le forze di lavoro femminili emergono tre tipi omogenei di donne: le giovani, le donne con elevato grado di istruzione sposate, le donna a basso grado di istruzione sposate. Purtroppo non si hanno informazioni sui carichi familiari e sui livelli di reddito familiare per ciascun gruppo omogeneo.
Le donne sposate, non appartenenti alla forza lavoro, come si caratterizzano allora rispetto a quelle che offrono lavoro? Sono forse quelle con un numero di figli maggiore? Sono quelle che hanno un grado di istruzione medio-basso e che quindi accettano il lavoro solo a determinate condizioni? Sono quelle appartenenti a famiglie con un livello di reddito medio-alto? Sono quelle che partecipano all’attività per il mercato della famiglia o del gruppo di appartenenza? Sono quelle che vivono dove non esistono occasioni di lavoro? Sono davvero fuori dai mercati di lavoro?

L’andamento favorevole della domanda di lavoro porta ad “esplicitare” componenti di offerta di lavoro femminile potenzialmente già presenti nel sistema, e che in parte possono avere operato in precedenza alimentando gli spazi di sottoccupazione “implicita”. Il ruolo della domanda di lavoro in termini di “esplicitazione” dell’offerta si può cogliere in Italia nel 1979 sottolineando che. pur in presenza di un rilevante aumento di occupazione, risulta cresciuta sensibilmente anche la disoccupazione femminile “esplicita” (+ 88.000 unità) anche nella componente di ricerca di prima occupazione. D’altronde, l’offerta di lavoro femminile non dipende soltanto dalla domanda di lavoro. Vi sono fattori che. anche in Italia operano dal lato della offerta, provocando un intrico di rapporti tra domanda ed offerta di lavoro. Il significato dei fattori dal lato dell’offerta si può meglio cogliere dedicando attenzione alla struttura per età della crescita dell’offerta di lavoro femminile.
In alcuni Paesi industrializzati, l’espansione dell’offerta di lavoro femminile ha interessato anche le giovanissime sotto i 20 anni di età. È il caso degli Stati Uniti e della Spagna in cui si è avuto un rimarchevole aumento degli specifici tassi di attività nel corso degli “anni ’70” e si attende un ulteriore deciso aumento al riguardo nel prossimo futuro. Negli altri Paesi, invece, l’offerta di lavoro delle ragazze sotto i 20 anni di età è diminuita od almeno non è cresciuta (nel recente passato) ad un tasso superiore a quello di aumento della popolazione della medesima classe di età. Ciò può essere ricondotto soprattutto alla diffusione della formazione tra le giovanissime, al punto tale che. man mano che si raggiungono elevati livelli di scolarità, il fenomeno tende a scomparire, se non addirittura ad essere sostituito (come in Svezia e in altri paesi guardando al futuro) da un aumento dell’offerta di
lavoro da parte delle ragazze, sotto la spinta di fattori misti di domanda/offerta.
Nei confronti dell’offerta di lavoro delle giovanissime, l’insufficienza della specifica domanda di lavoro, tenuto conto anche del livello di studio raggiunto, rende particolarmente importanti i fattori dal lato dell’offerta, che riducono sempre più il passaggio delle giovani donne dalla condizione di studente alla condizione di casalinga. Ove manchi cronicamente la domanda di lavoro, la riduzione dell’offerta di giovanissime può nascondere la sostanziale espansione di forme di sottoccupazione “implicita”, che possono riferirsi in misura notevole a figure miste di studente/lavoratrice e casalinga/lavoratrice. L’esperienza italiana è un esempio tipico al riguardo: non a caso, la variazione di domanda di lavoro dal 1978 al 1979 giunge perfino a modificare il segno della variazione delle forze di lavoro femminili dai 14 ai 19 anni.
Comunque, le ricerche sul lavoro giovanile rivelano che la pressione dei fattori dal lato dell’offerta, che sospingono molte giovanissime a cercare lavoro anche a condizioni ritenute insoddisfacenti, tende a far crescere la relativa componente di disoccupazione/sottoccupazione anche in presenza di una contrazione della specifica offerta “esplicita”.
La problematica del lavoro giovanile conduce a considerare attentamente le donne con età dai 20 ai 24 anni. A questo riguardo, si registra già negli “anni’70” un più generale aumento assoluto e relativo dell’offerta di lavoro femminile. Ciò vale anche per l’Italia, dove però appare una particolare prudenza per ciò che concerne le previsioni per gli “anni ’80”; mentre in decisa espansione risulterebbe la specifica componente di offerta (sia negli “anni ’70” che negli “anni ’80”) negli Usa, in Svezia, in Francia e in Belgio. Non vi è alcun dubbio che l’espansione dell’offerta di giovani donne con età dai 20 ai 24 anni non riesce nei Paesi industrializzati ad essere fronteggiata finora con un’adeguata espansione della domanda di lavoro, nonostante che lo sviluppo delle attività terziarie abbia consentito un tutt’altro che trascurabile loro inserimento nel sistema produttivo. Ne risultano conseguenze importanti in termini di disoccupazione – sottoccupazione femminile a diverso livello di istruzione, e specialmente medio/alta.
L’espansione dell’offerta femminile dai 20 ai 24 anni risulta un fatto nuovo degli “anni ’70” che si è aggiunto al “trend” più radicato anche in precedenza per le donne con età maggiore. In particolare, è in atto e si prevede ancor più per il prossimo futuro un aumento notevole di offerta di lavoro femminile in età relativamente giovane (tra i 20 ed i 35 anni) e con carichi familiari rimarchevoli. Nel determinare il comportamento dal lato dell’offerta da parte delle giovani donne, secondo le ricerche effettuate sul lavoro femminile nei diversi Paesi, avrebbe un ruolo importante l’elevazione del livello di istruzione. Con un livello di istruzione via via più elevato, si registrerebbe una decisa tendenza all’inserimento delle giovani donne nel sistema produttivo, sia per la ricerca di un compenso agli investimenti in capitale umano fatti, sia per il mutato atteggiamento rispetto ai compiti di casalinga. A rafforzare questo atteggiamento hanno concorso lo sviluppo dei servizi sociali per i fanciulli e per gli anziani, la diffusione dei beni di consumo durevoli ad uso domestico, nonché la influenza della formazione sul coinvolgimento dei giovani maschi in talune funzioni tradizionalmente affidate alla casalinga.
Le resistenze culturali a questo riguardo in varie situazioni e presso molte persone di entrambi i sessi, l’inopportunità di acquistare elettrodomestici al di là di certi limiti, e soprattutto l’indisponibilità dei necessari servizi sociali per i fanciulli e gli anziani, avrebbero frenato decisamente l’espansione dell’offerta di lavoro, se non si fossero aperti spazi rilevanti per la diffusione di forme miste di casalinga/lavoratrice. Già a metà “anni ’60”. un’inchiesta effettuata in dodici Paesi aveva messo in luce che una parte rilevante del tempo delle donne, anche occupate, doveva essere destinato a lavori di casa e ad obblighi familiari. Il miglioramento dei servizi sociali fino alla metà degli “anni ’70” aveva lenito un poco la situazione. Le difficoltà dei bilanci pubblici, in un contesto di contenimento della spesa pubblica corrente a scopo anti-inflazionistico, hanno frenato la produzione di servizi sociali nella seconda metà degli “anni’70”, con prospettive tutt’altro che favorevoli per gli “anni ’80”. data la presenza di preoccupanti tensioni inflazionistiche. Ne discende che, guardando agli “anni ’80”. il “bilancio tempo” della donna occupata dovrebbe essere sostanzialmente diverso solo per il minor orario giornaliero medio di lavoro. in forza di modifiche intercorse nei contratti di lavoro o che si potranno ipotizzare (proprio con riguardo al tempo di lavoro) entro il 1985.
Alla luce di ciò, sembra probabile che l’alleggerimento dell’orario medio di lavoro non dovrebbe condurre, per le donne relativamente giovani, ad una maggiore esigenza di lavoro a tempo parziale, rispetto a quella che si è manifestata nel corso degli “anni ’60” e degli “anni ’70”. per far fronte alle funzioni familiari. Una possibile espansione del lavoro a tempo parziale, anche al di là del peso (già notevole nei Paesi scandinavi e nel Regno Unito) raggiunto nell’ambito dell’occupazione femminile nella seconda metà degli “anni 70”. potrebbe derivare dai seguenti fattori: a) dall’ulteriore diffusione di forme miste di lavoro/studio presso le giovanissime offerenti di lavoro; b) dall’atteggiamento delle offerenti di età avanzata; e) dalla concentrazione dei nuovi posti di lavoro in misura notevole presso le attività terziarie in cui (per aspetti strutturali e/o istituzionali) il lavoro a tempo parziale risulta spesso particolarmente concentrato specie là dove tale modalità di lavoro appare piuttosto importante.
Per quanto concerne le donne di età avanzata, non mancano in alcuni Paesi notevoli resistenze ad uscire dalle forze di lavoro per pensionamento (così come per i lavoratori maschi), mentre continua a registrarsi (sia pure in misura minore che 10-15 anni fa)
un’offerta di lavoro “di ritorno”, dopo un’interruzione per motivi familiari.
Ciò si ripercuote sui tassi di attività delle donne con età superiore ai 40 anni, che si rivelano in aumento in vari Paesi. Tende a ripercuotersi, guardando agli “anni ’80”, anche sui tassi di attività delle donne con età dai 55 ai 64 anni che in taluni Paesi tendono a rimanere abbastanza stabili, se non addirittura in aumento (come in Spagna e Svezia), nonostante la diffusione del pensionamento. Là dove, come in Italia, i relativi tassi di attività appaiono molto bassi, si ha ulteriore ragione di ritenere che vi sia una molto rilevante sottoccupazione “implicita” di donne avanti nell’età, con una probabile tendenza all’espansione.
Nei Paesi industrializzati, si è spesso sottolineato che il “ritorno” delle donne all’attività produttiva, dopo l’interruzione causata dagli impegni familiari, così come il richiamo a tale attività di donne ancora gravate da detti impegni in momenti in cui era necessario ottenere un maggiore flusso di offerta di lavoro per evitare “strozzature” allo sviluppo produttivo, avrebbe dato un notevole impulso al lavoro a tempo parziale. Tale impulso, da un lato, sarebbe provenuto dall’esigenza delle offerenti di lavoro di disporre di tempo sufficiente per continuare a svolgere le funzioni di casalinga, dall’altro lato dalla possibilità per la domanda di lavoro di effettuare tale lavoro a condizioni di costo per unità di prodotto convenienti, data la relativa debolezza contrattuale della specifica componente di offerta.

Per quanto concerne i servizi, è opportuno precisare che già all’inizio degli “anni ’70” notevole era la presenza delle donne nelle professioni relative a funzioni terziarie. Basti considerare il peso riscontrabile nei servizi vari e sul lavoro impiegatizio nei maggiori Paesi industrializzati. Dal 1970 in poi, l’espansione dell’occupazione terziaria ha avuto una marcata caratterizzazione femminile. In tutti i Paesi indicati nella tabella 10, l’aumento dell’occupazione femminile terziaria risulta molto notevole. In particolare, marcatissimo appare l’aumento di occupazione nei servizi pubblici/sociali/personali e, in termini relativi, nelle attività finanziarie, mentre tutt’altro che trascurabile risulta anche l’aumento (particolarmente notevole negli Stati Uniti e in Giappone) nelle attività commerciali in senso lato. L’aumento risulta rimarchevole, salvo eccezioni, anche in termini di “grado di femminilizzazione” delle attività terziarie. Ne discende che il peso dell’occupazione femminile è andato decisamente crescendo, sia relativamente all’occupazione maschile sia rispetto all’occupazione complessiva, specialmente nel caso di servizi in cui è stato facile introdurre ipotesi di lavoro a tempo parziale, oppure ipotesi (come nel caso di taluni servizi pubblici e sociali in Italia) apparentemente a tempo pieno ma in realtà ad orario nettamente inferiore a quello normale in altre attività. Occorre tuttavia osservare che, da un lato, l’espansione del lavoro a tempo parziale nelle attività terziarie è avvenuto, e continua ad avvenire, prevalentemente a condizioni che non sarebbero considerate soddisfacenti in contratti di lavoro con piena tutela normativa e contrattuale; dall’altro lato, la stessa crescente concentrazione del lavoro femminile nelle attività terziarie (o meglio nei servizi in genere) lo lega sempre più alla problematica che caratterizza tali attività. Si tratta di una problematica che investe sia temi molto importanti circa i rapporti tra struttura della domanda e struttura dell’offerta di lavoro, sia aspetti cruciali relativi al perseguimento del progresso tecnico nel corso degli “anni ’80” nei sistemi industrializzati, con le relative conseguenze in merito alla disoccupazione/sottoccupazione strutturale. Si è detto all’inizio che l’aumento assoluto e relativo dell’offerta di lavoro femminile alimenta continuamente le esigenze quantitative di nuovi posti di lavoro. Il fatto che la risposta, tra l’altro finora soltanto parziale, tenda ad essere prevalentemente concentrata nelle attività terziarie, rappresenta uno dei motivi fondamentali per cui la problematica del lavoro femminile sta diventando sempre più complessa e difficile da risolvere. Non si tratta soltanto di aprire nuovi spazi occupazionali, ma occorre prestare attenzione ai problemi posti dalle caratteristiche dell’occupazione già esistente.

(1) Con il termine donne “sole” si intendono quelle donne, classificate dall’ISTAT, come “altre” nella disaggregazione effettuata secondo lo stato civile. Si comprende in tale categoria le vedove, le separate, le divorziate e le già coniugate.