interventi

per una storia del lesbismo: la mia

un giallo storico consumato tra le adolescenti ignare di un collegio di fine ottocento, colpevole e vittima una di loro, quante altre complicità vivono ancora oggi le donne?

marzo 1982

L’insegnante belga licenziata per dichiarato lesbismo, la legge sulla violenza sessuale in pericolo d’essere peggiorata anziché migliorata, la fatica per difendere il Governo Vecchio (botte all’emarginazione lesbica che vi trova rifugio, taglio di fondi all’università delle donne ecc.), la manovra per sfrattare Pompeo Magno da via Pompeo Magno (con larvate minacce di portare al processo la lesbopolitica che una parte del collettivo svolge), minacce ovunque agli spazi delle donne, indigenza dei nostri giornali, dappertutto ormai la resistenza è così strenua che negli anni a venire chissà, le donne la ricorderanno come Resistenza (questo
10 sfondo per chi vive a Roma) e diranno io c’ero. io non c’ero.
Alla riunione del mio gruppo ieri sera, Vivere Lesbica, le compagne insegnanti mi sono parse più pallide delle altre mentre ci chiedevamo cosa fare dopo la vicenda belga. Anch’io sono stata insegnante, ma per poco e assai prima di avere una coscienza femminista, secoli prima di vivere la mia realtà lesbica, ora prima di farne lotta politica. Davanti a quel pallore ieri sera ho avuto due flash: uno verso l’anno 1972. uno verso il 1898.
Il ’72 fu l’anno in cui la prima insegnante lesbica italiana. Mariasilvia Spolato. Osò firmare il suo lesbismo con nome e cognome. Le femministe storiche la conoscono le giovani no.
Firmò i bollettini che redigeva e illustrava per il FLO (fronte di liberazione omosessuale da lei fondato), la prima poesia lesbica del neofemminismo italiano (su Fuori 1) e si lanciò a vivere, in una capsula-tempo iperconcentrata ed esplosiva, la scommessa di fare azione lesbica e femminista prima con quel suo FLO. poi nel Fuori, poi nel femminismo separatista, di vivere (subito) un rapporto felice non spaurito con una donna impauritissima che pure l’amava e di politicizzare (subito) le amiche tra cui c’ero anch’io (pre-femminista e tetragona alle forzature, se pure incline a infliggerne), il tutto essendo insegnante di matematica e autrice di libri di matematica. E andando incontro a rapide delusioni, scontri, a furie, all’estromissione dalla scuola, all’isolamento.
E poi l’altro flash su una certa M. della fine dell’800. che ebbe a che fare con una certa “inchiesta” psicologica datata 1898 sul lesbismo in età collegiale a proposito della quale ho già avuto occasione di dissentire, sulle pagine di “Quotidiano Donna”, dalla lettura che ne ha fatto una compagna. Quel libro mi è spesso tornato in mente, davanti al vitalissimo sconquasso che “Noi Donne” ha provocato nelle sue lettrici col pubblicare nel giugno ’81 la sua prima inchiesta sul lesbismo, sconquasso che comporta periodicamente l’emergere di inviti alle donne lesbiche a desistere dal fare politica e a darsi al medico, allo psicologo o al silenzio. Dirò quello che su quel libro del 1898 non ho ancora detto, una mia scoperta: esso non è un'”inchiesta”, è un falso scientifico e per giunta una specie di giallo, nel senso che contiene un crimine ben occultato della scienza psicologica allora nascente, così ben occultato che ci è voluta molta rabbia lesbica per venirne a capo. Ieri sera davanti al pallore addolorato delle mie compagne ho immaginato un ben diverso pallore sulle guance di quella M. di tanti anni fa.
Gli autori di quell'”inchiesta” (due lombrosiani. Obici e Marchesini), allora presentarono il libro così: abbiamo fatto un grosso lavoro, raccolto 300 lettere di ragazze in svariati collegi, interrogato varie insegnanti, ed ecco i materiali, ecco cosa si deve pensare del fenomeno. Il crimine non è tanto nella loro opinione (lesbismo uguale patologia, attenti a quello precoce platonico, può degenerare, infettare socialmente, radicarsi biologicamente, diventare ereditario, orrore al movimento politico degli invertiti — ce n’era uno nel Nord Europa — gli omosessuali cui resta un po’ di senso morale “battano alla porta del medico” ecc.). Il crimine non è tanto questo. È più nascosto. Lo scopri solo se metti insieme i pezzi delle lettere, confronti le sigle che sostituiscono il nome delle scriventi, rigiri il libro parecchie volte e capisci finalmente che non è vero che quella è un’inchiesta, che non sono lettere di molte ragazze a molte altre ragazze, che sono lettere di solo undici ragazze indirizzate ad una sola e medesima ragazza, appunto la detta M. Un gruppo di collegiali di un solo collegio, che si amano variamente ma soprattutto amano o hanno amato M. (la Maliarda?) nel giro di tre o quattro anni.
Un trucco degli autori per moltiplicare fittiziamente il numero delle scriventi è stato di moltiplicare le sigle apposte alle lettere. Così ad esempio Ines una volta è I.. un’altra è In., un’altra Ines Fuxia. B. (Bruna?) si raddoppia in Br., St. (Stefania?) in S. e via dicendo. Un altro trucco per nascondere che la ricevente è una sola, è stato mettere solo qualche volta la sigla M.. omettendola molte altre così da far pensare che di destinatarie ce ne fossero diverse. Ho fatto grafici, messo insieme tasselli, ricostruito classi, intrecci, amori. Non ci sono dubbi, quella è Una truffa. È un epistolario, e nemmeno recente ma risalente a decenni prima, appartenente a M.. lettere a lei indirizzate in più anni di collegio da compagne innamorate o ex tali. Ma il crimine non è questa frode scientifica, il crimine è nel modo come l’epistolario arrivò ai due medici. Quando l’ho capito ho provato una sorta di nausea. E stata la Maliarda in persona, divenuta adulta, a metterlo nelle mani dei due medici, accompagnandolo a un suo commento scritto: non su di sé, ma sulle altre (una volta parla di “due sudicione”) o sul “fenomeno”, prendendone le distanze in modo così furbesco, goffo, vile che mi chiedo quale paura di insegnante, quale pietosa voglia di piacere ai due psicologi le abbia fatto immaginare un tale tradimento di sé ragazza e delle sue giovani compagne, l’abbia spinta a farsi complice di un tale fatto.
“E non esiste, financo, una produzione autonoma di questi invertiti, che tentano giustificare la loro degenerazione e pretendono mettere l’omosessualità allo stesso livello morale dell’eterosessualità, vale a dire del vero e sano amore?” Alludevano, i due gaglioffi dottori, alla produzione scritta, politica, dei militanti del primo gay lib.
Nel 1972 quella degenerata della Mariasilvia elencava in un suo volantino rivendicativo: liberazione femminile, aborto libero e gratuito, contraccezione, sessualità consentita ai minori, omosessualità libera, educazione sessuale. Quest’ultimo è un tema su cui forse i gruppi lesbici dovrebbero dare battaglia, ci dicevamo qualche settimana fa a Vivere Lesbica. Quasi prevedessimo la burrasca belga. Quello era l’anno in cui Fuori informava che un congresso nazionale sull’educazione, a Cuba, aveva affermato “il carattere socialmente patologico delle devianze omosessuali”, proprio come nella Spagna franchista la legge dichiarava pericolo sociale “tutti coloro che compiono atti di omosessualità”. Mariasilvia, saputo che una giovane lesbica italiana era corsa fino in Olanda per cercarvi una neonata organizzazione omo, si chiedeva: “È giusto fare duemila chilometri per crescere?”
Lei voleva crescere e far crescere le altre subito, scolara e pedagoga impaziente. Quell’anno era sempre in moto. Padova. Milano, Roma. Torino. Parigi, con una borsona in cui trasportava (e spesso rovesciava a casa mia) messaggi manifesti ciclostilati libri e un canestro con la sua gatta. Io rimettevo tutto dentro la borsa, dicevo che volevo i ritmi miei. Mi guardava come fossi matta e forse lo ero. Impaziente ma lucida. Per esempio allora nel Fuori tutti facevano un gran proclamare, in funzione taumaturgico – incantato-ria, il binomio “femministe e omosessuali uniti”, ma lei vedeva bene che era una forzatura, un pio desiderio.
Stava col Fuori ma sul giornale scriveva: qui i froci non fallocrati sono pochissimi e le lesbiche, pochissime, dovranno andare a recuperare la loro identità nei collettivi femministi. Però per un breve periodo credette possibile formare gruppi di donne in ambito Fuori. Errore. All’epoca l’afflusso lesbico (sia pure velato) era tutto verso i gruppi femministi. Il movimento che s’ingrossava, impetuoso, seduceva di più. E probabilmente molte lesbiche allora scansarono il Fuori anche per un’altra ragione: non tanto perché lo reputassero fallocratico (analisi troppo avanzata per una donna ancora non femminista) né perché non amassero stare coi froci (molte di loro, me compresa, in privato ci stavano moltissimo) ma perché oso dire avvertivano il femminismo come più discreto rispetto al lesbismo, cautela che sono ben lungi dal condannare.
Il binomio dell’automatica alleanza donne-froci nel ’72 era portato avanti anche da una Nanda Pivano, che su Fuori scriveva del Gay lib americano ma mancava di soffermarsi su un fatto come questo: che i balli politici dei maschi gay in USA non erano mai disturbati, mentre quelli delle lesbiche (il primo fu nell’aprile del 1970) lo erano spesso: dalla mafia dei locali, qualcosa che ben conosciamo a Roma fin dal ’74, anno in cui fu aperto e rapidamente richiuso il locale lesbofemminista Giraluna. E lo coltivava anche la D’Eaubonne. cofondatrice del Fhar (il Fuori francese) la quale sosteneva per esempio che nei movimenti gay “la maggioranza è dei maschi senza dubbio a causa della repressione e della persecuzione più visibile per loro”. Nel mio collettivo (dove ancora io non ero), già notoriamente separatista, si tempestava contro l’omologazione facilona di quel binomio, ma donne come Lara Foletti andavano lo stesso Fuori e Filf (fronte italiano di liberazione femminile), magari a fare casino, a riaffermare il separatismo come sola politica possibile delle donne, però era sempre un atto d’amore e di profondo interesse, di un genere oggi diffuso tra gruppi diversi. E Fufi Sonnino poi, la cantautrice di Pompeo Magno, andava già dappertutto con la sua chitarra a provare le sue prime canzoni lesbiche. Ma mi chiedo se il ritardo con cui a Pompeo Magno si è cominciato a parlare di lesbismo (ben dopo il ’74, l’anno in cui arrivai io) non sia dovuto al fatto che in tutto il femminismo e anche a PM c’erano moltissime insegnanti e che molte lesbiche fanno le insegnanti. L’insegnante è forse la lesbica più ricattabile sul piano del lavoro. “Diventeranno le educatrici dei figli della patria”, scrivevano infatti i due medici della falsa inchiesta nel 1898, invitando a tener d’occhio le normaliste.
Ci furono anche, in quel ricco ’72, momenti duri. La rispettiva superbia militante. Quelle del Fuori invece di chiedersi che cosa non attirasse al Fuori le altre lesbiche commentavano con sprezzo: “Crederanno risolti o risolvibili i loro problemi col silenzio!”. Mettevano su un congresso coi loro maschi e poi pretendevano l’adesione delle femministe all’ultimo momento, senza averle chiamate alla preparazione. Non voglio parlare di ingenuità, perché di questo si parla anche troppo oggi rispetto al movimento, è quasi una nuova retorica. C’è anzi molto da imparare (se guardo le cose alla luce della situazione del mio collettivo, a dir poco tesa) da quel tira-e-molla tra lesbiche del Fuori, femministe separatiste, femministe marxiste, e lesbiche mimetizzate di entrambi i settori. Per esempio nel dire no alle donne del Fuori c’era differenza tra le marxiste e le separatiste. Le prime dicevano: non dobbiamo spaventare le “masse” di donne, sono ancora immature per il problema (c’era questo tipo di paternalismo, questa proiezione continua verso le povere masse). Le altre dicevano: non veniamo con voi perché vogliamo stare con le donne, con tutte le donne (c’era questa proiezione verso la nuova idea di “massa delle donne come sesso”, questo orgoglio di sesso, un po’ mito un po’ realtà come vedemmo fisicamente qualche anno dopo, quando andammo in cinquantamila per le strade). Aggiungevano le separatiste: venite voi da noi. sarete graditissime. Quelle del Fuori ribattevano alla marxista: perché questa tua fuga nelle masse? perché sei cosi angosciata dall’idea di ripartire da te stessa? Facevano interpretazione psicanalitica, cosa che a Pompeo Magno si evitava di fare anche se si era molto ostili alla proiezione sulle “masse”. Il separatismo preferiva colpire con un’altra accusa: “dipendenza psicologica dal maschio” o “dipendenza culturale”. E quelle del Fuori ribattevano a tutte le altre: “La verità è che non volete avere dubbi sulla vostra sessualità, volete fare le rivoluzionarie senza rinunciare a nessuna gratificazione etero”. Ciò veniva vissuto come l’equivalente di “Sotto sotto sei una lesbica, hai una latenza lesbica, non vuoi viverti”. E reciprocamente: “Ti vedo molto ruo-lizzata maschio, sei una succube del maschio, non vuoi liberarti”. E un po’ il problema del proselitismo, della paura dell’abbandono, del tradimento. E un po’ anche la voglia di scaricare su altri (persona o gruppo sociale) la responsabilità della rivoluzione definitiva. “La rivoluzione o sarà lesbica o non sarà”; lo ha scritto un omosessuale maschio, in un suo libro che peraltro stimo. In espressioni del genere sento sempre due cose che non mi piacciono, la seduzione e il ricatto. Nel ’72 le lesbiche del Fuori scrivevano: “Solo quando le etero avranno superato la diffidenza nei confronti delle lesbiche il processo alla fallocrazia sarà veramente iniziato”. Eppure a questa apodittica affermazione sento in me risuonare una corda profonda. La corda dell’utopia egualitaria. Sul finire del ’72 le donne del Fuori entrarono in crisi. Cominciavano a essere stufe delle assemblee, dei dibattiti, dei sexfestival dove i maschi continuavano a parlare “inglobando con la solita naturalezza anche noi”. Mariasilvia intervistando Simone de Beauvoir aveva una conferma delle sue intuizioni: “Quando c’è troppa differenza numerica, di fronte alla disparità psicologica che c’è di fatto è meglio che le donne escano dal gruppo e si riuniscano per conto loro”. Mariasilvia pubblicò un libro. I movimenti omosessuali di liberazione, che era una raccolta di documenti con prefazione di Dacia Maraini. e comprendeva due lunghe interviste a lesbiche, una ad Anna Koedt e un’altra a Maria, fatta dalla stessa Dacia. Sono ancora entrambe utili per cogliere il tenore del rapporto femminismo-lesbismo in quel momento. In una sua nota introduttiva Mariasilvia scriveva: “Se si vedono le cose dal punto di vista pratico non si può negare che quelli che portano avanti la rivoluzione sessuale sono anche degli ottimi militanti nei vari partiti di sinistra. E non si dica che la lotta per la rivoluzipne sessuale può distrarre dalla rivoluzione (come se il termine ‘sessuale’ avesse il sapore di irresistibile diversivo)…”
Questo brano dal tono arcaico mi rimanda di nuovo al 1898.
Concludendo il loro libro i due psicologi spiegavano che tra i pericoli della perversione c’era anche quello che essa induce a un egualitarismo disdicevole, del tipo che può piacere ai socialisti. Ottimo incentivo nell’antica Grecia per i militari (“tra i giovani della sacra falange non solo addolcì la loro dura esistenza dei campi, ma li spinse all’eroismo”) poteva portare nell’età moderna, soprattutto nell’ambito della scuola, a un’istruzione “antipaticamente uniforme” mentre quello che ci voleva era “una rappresentanza aristocratica dell’organismo sociale”; onde per evitare guai “il pedagogista futuro dovrà più dei nostri moderni educatori sorvegliare e tentare di sorprendere i primi sintomi delle illecite passioni per impadronirsene, per spegnerle in sul nascere, se esse avranno le stigmate perniciose dell’omosessualità sessuale”. Un compito per cui ancora oggi un’insegnante perversa come la compagna belga, la perversa insegnante Mariasilvia sono senz’altro poco indicate.
Quasi prevedendo il proprio licenziamento. Mariasilvia concludeva nel ’72: “…Si è visto allontanarsi dall’impegno politico, in modo opportunistico, i ‘rivoluzionari puri’ e i moralisti ‘al servizio del popolo’ in misura maggiore di quei militanti che tra i lazzi e gli scherni dei neostalinisti lottano per la rivoluzione globale pagando sempre di persona — dall’espulsione dal posto di lavoro alla prigione”. Un brano -arcaico per un verso, per un altro di bruciante attualità.