intervista
il luogo fermo del cuore
francesca sanvitale, una scrittrice che ha contribuito, forse involontariamente, alla causa delle donne, un percorso, il suo, ora dolce ora terribilmente crudele, dove si coagulano frammenti dell’esperienza vissuta
Uno degli slogans più significativi del movimento femminista è stato “riprendiamoci la vita”. Con la vita intendevamo la parola, la creatività, anche. Non a caso insieme ai gruppi di autoscienza e ai consultori, sono nate riviste e case editrici gestite da donne, sono proliferati convegni, gruppi di studio, interventi, saggi sul femminile, romanzi e diari, freschissimi o ripescati nei fondi di magazzino se non addirittura riesumati come reperti archeologici dopo secoli di dimenticanza. Evviva!
Ma il sentimento di questa conquista è scivolato, a volte, nell’euforia, l’euforia nell’equivoco, nell’approssimazione, o nell’eccesso di parole. Ed è pure capitato che la voce della testimonianza e l’esigenza della politica prevalessero sulla vena narrativa e sulla voce della poesia. Delle molte donne che hanno parlato e scritto in questi anni, alcune, a torto o a ragione, si sono conquistate una sorta di diritto di primogenitura e il ruolo di portavoce del femminile. Altre, invece, sono rimaste in disparte, ma hanno “assorbito” e hanno lavorato molto in direzione della propria interiorità e sono riuscite a tradurre quest’esperienza in opere di narrativa che, magari involontariamente, hanno contribuito alla causa delle donne. Francesca Sanvitale è una di loro.
Il suo successo è legato a Madre e figlia il romanzo che due anni fa ha ottenuto un grande successo di pubblico e di critica, si è piazzato terzo al Premio Strega, ha vinto due premi minori e oggi è arrivato alla quinta edizione. Non male, in tempi di crisi editoriale che spinge a ripubblicare, e rileggere, i classici, perché, tra l’altro, mancano autori nuovi. Il successo del suo romanzo però non è soltanto dovuto alla tematica “femminile” – la solitudine, la violenza e l’emarginazione che subiscono due donne legate da un rapporto d’amore complesso, in bilico tra tenerezza, possessività sfrenata e feroce egoismo – ma anche dalla qualità narrativa e da un disegno che dalla sfera del privato si allarga al mondo esterno, alla storia.
È stato il suo secondo romanzo. Il primo Il cuore borghese, un volumone di 400 pagine che affrontava la crisi dell’intellettuale attraverso il raffronto di un periodo di vita di due coppie, lo aveva pubblicato Vallecchi nel 1972 e aveva vinto il Premio Viareggio “Opera prima”. Dunque, calcolando i tempi di pubblicazione, assai lunghi per il primo, rapidissimi per il secondo, ci sono stati dieci anni di silenzio, interrotto verso la fine da due testi apparsi su “Nuovi Argomenti” che hanno tutta l’aria di esercizi di scrittura, esperimenti narrativi per incanalare il bisogno di “dire”, una volta sciolto il gruppo. Uno, Fanciulla e il Gran Vecchio, era una fiaba in cui si rivisitavano alcuni archetipi, l’altro, Parlando di Bambole, dì Cerbiatte e di Villa Borghese, un assemblage di testi brevi scritti in prima persona e aventi per soggetto il quotidiano: una conversazione con una donna più giovane, le riflessioni in margine ad un disegno emblematico di un’amica, una passeggiata nel parco.
Poi, dopo questi tentativi, è il flusso della memoria che sembra averla accompagnata, in un percorso ora dolce ora terribilmente crudele, fino alla conquista di un “luogo fermo del cuore” dove, mi è sembrato di capire, per Francesca si coagulano i frammenti dell’esperienza profondamente vissuta. Qui, in questo nucleo, c’è l’unica forza e l’unica difesa, perché è qui che nasce il sentimento della vita. Francesca in gonna a pieghe, blu o beige, camicetta e golf, al tavolo del suo ‘s ufficio in Rai, o in moviola; Francesca in pantaloni e pullover maschile, accovacciata comodamente su un divano, che a intervalli riordina gli oggetti sul tavolo basso; Francesca che esplode in risate fragorose, e seguita a riempire generosamente di whisky uno dei suo bellissimi bicchieri art déco; e ancora Francesca che armeggia maldestramente in cucina come in un posto sconosciuto. Insomma tutti i flash che mi vengono in mente a proposito di Francesca mi riconducono ad un luogo, la sua casa, la sua “stanza”. Si trova in Prati, ed è piena di libri, di bei mobili ottocento, di quadri, e di oggetti che, lo si indovina, sono stati scoperti per caso e subito fatti propri o cercati con amore. Portaritratti, lumi, conchiglie, brocche e boccali, scatolette. Paccottiglia e pezzi d’antiquariato. Ogni cosa è in ordine. Regna un’atmosfera di grande quiete rallegrata, sommessamente, da piccole macchie di colore incorporate nei materiali e nelle forme delle cose sparse un po’ dappertutto. Predomina il vetro, e per me che sono miope, l’effetto è un luccichio timidissimo, qua e là. Penso alle biglie dell’infanzia, e alla rassicurante presenza degli oggetti. È in questo guscio che Francesca Sanvitale si è confinata per riprendersi la parola.
Vorrei che tu rispondessi alle mie domande con sincerità, senza le difese, le reticenze che manifesti quando si affrontano argomenti quali le emozioni, i sentimenti…
Tu parli di difese, di reticenze, non è esatto. Quelle che sembrano difese, in realtà sono delle cautele, ed è una cosa diversa.
Perché fai una vita cosi ritirata? Perché lavoro otto ore al giorno, altre otto le dormo volentieri, ho un figlio, una casa, mi piace leggere e scrivere, come potrei trovare il tempo di “frequentare”? Naturalmente sono un pò polemica con chi mi rimprovera che sparisco dalla circolazione. Semplicemente sono una che fa quello che le piace.
Comunque, io credo che il rapporto don gli altri sia fondamentale per uno che scrive….
Senz’altro. Infatti non mi mancano i rapporti con gli altri: ho sempre lavorato con altre persone. La mia vita non ha niente di artistico. Vivo come tanti, tra il lavoro, qualche amicizia, una vacanza, delle passeggiate. Chi lavora con la penna, tu lo sai meglio di me, ha bisogno di tempo interiore per prima cosa e poi, anche, del rapporto con gli altri.
Quando hai cominciato a scrivere? Prestissimo. Il primo racconto, lungo una pagina e mezza di quaderno, l’ho scritto a dieci anni. Parlava di una bambina che usciva di casa di notte e nel giardinetto, dove di giorno giocava con i compagni, si costruiva una casetta di mattoni. Una volta finita, pensava di andarci non per abitarla ma per aver un luogo tutto suo.
Da adolescente tenevi un diario? No. Non l’ho mai avuto, perché non lo amo. Il diario stabilisce un’immobilità del tempo che non mi piace. Voler rendere immobile il moto dell’esistenza e il rapporto con gli altri è qualcosa che mi è estraneo.
Eppure nei tuoi romanzi hai afferrato e fissato certi frammenti, certe emozioni della tua esistenza. Il Cuore borghese forse era il presente, in Madre e figlia, il passato, quello più antico e quello più recente…. Non è la stessa cosa. Perché il diario ferma i momenti della nostra esistenza per creare qualche altra cosa. Si tratta di un’oggettivizzazione non di quei particolari momenti ma di sé, di un’utilizzazione di sé: diventare materiale e usarlo per fare un’altra cosa.
Continuiamo il racconto del tuo apprendistato….
Dopo il racconto della casetta, c’è stata un’interruzione. In effetti ho cominciato a scrivere con una certa continuità a partire dai quattordici anni, anche se il mio primo romanzo è rimasto fermo al primo capitolo. Si trattava di una passeggiata della protagonista per la campagna, però non ricordo come doveva svilupparsi e d’altronde l’ho perso. In quel periodo, ho tenuto un diario, eccezionalmente, per sei sette mesi. C’era la guerra, e io facevo dei turni per controllare dall’abbaino sul tetto se per caso dagli altri tetti ci fossero partigiani che sparavano ai tedeschi. Il nostro quartiere era l’unico rimasto in mano ai tedeschi ed era già successo che dal tetto sparassero ai tedeschi, sapevamo che se fosse successo ancora avrebbero bruciato la casa. Allora, in quell’occasione, durante il mio turno, portavo dietro un diario e scrivevo le mie impressioni.
Fin qui l’adolescenza. Quando hai cominciato a pensare di scrivere con un intento letterario?
Verso i diciott’anni. Ho scritto dei racconti che qualche anno dopo ho pubblicato su “Il Raccoglitore di Parma”. Altri, con uno pseudonimo, sono apparsi su “Il giornale del mattino” di Firenze, al quale ho cominciato a collaborare appena laureata.
Parliamo di lavoro… Mi sono dedicata al giornalismo, invece di proseguire le ricerche filologiche avviate con la mia tesi su Franco Sacchetti. Ho lavorato alla “Nazione”, a “Tempo illustrato”, alla Rai dove poi sono stata assunta.
Hai cambiato mestiere… Sì, non ne potevo più di fare la giornalista, perché scrivere per vivere, il mestiere di pubblicista, senza uno stipendio fisso, è il più infernale che ci sia. Ero esasperata quando mi toccava fare due o tre articoli a settimana, perché non riuscivo ad approfondire ogni argomento che toccavo. In Rai, i primi due anni ho scritto delle sceneggiature, e mi è piaciuto molto.
“il diario stabilisce un’immobilità del tempo che non mi piace…”
Non hai pubblicato nulla, però. L’assenza di scrittura coincide con un periodo particolare?
Mi sono sposata, ma questo non lo metto in relazione al non scrivere. È il lavoro che in particolare mi aveva assorbito. E poi, credevo di non voler più scrivere. Perché mi sembrava troppo faticoso, non avevo un buon rapporto con quello che volevo dire. Non avevo le idee chiare. E per anni non ho scritto.
Che rapporto c’era tra quello che hai pubblicato e quello che è rimasto nei cassetti?
Io non ho mai tenuto niente nei cassetti, ho sempre pubblicato tutto. Anche grazie alla spinta degli amici. Ho sempre avuto un rapporto reticente con quello che scrivevo, paura, perfezionismo, scontentezza per il risultato, ma ho sempre trovato delle persone che mi hanno consolato e incoraggiato.
Un’opera non tanto di convincimento quanto di rassicurazione.
Perché hai intitolato il tuo primo romanzo Il cuore borghese? È un titolo ideologico, che oggi non darei più, per indicare i sentimenti propri della borghesia o il nucleo di sentimenti della borghesia.
Come mai sono passati dieci anni prima di arrivare a Madre e figlia? Dopo quel libro non ho più scritto. Per quattro anni. Ed è stata la pausa più lunga, tanto da sembrare definitiva. Questa volta sì, sono intervenute varie cose che mi hanno bloccato. Prima di tutto era quel libro che esauriva in sé un’esperienza, era un po’ come se per quella strada non si potesse fare altro che cambiare, perché era un libro molto cerebrale. C’era bisogno di un’evoluzione. E poi sono intervenuti altri fatti, il lavoro pesantissimo di una rubrica, che è durato tre anni, poi la malattia di mia madre che mi ha assorbito moltissime forze, prima e dopo. Poi, dopo un periodo di grande stanchezza, di impossibilità, è venuto fuori Madre e figlia.
Alcuni riferimenti, e alcuni passaggi tra II cuore borghese e Madre e figlia, permettono di ricostruire una storia di Sonia, figura femminile che ha molte probabilità di somigliarti, per l’età, i luoghi, il contesto sociale e culturale. Eppure tu, a chi ti intervistava la sera del Premio Strega, hai detto che assolutamente no, non c’era nulla di autobiografico. Perché?
Probabilmente quella sera sarò stata particolarmente drastica, perché volevo essere anche polemica verso la curiosità sulla vita dello scrittore. Penso che abbia pochissimo interesse sapere se è vera da capo a fondo la storia di Madre e figlia, se combacia con la mia o no. A me interessa che le persone che sono dentro al romanzo siano vere in quanto personaggi, perché nessuna realtà attrae se non diventa finzione, in letteratura. Chi vuole ad ogni costo trovare, stabilire qual’ è nel romanzo l’elemento autobiografico non ha chiara l’idea di che cos’è nel romanzo l’elemento autobiografico, non ha chiara l’idea di che cos’è la letteratura. Tutti gli scrittori usano la propria autobiografia, perché è l’unico mezzo che hanno per arrivare alla realtà, guardare a se stessi, ma per farne un’altra cosa. Certo, sono d’accordo con te, ma non puoi negare che uno dei filoni della letteratura contemporanea sia proprio quello autobiografico e che per le donne sia stato importante. Prendi Marie Cardinal, o Anais Nin, o anche la De Beauvoir che qualche anno fa, pubblicando il suo primo romanzo, Lo spirituale un tempo, non ha avuto difficoltà a confessare quanto ci fosse di autobiografia.
Comunque dato che questo è un tasto così sensibile, lasciamo stare. La mia domanda era piuttosto se scrivere di esperienze tue è servito a liberarti magari da certe angoscie, certe fissazioni. Scrivere di te, ha avuto una funzione? Tu sbagli ancora. Non si tratta di scrivere di sé, ma di utilizzare il sé per scrivere. Lo fanno tutti gli scrittori. Io ho utilizzato me e mia madre ma questo non significa che ho scritto di me e mia madre. Certo mi è servito a liberarmi di certi fantasmi.
Ma è proprio questo che io ti chiedevo, che volevo sapere. L’hai detto: utilizzando certi elementi della vita, è servito a liberami dei fantasmi… Il fantasma più importante è il desiderio di raccontare, e non soltanto la storia di Sonia e sua madre ma anche il loro rapporto col mondo. Io volevo raccontare anche il senso di un’educazione, di una società sotto il fascismo, e questo non ha nulla a che vedere con il rapporto più o meno viscerale con mia madre. Segno che io, nell’affabulazione, voglio anche scoprire da che cosa mi devo liberare, che cosa devo accogliere per realizzare me stessa come persona umana.
Prima ti arrabbiavi quando usavo l’espressione: racconti te stessa. Vedi però che stai dicendo che l’impegno della scrittura è servito a capirti. Questo serve a tutti. Quasi tutti scrivono per questa ragione.
Non quasi tutti, molti. Che rapporto hai con la pagina bianca? Bruttissimo. La pagina bianca non mi ispira quella gioia che dovrebbe ispirarmi. Sarebbe molto bello se fosse come un gioco: avere una pagina bianca, tante matite colorate e la possibilità di farci sopra tutti i segni possibili e immaginabili come per gioco. Invece questo non si dà. Ci viene data una penna, una matita, un foglio bianco, ma le prime parole sono sempre un momento molto difficile
Una vita così ordinata come la tua, scandita tra il lavoro, l’impegno letterario, il ruolo di madre, qualche amico è una scelta felice o una necessità? Insomma, sei contenta di questa tua quieta solitudine?
Io sono abbastanza contenta della mia esistenza, vorrei avere più ore a disposizione. Il fatto è che sono persa così tanto dai miei interessi che ho bisogno di concentrazione, di tempi e di spazi. Io non sono una che è sola. Lo sono quando lavoro. Certo, lavoro per la maggior parte del tempo, quindi sto sola, ma la solitudine è un’altra cosa. In realtà appena non lavoro io sono pronta ad essere felice con gli altri.
Ma non è pesante una vita basata soprattutto sul lavoro? No, sugli interessi, è diverso. Sul pia-no degli interessi è la cosa più bella che ci sia, forse tutti cerchiamo di realizzare una vita che davvero faccia coincidere lavoro e interessi.
Io penso che bisognerebbe aggiungere sentimenti e piacere… Beh, allora Barthes ti insegna che il piacere è quello della scrittura… Dai, sappiamo bene che è un piacere perverso! Un momento lo paghi dieci ore di tormenti…E poi ci sono altri piaceri, perdere tempo, per esempio. Pazienza! Del resto l’esistenza non viene avanti, non la fai se non vuoi soffrire. Non è solo la scrittura. Lo stesso cambiamento dell’esistenza richiede sempre una buona dose di sofferenza.
Vedi, io immagino che tu sia stata una ragazza impulsiva, disordinata, appassionata, magali capace di mollare delle cose per farne altre, capace anche di lasciarsi andare, e che poi ad un certo punto questo atteggiamento nei confronti del mondo, questa vitalità abbia subito un colpo. Come se qualcosa si fosse spezzato… Può darsi. Comunque io non sono diversa dalla ragazza che tu ha descritto tranne che io non sono mai stata disordinata. Il desiderio di esperienza, di cambiare strada ce l’ho sempre avuto e, sento, mi è rimasto. Tu vedi la mia come una vita che non cambia, monotona?
“ho sempre avuto un rapporto reticente con quello che scrivevo, paura, perfezionismo,
scontentezza…”
Non vedo la monotonia, vedo una ricerca di protezione nella scrittura, come in un guscio.
Non è un guscio, non sono protetta da niente. Io ho una passione, e cerco di darmi ad essa.
Va bene, va bene… Ora sarò indiscreta, voglio essere indiscreta. Da quando ti conosco, non ti so occupata da un amore – che io non lo sappia è un particolare irrivelante, lo riconosco. Nei tuoi romanzi, il rapporto con l’altro, l’uomo, è vissuto come difficoltà. In Cuore borghese il rapporto di coppia sta scivolando nel silenzio e nell’assenza d’amore. In Madre e figlia Sonia ha una carica di sentimento, una “qualità” superiore al suo partner. Di qui la sua sofferenza. Fanciulla e il Gran Vecchio esordisce con la constatazione da par-te della protagonista che il suo compagno di giochi è “svanito” insieme al giardino. Insomma, il rapporto d’amore appare legato, sempre, a una grossa frustrazione.
Corrisponde a quello che penso, cioè che il rapporto di coppia sia il più difficile perché non è quasi mai paritario, è sempre dominato o da una sopraffazione o da un accordo, un intreccio di motivazioni. È un legame, non è quasi mai un rapporto di esperienza reciproca oltreché di amore e di amicizia. La coppia è immobilità, chiusura verso il cambiamento dell’esistenza. Quindi, laddove nella coppia uno vuole opporsi al cambiamento dell’altro, il rapporto diventa infernale. L’ideale sarebbe la coppia in cui uno cambia con l’altro, segue, accetta le esperienze anche complicate dell’altro, e non intendo necessariamente quelle sentimentali. Insomma lo ritengo il rapporto più complicato, e moltissime volte negativo.
Oggi in particolare, o pensi che sia sempre stato così?
Penso che sia proprio una condizione dell’esistenza. Bisogna accordarsi e io probabilmente non lo accetto più.
E la tua maternità? La mia maternità va benissimo. Non saprei cos’altro dire. Ho desiderato questo figlio e lo amo.
Ma c’è stata un’evoluzione in questo rapporto mi sembra. Una volta mi hai detto che quando Enrico era piccolo provavi un certo disagio che vincevi e mediavi con le istitutrici montessoriane.
Si, è vero. I primi anni di vita ho cercato di fare il meglio nei confronti del bambino, affidandomi a degli schemi educativi che frenavano l’istinto, ma la situazione si è modificata abbastanza presto.
E successo qualcosa che te lo ha fatto capire?
Forse sono cambiata io, ed è per questo che ho avuto bisogno di stabilire con mio figlio un rapporto di maggiore libertà. Avendo io una vita più libera e un rapporto diverso col mondo esterno ho avuto anche un rapporto migliore oltre che con me stessa, con lui.
Tu, perché eri cambiata? Perché ho capito finalmente che dovevo realizzare la mia passione, darmi a quello che mi piaceva fare.
Quali difficoltà hai incontrato per arrivare a questo? E attraverso quali tappe?
Le tappe sono sempre le stesse, il lavoro, il tempo, l’amore, attraverso le quali si trova un’identità propria e sociale. Per una donna sono tappe più difficili perché anche realizzata nel lavoro, una donna che vuole scrivere ha bisogno di una solitudine, di una accentrazione su di sé. Invece una donna, nella sua esistenza quotidiana, è quasi costretta a non accentrare l’attenzione su di sé. Qualunque strada artistica si intraprenda, non si può essere altruisti, specialmente nel periodo della propria evoluzione. È raro che una donna innamorata accentri l’attenzione su di sé. Tu che ne pensi?
“ho rinunciato ad un compagno… mi sono messa nella condizione di non averne bisogno”
Che è molto difficile, ma che oggi molte donne ci provano, ad essere innamorate senza perdere di vista se stesse. Oppure si ribellano e rompono il rapporto.
Prendi una donna che ha una famiglia, istintivamente non accentra il proprio interesse su di sé. Trova dei pertugi, dei piccoli spazi ma non ha una stanza tutta per sé. L’espressione è diventata uno slogan da quando l’ha usata Virginia Woolf ma non ce l’ha nessuna in fondo. O almeno è raro.
Tu ce l’hai oggi questa stanza tutta per te…
Io ho uno stanzone!
E a che prezzo?
Prima di tutto ho rinunciato a un compagno, e dirlo mi dispiace, o perlomeno se non è stata una rinuncia, forse non è la parola’ giusta, mi sono messa nella condizione di non averne bisogno.
Io non credo che si possa dire di non avere bisogno di un compagno o magari di una compagna, perché il desiderio dell’altro mi sembra un fatto naturale. Forse, se ne può compensare il bisogno, l’assenza.
Non lo so. Comunque io fin da ragazza tutto questo bisogno non l’ho mai provato in modo tanto forte.
Perché?
Non lo so, non lo so. È già così ricca l’esistenza!
Naturalmente, scrivi… Naturalmente.