psicoanalisi
la donna il perturbante e la paura
tutto ciò che freud avrebbe voluto tenere nascosto, affiora, suo malgrado, nell’analisi, che cosa c’è dietro la paura del perturbante che assale il grande medico al pari dei suoi pazienti?
L’unicapassione della mia vita è stata la paura.
T. Hobbes
La riflessione sull’estetica intesa non più come “teoria del bello del nostro sentire” ma come “teoria della qualità del nostro sentire”, che compare nel perturbante (Das Unheimliche, 1919J freudiano, si spinge ben oltre una riflessione pura e semplice sull’oggetto artistico: infatti, riletto oggi, alla luce di considerazioni che pongono alla base del linguaggio in generale, come di quel particolare linguaggio rappresentato dall’arte, un “corpo pulsionale” (Kristeva), “un territorio materno” (Irigaray), da cui entrambi trarrebbero sia l’impasto semiotico che la forma, il perturbante esibisce una sincerante consonanza con alcune recenti formulazioni che indagano nel testo come corpo, giungendo a rintracciare nel femminile (inteso nella sua accezione più allargata di area semantica) il luogo originario da cui trae matrice il senso.
Ma per Freud che lo scriveva, nel 1919, Il perturbante doveva essere una ricerca “su una determinata sfera dell’estetica…negletta dalla letteratura specialistica”, uno studio su quel “nucleo particolare” che il perturbante sta a rappresentare nella più vasta area dello spaventoso, niente di più. Tutto quello che il saggio contiene di profondamente implicante, per lui che scriveva allora e per noi che lo leggiamo oggi, traspare soltanto se si mette in atto nei suoi stessi confronti quella “tecnica del sospetto” a cui la psicoanalisi stessa ci ha avvezzato e a cui ha aperto la strada.
Costituzionalmente implosivo, infatti, il discorso freudiano si è fondato sulle stesse contraddizioni che via via andava facendo saltare (l’edipo, il “romanzo familiare” dei nevrotici): anzi, la contraddizione è diventata il fulcro ermeneutico nel momento in cui sia la teoria del sogno che quella dell’analisi mettevano in evidenza il potere decisivo, per la decifrazione sia dell’uno che dell’altra, della negazione, come principio che contraddice le “regole di verità” su cui la logica formale classica si fonda. Il nevrotico, dice Freud, nega ciò che vuole tenere celato. No, non lo amo vale per sì, io lo amo. (cfr. memorie di un malato di nervi di D.P. Schreber, in Effe n. 3). Non si può non riconoscere alla negazione così intesa un alto potere deterrente rispetto a quello che sono le varie barriere che l’inconscio interpone tra sé e una sua penetrazione fatta attraverso gli strumenti della logica classica, insieme a un forte potere di smascheramento del “resto” inconscio che rimane dentro ogni operazione logica, tanto che ci si sente spinti e incoraggiati ad entrare nel testo stesso freudiano per ricercarvi ciò che la sua “lettera” palesemente vi nega. Il “femminile” sta a questa lettera come l’irrapresentabile sta al linguaggio: limite, corpo semiotico j contro cui prende forma il segno. Freud stesso (a cui Berta, Irma, Dora avevano in realtà aperto la strada per la decodificazione del desiderio, delle sue leggi e delle sue marche), pur riconoscendo al “femminile” un potere formidabile rispetto alla costituzione del senso, proprio per questo ne lasciava un’indagine più perspicua ai poeti, ritenendolo impenetrabile per il discorso analitico.
Nel ’32, pochi anni prima della morte, Freud, rispetto all’ “enigma” della femminilità si dichiarava pubblicamente sconfitto: “… Se volete saperne di più sulla femminilità, voi uomini, o rivolgetevi ai poeti oppure attendete che la scienza futura possa darvi in ^ proposito ragguagli meglio approfonditi e più coerenti” (Introduzione alla psicoanalisi, lez.32), dimenticando con questa resa d’armi di essersi avventurato nel ’19, proprio con II perturbante, nell’estetica, il territorio dei poeti, e di aver detto quindi forse, rispetto alla “scienza futura”, più di quanto in realtà non avesse voluto. Non a caso, infatti, è proprio in una negazione che ci imbattiamo quasi in apertura del saggio: “(…). La difficoltà che emerge nello studio del perturbante… è che la sensibilità verso questa qualità del sentire è sollecitata in maniera diversissima da individuo a individuo. Anzi, l’autore del presente saggio deve accusare una particolare sordità in proposito, laddove occorrerebbe una recettività particolarmente acuta. Da parecchio tempo non ha vissuto direttamente e non è venuto a conoscenza di nulla che potesse suscitare in lui il sentimento del perturbante (…)”.
l’antica patria dell’uomo
E ‘ sconcertante rilevare come il lavoro della rimozione anche in Freud si fosse spinto a tal punto da non fargli intendere quale fosse la qualità della sua negazione quando affermava di “non aver vissuto da parecchio tempo” il sentimento del perturbante. Già altrove definito “continente nero”, il “femminile”, infatti, emerge gradatamente in questo luogo dell’analisi freudiana come la condizione stessa del perturbante, il suo luogo di nascita e, se così si può dire parafrasando il testo, la sua patria (Heimat). Così leggiamo nelle ultime pagine del saggio: “(…) A conclusione di questa serie certo incompleta di esempi, dobbiamo citare un’esperienza che traiamo dal lavoro psicoanalitico e, che se non dipende da una coincidenza casuale, fornisce il più valido supporto alla nostra concezione del perturbante. Questo perturbante (Unheimliche) è però l’accesso all’antica patria (Hei-mat) dell’uomo, al luogo in cui ognuno ha dimorato un tempo e che è anzi la sua prima dimora, — Amore è nostalgia — dice un ‘espressione scherzosa, e quando colui che sogna una località o un paesaggio pensa, sempre sognando: — è lecita l’interpretazione che inserisce al posto del paesaggio l’organo genitale o il corpo della madre. Anche in questo caso, quindi, unheimlich è ciò che un tempo fu heimisch (patrio), familiare. E il prefisso negativo ‘un ‘ è il segno della rimozione”.
“(…) Chi potrebbe dire: — Scrivo per non aver paura? —”si chiede Barthes in qualche luogo de II piacere del testo. Forse, nel 1919 Freud avrebbe potuto a ragione dirlo, se spinge la ricerca del termine ‘perturbante’, “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”, dentro il tessuto delle altre lingue per ricavarne la conclusione che in molte lingue manca un termine che definisca questa particolare sfumatura dello spaventoso. Tale fatto porta Freud ad accettare pienamente il senso stratificato e composito di unheimlich rintracciato da Schelling: ‘Unheimlich, dice Schellign, è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere nascosto ed invece è affiorato ‘ “.
la madre e il suo doppio
Va qui sottolineato che, con l’intuito di chi ha istituito con la parola un suo rapporto particolare e segreto — l’intuito dello scrittore —, Freud intravede con molto anticipo, rispetto alle considerazioni sull’oggetto letterario che oggi si vanno svolgendo, che solo la lingua madre contiene il senso della madre e può restituire con un solo aggettivo (nel caso specifico unheimlich) tutta un’intera storia di sensazioni, di gesti, di suoni: storia che, nella lingua, lega il soggetto alla sua origine profonda; storia che il soggetto per esistere come tale e non come doppio della sua matrice, deve dimenticare, ma di cui la lingua reca la traccia (…)(“E il prefisso negativo ‘un ‘ è il segno della rimozione”).
Diciamo di più: un non è solo il segno della rimozione o meglio, è anche il segno della rimozione, ma porta in luce innanzitutto la marca del divieto dell’incesto di cui la rimozione è solo il prezzo. E’ un contrassegno di divieto di accesso, di tabù arcaico che il corpo della donna da sempre nella nostra cultura sta a rappresentare per l’uomo (e per se stessa): il segno dunque che marca tragicamente la condizione dell’esistenza del femminile nel tessuto immaginario, da una parte vittoriosamente legata al sacer e dall’altra (proprio per questo) inevitabilmente tabù, perenne rimosso.
“Il femminile è il rimosso della storia” ebbe a dire Juliet Mitchell in Psicoanalisi e femminismo, e il posto che la donna occupa, perlomeno all’interno del discorso freudiano, sembra in tutto darle ragione.
Ma perché questa inesorabile rimozione?
Qualche congettura in proposito si può fare spingendosi nella lettura de II perturbante, questo testo in cui si dovrebbe parlare della paura o per lo meno di una qualità particolare di paura, e che giocoforza diventa, per l’equazione che esso stesso al suo interno stabilisce tra perturbante-femminile, una verifica (magari cifrata) dell’evidenza che il “femminile”, a dispetto della rimozione che l’ha collocato nel discorso freudiano come “enigma”, “continente nero”, occupa in questo stesso discorso un posto particolare, laborioso da rintracciare sotto i dinieghi e le coperture, ma non per questo meno decisivo e fondamentale (come del resto mostrano gli studi sull’isteria) in quanto strettamente connesso con la formazione originaria del senso. Il sentimento del perturbante infatti nasce — e il testo lì lo afferma, vedremo, e lì lo nega — nel momento in cui il soggetto recupera di colpo l’evidenza di appartenere ad un nucleo originario (la madre) di cui rappresenta una sorta di doppio vivente e a cui non può ritornare.
Esemplare in questo senso è l’analisi del doppio contenuta nel saggio, che viene a comprovare il sospetto che in Freud ci fosse una profonda intuizione della vastissima portata semantica del femminile e un’altrettanto forte tendenza a seppellirla o, perlomeno, a confinarla ai bordi del discorso analitico. Il sosia, infatti, a ben leggere, è la figura a cui più di ogni altra compete l’evocazione del perturbante. Questa figura, come rappresentazione interna, sorge “sul terreno dell’amore illimitato per se stessi, del narcisismo primario che domina la vita del bambino.
alla ricerca della soddisfazione perduta
Lo stadio del narcisismo primario — se il saggio non lo dice a chiare lettere possiamo ricavarlo però da un altro scritto freudiano, Introduzione al narcisismo, che lascia pochi dubbi in proposito — può considerarsi come la matrice semiotica della storia soggettiva nel momento in cui le imprime il contrassegno, per quanto concerne il godimento, dell’unità del corpo del figlio e di quello della madre. Il senso si erge contro questa barriera di indistinto, come scacco del desiderio rimosso che ritorna sui suoi passi, all’origine di una soddisfazione antica e di una pienezza perduta.
le strade sconosciute e deserte
Quanto tutta questa vicenda fosse rischiosa per Freud che se ne andava occupando (non guasta qui dire “inconsciamente”), come per lui portasse innegabilmente il segno del sesso (femminile) tanto da associarla alla degradazione e alla morte, lo mostrano due esempi di perturbante che lui stesso ci fornisce: il primo riportato (nonostante la negazione iniziale) come esperienza personale propria, il secondo rintracciato in un più generale patrimonio fantastico: … “Una volta, mentre percorrevo in un assolato pomeriggio estivo le strade sconosciute e deserte di una cittadina italiana, capitai in un quartiere sul cui carattere non potevano esserci dubbi. Alle finestre non si vedevano che donne imbellettate e mi affrettai a svoltare appena possibile abbandonando la stradina. Ma, dopo avere vagato senza meta per un bel po’, improvvisamente mi ritrovai nella medesima strada dove la mia presenza incominciò ad attirare l’attenzione e la mia rapida ritirata ebbe un’unica conseguenza: dopo qualche giro vizioso mi ritrovai per la terza volta nel medesimo luogo. A questo punto mi colse un sentimento che non posso definire altro che perturbante. (…)”.
“(…) Alcuni vorrebbero attribuire la palma del perturbante all’idea di venir seppelliti in stato di morte apparente. Se non ché la psicoanalisi ci ha insegnato che questa fantasia terrificante non è che la trasformazione di un ‘altra fantasia, che non aveva in origine nulla di spaventevole, ma che anzi era il portato di una certa lascivia: mi riferisco alla fantasia della vita intrauterina… “.
La traccia dell’equazione perturbante=femminile, comunque, non viene seguita e svolta nel corso del saggio; è piuttosto un’intuizione, uno spunto improvviso subito abbandonato dal discorso critico che si dedica invece diffusamente a una seconda apparentemente più proficua equazione: perturbante = angoscia di castrazione, non meno rischiosa in verità, anzi tanto rischiosa da rappresentare una valida copertura della “scoperta estetica” che unisce, in un unico sentimento, il perturbante appunto e l’amore e la nostalgia per il corpo (vietato) della madre.
Così l’analisi del racconto di Hoffmann, Il mago sabbiolino, che Freud intraprende è tutta segnata dallo sforzo di rintracciare nella vicenda di Nathaniel, il protagonista, esclusivamente l’angoscia di castrazione, e di fare scaturire da questa il sentimento perturbante che il racconto dovrebbe comunicare al lettore.
Ma l’ “amore” e la “nostalgia” per l’antica patria, per il corpo della donna — e la loro rimozione — continuano a segnare ciononostante la scrittura del saggio tanto che il vero oggetto perturbante del racconto hoffmanniano, la bambola meccanica Olimpia — concretizzazione materiale del fantasma del doppio — di cui Nathaniel è disperatamente innamorato, viene quasi passato sotto silenzio. Gli viene comunque dedicato un breve spazio all’interno di una lunga nota. E su questo reticente commento, quasi sfuggito all’interno di un discorso che porta altrove (al padre), occorre soffermarsi, là dove Freud dice: “Olimpia è per così dire un complesso distaccatosi da Nathaniel che gli si fa incontro come persona; quanto egli sia dominato da questo complesso è espresso dall’insensato e ossessivo amore che egli nutre per Olimpia. Possiamo ben definirlo un amore narcisistico, e comprendiamo che colui che ne è preda si estranei dall’oggetto d’amore reale… “. Poche righe più sopra si dice che “…
Questa bambola meccanica non può essere altro che la materializzazione dell’atteggiamento femmineo di Nathaniel verso il padre”.
il pericolo dell’estremo naufragio
Ecco dunque smascherata la radice profonda del perturbante: la comparsa del femminile per se stesso produce un “lavoro” interno che riattualizza la posizione narcisistica del bambino verso la madre, l’identificazione totale con «il primo oggetto d’amore. Tale posizione, inequivocabilmente femminile come portata semantica, è sentita nel suo riattualizzarsi come “qualche cosa che ha subito una rimozione e poi è ritornato”, sorta di spaventoso che risale a “quanto ci è noto da lungo tempo ” a “ciò che ci è familiare”. In altri termini, lo spavento che si gioca e si riattualizza nel perturbante è dato dal rischio della ricaduta nel narcisismo primario, quel punto della storia individuale in cui il corpo della madre fa tutt’uno col proprio, e la soggettività si trova esposta al pericolo dell’estremo naufragio (di sé).