cinema

un festival e altre cose ancora

uscendo dalla pancia del metrò, in una giornata di primavera nebbiosa, alla periferia di parigi

maggio 1982

Per arrivare a Sceaux il metro emerge dalla pancia di Parigi e percorre per un buon tratto la banlieu che ai primi di maggio è ancora molto grigia e fredda.
Dovrebbe esserci il parco non molto distante ma da “Les Gemeaux” uno squadrato “Centro d’Azione culturale” di quelli che negli anni ’60 avrebbero dovuto dar luogo al decentramento, parola mitica anche per la cultura francese, si vedono solo i giardinetti delle case a due piani e nella nebbia sagome un po’ incombenti di edifici molto alti. Ogni anno, da quattro anni, a primavera “Les Gemeaux” ospita un festival di cinema delle donne che richiama un pubblico molto vario e composito non soltanto anche se prevalentemente femminile. L’organizzazione è curata dagli stessi animatori del centro che è dotato di due sale di proiezione ed un ampio bar dove ci si può rifocillare, incontrare e scambiare opinioni.
Elisabeth Trehard, Jean Claude Wambst, Jackie Buet sono un trio affiatato che mobilita per il festival tutto il personale del centro e garantisce una continuità di presenza fisica e lavorativa durante tutto l’anno. Eppure il pubblico è tutto parigino, del centro e solo al pomeriggio compare qualcuno del quartiere. Probabilmente è inevitabile ma durante l’anno da gennaio in poi Jackie ed Elisabeth hanno trovato un modo originale per svolgere il loro lavoro di animatrici. Hanno cominciato ad organizzare, su prenotazione, delle serate di cinema a domicilio partendo con il proiettore leggero e due films disponibili: “Chaperons rouges” d’Hélène Bourgault e Helen Doyle e “Adieu voyages lents” di M.G. Ripeau. “Come è andata?” “Bene — rispondono — venti serate in tutto, donne molto diverse, vari gruppi di femministe militanti, alle colleghe di lavoro alle vicine di casa, un modo per verificare tutto quello che in un festival non puoi sapere, un contatto molto profondo e poi delle ottime… torte fatte in casa”. Quest’anno c’è anche la proposta di una distribuzione di films di donne che dovrebbe chiamarsi “L’une film” che nascerà come Società a responsabilità limitata contando però su un qualche finanziamento statale. Il circuito ipotizzato: quello dei cineclub, delle case della cultura e dei gruppi di donne. Molto entusiasmo e molte critiche. Anzitutto sulla composizione del gruppo di distribuzione: due donne e due uomini. “Come mai due uomini?” “Perché da anni lavoriamo con loro e non vediamo perché mai congedarli adesso”. “Perché non limitare la distribuzione ai soli gruppi di donne dato il pubblico del festival è prevalentemente femminile”. “Una volta che i film siano disponibili, ognuno ne fa quello che vuole, se c’è chi vuole visioni separate se le organizzi direttamente. Noi abbiamo sempre organizzato una piccola tournée nei cineclub per una selezione del festival ed i risultati di pubblico e stampa ci indirizzano verso questo canale”. Dunque un indirizzo molto poco ideologico e molto pratico. Molto pragmatico anche rispetto alla presenza dei premi. “I premi sono utili per la stampa ed il mercato, un premio è una segnalazione non altro”. Molto il materiale presentato: 23 lungometraggi a soggetto di diverse nazionalità, i documentari nella sezione “Cinema direct” ed alcuni sperimentali e cortometraggi. La retrospettiva di Larissa Chepitco ed un omaggio ad Agnès Varda. Interessanti i dibattiti e gli incontri con le registe che in forma molto scorrevole accompagnavano le proiezioni.
le bandiere e le sconfitte
Un film maledetto si suppone sia l’opera povera di un filmaker demoniaco che circola semi clandestina per cantine e oscuri ritrovi marginali; ebbene Agnieszka Holland, in una lucida e confezionatissima veste, 35 millimetri, colori pastello, produzione di stato, (Film Polski) ha presentato tra i film che riflettevano sui nodi complessi che legano i destini degli individui e gli avvenimenti storici, il film più inquietante.
Non è semplice né indolore affrontare il dilemma dei mezzi leciti per proporre ed ottenere la trasformazione sociale e dì quanto questi mezzi non finiscano per pervertire e prevaricare gli stessi obbiettivi. Margarethe von Trotta ha impostato il teorema in “Anni di piombo” affrontando dichiaratamente il presente. Agnieszka Holland in “Febbre: storia di una bomba” volge la vicenda al passato ma ne radicalizza i termini. Siamo in Polonia prima della fallita rivoluzione del 1905. Il Partito Socialista Polacco cerca di organizzare l’insurrezione contro il dominio zarista che è contemporaneamente spietata autocrazia ed oppressione straniera. Dunque i campi sono (sembrano) ben delimitati. La prospettiva storica permette di individuare subito i portatori della luce ed i combattenti per la libertà ed il nemico destinato (è già successo anche se i protagonisti non possono saperlo) alla sconfitta. Se non chè niente bandiere rosse al vento alla “Reds” né sublimi sacrifici di immacolati eroi. L’organizzazione armata del Partito non conta davvero adesioni di massa ed anche le armi scarseggiano.
Così che l’unica via praticabile è quella del terrorismo. Le motivazioni ed i prezzi che i terroristi stessi pagano, il degradarsi delle relazioni, i compromessi, i tradimenti e le esecuzioni sono il corpo pesante del film su di un’esile trama delle vicende di una bomba molto potente (l’unica) di cui il gruppo clandestino dispone e che finirà per amara ironia della sorte per uccidere i rivoluzionari stessi. Il film è tratto da un romanzo di Andrzej Sturg, scritto in tempi non molto lontani dall’epoca dei fatti narrati e lo sceneggiatore Krzystof Teodor Teo-plitz ne parla come di un libro dagli echi dostoevskijani, Eppure non è tanto l’ombra di Raskol’nikov, che appare nel film quanto quella del presente con le sue domande morali irrisolte e le sue alternative sempre più confuse all’orizzonte.

aquieszka holland
Schiva, grandi occhiali, capelli corti, il viso un po’ segnato Agnieszka Hoiland è una delle più dotate registe polacche della nuova generazione, quella per intenderci successiva ad i grandi maestri Wajda ed anche Zanussi. Ha studiato a Praga ed ha visto il tramonto di due grandi speranze: quella del 1968 in Cecoslovacchia e quella recente del suo paese. Ha iniziato a lavorare nell’unità produttiva di cui era responsabile Wajda nel periodo dell’avvento al potere di Gierek nonostante suo padre fosse stato protagonista di un caso politico molto noto in Polonia (accusato di spionaggio era morto alla fine del 1961 durante una perquisizione nella sua casa e benché nulla fosse risultato poi a suo carico i suoi amici avevano continuato ad essere perseguiti per la solidarietà mostrata alla famiglia). E stata poi assistente di Zanussi per “Illuminazione” ed ha realizzato molti lavori per la televisione. Il film che aveva realizzato nel 1978:
“Gli attori provinciali” l’aveva segnalata all’attenzione della critica europea. Un tema classico: quello dell’intersecarsi della storia e del teatro ed una rivisitazione in chiave attuale di figure centrali della cultura polacca. Dunque, una compagnia di “attori di provincia” mette in scena il testo di Stanislaw Wyspianski: “Liberazione” del 1903 che, in polemica con il messianismo romantico ottocentesco di Adam Mickiewicz (La Polonia come il Cristo sofferente riscatterà se stessa e gli altri popoli) predicava la necessità di un ruolo attivo per il paese. Il protagonista contemporaneo del film, Krzysztof, vuole attraverso l’eroe di Wyspianski dare spazio e voce alla propria rivolta. E un’illusione, il regista che viene da Lodz, dal centro e dal potere, con mille formalismi vanifica il senso della rappresentazione ed ancora una volta il teatro rimane tale.
Durante i sei mesi di Solidarnosc, ero cosciente che sarebbe finita male ma che bisognava andare avanti. Svolgevo tutta la mia attività politica e sociale come se avessimo dovuto vincere ma nei film dicevo che sarebbe finita male. “Febbre: storia di una bomba” lo dice e “Una donna sola” è il film più pessimista che sia mai stato girato in Polonia”. I miei amici dicono che con il biglietto bisognerebbe vendere la corda per impiccarsi.