1975 anno della donna?

l’intervento delle Italiane

luglio 1975

 

In occasione della conferenza di Città del Messico, il Comitato Italiano ha preparato una breve relazione sulla realtà femminile nel nostro paese. Abbiamo stralciato alcuni passi del documento. Premesso che «in Italia la condizione della donna è caratterizzata da un notevole divario tra situazione giuridica e situazione di fatto» il documento riporta alcuni dati che ci sembra interessante rilevare in questo sono i dati ritenuti ufficiali attualmente.

«Nel lavoro le donne sono scarsamente presenti (tasso dì attività pari al 19% e proporzione sul complesso delle forze di lavoro del 28%). Nel 1974 le donne costituivano il 32% degli occupati in agricoltura, il 20% degli occupati nell’industria e il 35% degli occupati nel terziario (dove sono peraltro prevalentemente inserite nel commercio e in alcuni settori dei servizi: insegnamento). In tutti i settori il lavoro femminile è caratterizzato: da una elevata precarietà (sottoccupazione: 50% di donne tra i sottoccupati, contro il 27% tra gli occupati; occupazione marginale e/o stagionale o saltuaria);

da una diffusa dequalificazione (concentrazione nei rami di attività non qualificati o scarsamente qualificati, inserimento nelle qualifiche più basse nell’ambito di ciascun ramo di attività (ad esempio nelle amministrazioni statali, le donne oscillano dal 30 al 50% nella carriera esecutiva, dal 10 al 26% in quella direttiva, dal 3 al 6% tra i «dirigenti»); da una concentrazione in taluni settori ed essenzialmente in attività e posizioni professionali considerate tradizionalmente «femminili» (nell’industria: ramo dell’abbigliamento e alimentare; commercio coadiuvante, aziende familiari e grandi magazzini; servizi, insegnamento) mentre sono tuttora scarsamente presenti o quasi totalmente assenti in attività e professioni considerate tradizionalmente «maschili» (nei rami dell’industria ad alto contenuto tecnologico, nei trasporti, nelle professioni tecniche).

Al lavoro palese — quantitativamente scarso, precario e dequalificato — si affianca una larga fascia di «lavoro clandestino» (lavoro a domicilio, lavoro saltuario, ecc.) mal retribuito e che sfugge largamente alle leggi di tutela. Si ha, così, in effetti, una situazione di accentuata discriminazione del lavoro femminile che contrasta con la parità normativa. Mentre l’apporto computabile del lavoro femminile al reddito nazionale (nota: pari a 50 mila miliardi) è pari a circa 7-8 mila miliardi (stima 71), l’ulteriore apporto non valutabile (stimato sui valori di retribuzione di una collaboratrice familiare) è stimabile ad una cifra approssimativa di 17 mila miliardi».

Circa gli interventi intesi ad incidere sul costume, «il loro obiettivo dovrebbe essere quello di rimuovere le cause fondamentali del perpetuarsi della mentalità da cui promana la rigida divisione dei ruoli e che deriva essenzialmente dagli schemi possibilità di incidere sugli schemi educativi attuali nella famiglia. «A tal fine potrebbero tuttavia concorrere azioni convergenti da parte di organismi sociali di vario tipo (pubblici e non) — con lo scopo di favorire la crescita del livello di auto-coscienza della donna e di proporre alla donna e all’uomo nuovi modelli di realizzazione della personalità che suggeriscano l’immagine di una persona umana — uomo o donna che sia — che si ponga in un atteggiamento ugualmente responsabile nei confronti della famiglia, del lavoro, della società: così, la pianificazione familiare deve significare paternità e maternità cosciente, l’inserimento della vita economica deve derivare da una scelta realmente libera — da parte di ciascuno — circa II carattere e la misura del suo rapporto all’economia nazionale, la partecipazione alla vita sociale deve /essere sentita da ognuno come un dovere e un impegno civile. Enti locali, partiti, sindacati, associazioni politiche e culturali dovrebbero promuovere pubblici dibattiti su questi temi al fine di combattere gli stereotipi della divisione dei ruoli e segnatamente il modello della donna-oggetto, proposto dalla società consumistica e di illustrare questi nuovi modelli paritari.

Essenziale apporto a tale azione potrebbero dare i mezzi di comunicazione di massa e segnatamente gli audio-visivi che dovrebbero comprendere nei loro programmi servizi che svolgono una larga informazione sui problemi femminili e che contribuiscano a modificare la mentalità tradizionale. A contrastare, peraltro, possibili resistenze e azioni ritardatrici, sarebbe necessario che alle associazioni femminili — che, certo, sono più fortemente impegnate in questa lotta — fosse lasciato uno spazio da gestire autonomamente sia sulla stampa che nell’ambito dei mezzi audio-visivi.