femminismo

analisi di una crisi

luglio 1975

 

Care compagne, scusate se uso un’intermediaria. Ma ho troppa paura di sentirmi dire che tutto quello che voglio comunicarvi non è politico.

In questa settimana di latitanza ho capito una serie di cose, che mi hanno rafforzata in quello che ho pensato e detto finora.

Vorrei partire da una citazione di Gramsci; scusate la «cultura» e l’appropriazione non del tutto letterale della sua frase. Essere comunisti (il predicato è mio) vuol dire «…cercare di spiegare a se stessi il perché delle azioni proprie e delle altrui, tenere gli occhi aperti, curiosi su tutto e su tutti, sforzarsi di capire ogni giorno di più l’organismo di cui siamo parte; penetrare la vita con tutte le nostre forze di consapevolezza, di passione e di volontà; non addormentarsi, non impigrire mai; dare alla vita il suo giusto valore, in modo da essere pronti, secondo la necessità, a difenderla o a sacrificarla». E’ terribilmente difficile esporre quello che ho da dirvi senza banalizzare,, senza perdere la tensione, la vita che c’è dietro alle parole.

Ho sempre pensato che il femminismo mi dava, come donna e come soggetto sociale di estrazione borghese, uno specifico per cui lottare; la possibilità di offrire un contributo mio, autonomo, personale e politico al socialismo.

Ma ho sempre sentito che tutto questo restava una petizione di principio, perché se era vero, era anche vero che dovevo riuscire a trovare in me la chiarezza dei miei bisogni, dei bisogni, tanto per usare una formula nota, di comunismo. E proprio quando, per la prima volta, ho fatto a voi questo discorso, mi sono accorta di quanto fosse astratta, per me, questa affermazione.

E ho avuto paura di sbagliare, di ricadere nel dogma femminista. Ma poi ho sentito che questa astrattezza nasceva da una censura che operavo di un bisogno che l’autocoscienza mi aveva imposto: il bisogno di una comunicazione autentica, totale con gli altri, un rapporto diretto con il mondo, il bisogno di sentire le cose per quello che sono, senza diaframmi o ideologie.

E la censura scattava proprio perché non riuscivo a trovare in tutto questo il «politico», il nesso con la lotta. Temevo che questo bisogno, per quanto autentico, mi rinchiudesse nell’intimismo, nel personalismo.

Ma poi, scavando ancora più in fondo, nel bisogno di comunicare autenticamente, ho trovato il bisogno di riscoprirmi, di ritrovare forze, energie, passioni e capacità che quindici anni di vita sociale, chiusa nel mio ruolo di donna, avevano costipato e soffocato.

E se è vero che il socialismo, il comunismo, non sono solo un passaggio di proprietà da una tasca ad un’altra, ma sono la costruzione di un mondo nuovo e diverso, la realizzazione storica e materiale dell’umanesimo più autentico, riscoprirsi, liberare le proprie energie vitali è un compito, un dovere rivoluzionario. Perché, se questo è, strategicamente, il comunismo, è ben vero quello che scriveva Gramsci, che c’è — e fin da oggi, secondo me — il bisogno di tutte le nostre forze, le nostre passioni, le nostre volontà. Ma quali volontà e quali passioni, se non le riscopriamo in noi stesse, in un passato che appare remoto e che invece è incredibilmente legato al nostro diventare oggi persone nuove?

E questo strategicamente. Non chiedetemi una tattica. In questo momento non sono in grado di trovarla. Ho bisogno di pensarla, di viverla con chi sente come me questo bisogno; e tra voi non ho sentito tutto questo.

Non è con acredine che lo dico. Sento anzi come una mia colpa non essere riuscita a darvi la stessa mia forza, lo stesso mio convincimento.

Ed è con amore — scusatemi lo sdolcinato — che penso a voi, all’identità dei nostri bisogni, della nostra condizione. E vi chiedo scusa per essermi tenuta solo per me queste poesie, che sono l’unico e autentico contributo che in questo momento posso darvi.

Enrica

Care compagne,

nella lettera alla commissione salute non vengono bene alla luce, se non in negativo, le conclusioni del mio discorso. Cioè che fino in fondo il mio posto è nel nostro nucleo, perché è con voi e tra voi che ho capito quello che mi ha spinto a scrivere alle compagne di Pomponazzi. Prima di tutto per la corrispondenza tra me e voi del bisogno di comunicazione autentica; una comunicazione che non è fine a se stessa, ma che serve per riscoprirci insieme, per ricostruirci insieme persone nuove.

E in questo sta la forza che non avevo capito di avere: in una crisi di identità profonda che ho attraversato in questi giorni, in cui non capivo più chi ero, quali erano le mie volontà e a cosa dovessero servire le mie energie, ho sentito per la prima volta, profondamente, la solidarietà che c’è tra noi; la certezza di essere capita, di essere amata. E tutto questo mi ha fatto capire quale forza si accompagna alla nostra infelicità di donne e di femministe: la forza di capire che abbiamo veramente la possibilità di superare la nostra crisi di identificazione perché è al tempo stesso personale e collettiva.

Credo che, storicamente, solo a noi sia data la possibilità di riconoscere noi stesse, negli aspetti più intimi della nostra personalità, nel momento stesso in cui ci apriamo l’una all’altra. Il nostro personale, la nostra storia, diventa realmente nostra, un passato nostro che riscopriamo, che riscattiamo, che amiamo e che poniamo come base del nostro futuro diverso, proprio nel momento in cui lo facciamo diventare sociale, lo offriamo alle altre donne, scoprendolo insieme a loro.

E’ un processo profondamente dialettico, profondamente politico.

E’ riaffermare nei fatti la socialità dell’essere umano; è dimostrare concretamente una profonda verità che sta alla base di ogni teoria socialista: che l’identificazione personale è possibile solo se sociale. Ed è questa la nostra vera e profonda forza, che va ben aldilà delle crisi che l’autocoscienza ci procura. Ed è fino in fondo un bisogno di comunismo: sentire che l’uomo esiste come uomo, come persona, come individuo, solo se riesce a stabilire un rapporto continuo e dialettico, di azione e di pensiero, con gli altri uomini.

E questo significa anche riscoprire, ridefinire l’amore; negarlo come isola felice, come oasi individuale in contraddizione antagonistica col sociale, per riaffermare che l’amore è comunicazione, è arricchimento, è riscoprirsi nel momento in cui scopriamo gli altri.

Ed è per questo che dobbiamo avere il coraggio di guardarci in faccia con sincerità, impedendo che il pudore per il nostro personale diventi uno schermo all’amore. E dobbiamo anche avere il coraggio di parlare, non solo nel piccolo gruppo, dei nostri problemi e dei bisogni che l’autocoscienza ci ha permesso di individuare. Per impedire che la ricerca di una soluzione personale ai nostri bisogni collettivi ci faccia regredire al personale, all’isolamento, alla disperazione.

Enrica

 

P.S. Il femminismo, come il comunismo, diventano pura ideologia nel momento in cui non diventano amore, capacità di sentire gli altri. Nel momento cioè in cui la comprensione intellettuale si stacca dalla partecipazione emotiva. E allora il femminismo diventa una serie di verità statiche che poi ciascuna applica più o meno bene nella sua vita privata. lo credo che il valore più grande, almeno in questa fase, per me, che il femminismo ha dato è la capacità di sentire le persone, di viverne i problemi insieme con i tuoi. E allora non esistono verità statiche ma rapporti umani in cui la realtà si plasma secondo le volontà di ciascuno, secondo i bisogni di ciascuno. E negare questo, ridurre il femminismo nella nostra vita a un nuovo codice di vita morale, dimenticare le persone, ignorarne il bagaglio di pensieri e di affetti, vuol dire anche negare il senso più profondo del femminismo che è la riscoperta dei rapporti umani non come gratificazioni all’infelicità, ma come necessario e unico strumento sociale che permette fino in fondo una identificazione personale che non sia antagonisticamente individuale ma che sia un processo omogeneo, omologo con quello che muove il corpo sociale, con quella lotta di classe (come mi vergogno ad usare queste citazioni!) che è il motore, l’interna dinamica della storia.

Questa è una lettera scritta da una compagna del Nucleo femminista di Medicina alla Commissione Donne-Salute del Collettivo femminista comunista di Roma