abortirai con orrore

settembre 1976

quando è successo il disastro di Seveso mi sono ritrovata, io che avevo imparato negli ultimi anni a superare la mia paura di parlare, incapace di pronunciarmi, incapace di dire qualcosa che mi sembrasse significativo. La cosa mi stupiva tanto più considerando che negli ultimi anni avevo lavorato nel CRAC e che quindi il problema dell’aborto era stato per tanto tempo, per così dire,

il mio «pane quotidiano». Sempre, però, ho sentito il bisogno di dire qualcosa, ma forse anche di dirlo in modo diverso da quello, peraltro indubbiamente necessario, in cui fin’oggi si è espresso l’impegno del movimento sul problema cioè attraverso l’organizzazione e l’intervento. Qualche giorno fa è apparso sul MANIFESTO un articolo di Tiziana Maiolo in cui raccontava di un’assemblea tenutasi nel consultorio di Seveso. In quell’assemblea una donna si era alzata dicendo «lasciate stare le donne di Seveso». Quella frase esprime forse un desiderio di isolarsi, esprime una paura dell’altro, esprime però anche una volontà di sottrarsi alla colonializzazione. Per me quella frase non significa «non abbiamo bisogno di solidarietà» quanto il fatto che non si ha solidarietà fra donne se il rapporto si attua fra una donna costretta a parlare di sé, a mettersi in discussione, e a chiedere aiuto e una che di sé non parla, non ugualmente disposta a mettersi in discussione. Per questo non vorrei parlare sulle donne di Seveso, né per le donne di Seveso e forse neanche delle donne di Seveso. Vorrei dire cos’è Seveso per me. Credo che uno dei motivi più immediati per cui non ho potuto parlare di Seveso è dato proprio dal modo in cui si è posto il problema. So che cosa è il dover abortire per non avere un figlio che non si vuole avere. So anche che cosa è l’essere costretta a scegliere di non avere un figlio che pure si vuole per paura di essere schiacciata da una situazione in cui la maternità si prospetta troppo dura. Ma le donne di Seveso propongono un’altro problema: quello degli aborti bianchi, l’aborto cui quotidianamente sono costrette decine e decine di lavoratrici perché le loro condizioni di lavoro le rende impossibile una gravidanza che hanno scelto, che vogliono. Allora non mi si può parlare di aborto terapeutico. Questo è veramente un’aborto imposto dal padrone. Da un padrone che non ha mai temuto di distruggere la salute, la vita delle donne e degli uomini della zona, nonostante le varie volte in cui è stato denunciato, senza naturalmente nessun esito — così la catastrofe prevedibile si è potuta presentare come calamità inaspettabile. Perché un padrone, soprattutto se delle dimensioni della Roche — la «fabbrica della salute» che vorrebbe venderci la nostra vitamina quotidiana fruttandoci profitti enormi — agisce come se possedesse l’universo. Oggi può anche permettersi di offrire di pagare i suoi danni: tanto è impossibile e comunque sono incalcolabili. Molti dei danni provocati dalla diossina non si conoscono ancora: sono genetici, emergeranno forse, non si sa né come né quando, nelle generazioni future.

Mai tanto come questa volta quindi dicendo «aborto terapeutico» mi sono sentita costretta a dei termini che non sono miei, ma che sono propri di una società patriarcale e capitalista. Una società che vuole il possesso assoluto di me, come donna ,come strumento di maternità e per questo elabora delle casistiche rispetto alle quali giudicarmi. Non posso essere messa in condizione di dire «IO voglio, TU mi hai imposto»; non posso arrivare a distinguere chiaramente .ME da TE non sono «mia», sono «tua». Il mio aborto non è così una cosa che tu mi hai imposto contro una mia volontà di maternità: diventa «terapeutica» cioè una mia necessità per la quale ancora una volta devo chiedere il TUO permesso perché

TU possa compiutamente disporre di ME, del mio corpo, del mio essere. Naturalmente sono immediatamente pronti il clero, la DC, e, con grande entusiasmo, Comunione e Liberazione a dimostrare che non è assolutamente vero che qualcuno costringe le donne di Seveso ad abortire; anzi, loro sono lì proprio a negare l’esistenza del problema, a persuadere le donne che non devono assolutamente farlo. Le assistenti di Comunione e Liberazione vanno ad ogni donna incinta mostrandole le foto di un feto in vari momenti dello sviluppo, chiedendole se se la sente di uccidere questa vita. Ricordo che anni fa, quando ha abortito una mia cara amica, ancora intontita dall’anestesia l’infermiera le disse brutalmente che non era vero che era incinta da solo un mese (come aveva pensato) ma che era ben più avanti «perché si vedevano le gambine e le braccine». Nonostante che la sua unica sicurezza in tutta la vicenda fosse stata che non poteva, non voleva assolutamente portare avanti quella gravidanza, passò la notte piangendo, torturata dai rimorsi con quella frase martellante nel cervello. Aveva catalizzato tutti i dubbi, i fantasmi, i sensi del «dover essere madre» cui fino allora aveva risposto ponendo innanzitutto il suo problema della qualità della sua vita e della sua possibilità di vivere bene una maternità. Non ho nessun dubbio ohe l’infermiera volesse farle una violenza, ma i sensi di colpa vennero fuori perché il dovere essere madre (al di là del volerlo) sono una parte profonda di ogni donna, imposti da una società che ci vuole controllare nella nostra maternità, legalizzata dal matrimonio con il quale si attribuisce il diritto di proprietà all’uomo sulla donna e sul figlio. È un condizionamento così profondo da poter andare oltre il suo ateismo, la sua educazione, in fondo, la sua emancipazione. Ed è stato un senso di colpa che ha potuto superare solo perché ha trovato in altri un sostegno alla sua scelta di porre innanzitutto il problema della sua vita. Allora non ho dubbio che Comunione e Liberazione agisce con una violenza scientifica, analoga a quella della Roche: conosce troppo bene il senso di «dover essere madre» di tutte le donne, che c’è comunque sotto ad ogni volerlo essere. ‘Soprattutto sa bene come ci sentiamo legittimate nella nostra esistenza soltanto in quanto madri-mogli, depositarie di una vita altrui, mentre male ci riesce di trovare una legittimità della nostra vita in noi stesse. Ma non è tutto qui. Non è più facile per Comunione e Liberazione raggiungere il suo scopo a Seveso di quanto lo è stato nel dibattito politico che fino ad oggi si è svolto soltanto perché la Brianza è tradizionalmente una zona bianca, perché le donne immigrate dal Sud sono molte, perché la tradizione contadina è ancora forte di una realtà agricola. Tutto questo da solo non basta per spiegare il basso numero di richieste di aborto, così come non può spiegarlo da solo neanche la pesantezza della trafila burocratica cui bisogna sottoporsi. Anche il mio sgomento di fronte a Seveso viene da qualcos’altro. Viene, credo, anche da uno degli aspetti specifici della violenza di questo disastro. Non solo possono essere distrutte tutte le condizioni materiali dell’esistenza, il tessuto sociale che lo sorregge, ma le caratteristiche stesse dell’umanità possono essere stravolte. Questa società anche nei suoi tempi di «pace» distrugge fisicamente non solo chi vive ma pure chi ancora deve nascere. Allora, siccome in ogni momento dobbiamo giustificarci, spiegare come viviamo la nostra maternità (reale o potenziale) nel nostro quotidiano, poiché dobbiamo attenerci alle casistiche, oggi con Seveso si è trovata una «buona ragione» per la quale possiamo abortire: la prevedibile anormalità del bambino Ma è anche questo che mi tormenta. Perché significa che attribuisca all’«anormale» minor diritto di vita che al «normale»; che anziché affrontare il problema del rapporto fra norma e diversità preferisco annullarlo. Quante volte ho pensato con terrore alla possibilità di avere un figlio anormale? Le mie amiche che hanno avuto figli mi dicono che è un incubo ricorrente durante la gravidanza. Quel terrore non è solo il frutto di un calcolo delle probabilità. Oggi so che in questo terrore si esprimono anche tutti i miei sensi di colpa, il mio sentirmi «cattiva», «ingrata», la mia paura/ convinzione profonda di essere in qualche modo un essere indegno. Tutto ciò nella mia fantasia si traduce nella mia impossibilità di essere una madre degna. Nell’immaginazione partorisco, quindi, bambini deformi, bambini la cui fonte di sofferenza sono io ma che sono anche essi stessi la mia sofferenza e punizione. E queste sensazioni del resto non solo mie, nascono perché viviamo in una società che non solo ci impone di essere innanzitutto madri, ma che ci giudica sul modo in cui lo siamo, al limite sulla qualità dei figli che produciamo: se sono sani o malati, belli o brutti, intelligenti o stolti e così via.

Seveso mi mette di fronte al fatto compiuto. In una vignetta, credo di Chiappori, una figura di prete diceva ad una figura di donna: «Partorirai con orrore!». Il problema oggi sta anche qui — nel fatto che più che mai il peso di questa maternità ricadrà sulle sole spalle della donna che ha partorito, in una società che per il diverso prevede soltanto ghettizzazioni, emarginazioni e sensi di colpa per i genitori (soprattutto per la madre). Ma tutto questo può sembrare a molte donne il prezzo dell’indulgenza, un elemento del compiersi del proprio fatale dovere, al limite un’esigenza della propria storia individuale e non tanto della storia sociale. Che Comunione e Liberazione voglia salvare questi futuri bambini, (che però allo stato attuale possono essere anche feti di solo qualche settimana) non dipende da un qualunque interesse reale per loro, dal momento che come organizzazione si propone la difesa ad oltranza di uno status quo in cui il peso di tutte le maternità, e soprattutto di quelle dei bambini handicappati, ricade interamente sulle madri. Dipende, molto più verosimilmente, dal loro interesse a mantenere il controllo su di noi, sulle donne. Quello che non può ammettere, infatti, è che le donne incomincino a pensare alla possibilità di gestire il proprio corpo, compiendo questo primo passo di elementare autodifesa pensando cioè di poter dire si o no alla maternità e soprattutto alle condizioni in cui deve svolgersi. Di fronte a tutto questo posso solo tornare a monte. Devo rifiutare la logica delle giustificazioni al potere sociale delle ragioni della mia maternità/non maternità. Devo ricordare a tutti che ciò che è nel mio corpo, finché non ha capacità di vita autonoma, è del mio corpo, sono io. E io, su io, devo poter decidere io. Posso scegliere anche di evitare il rischio di figli anormali così come tutto sommato io cerco di evitare di avere figli affamati, perché vorrei potermeli «permettere» economicamente e psicologicamente prima di farli. Posso anche scegliere di farli trovando in me stessa il coraggio per queste scelte. L’unica cosa che credo che proprio non posso fare è astrarmi dalla mia lotta per la riappropriazione di me stessa, per la «ripresa della vita» delle donne. Non posso accettare ancora l’arbitrio del giudizio di qualcun’altro sulla vita di una donna così come non accetto più l’isolamento, la ghettizzazione, l’emarginazione e neanche riconosco ai miei sensi di colpa la legittimità delle «giuste punizioni».