noi e la nostra sessualità

quattro donne di diverse generazioni riflettono sulla propria sessualità la propria vita. Da queste storie emerge che molte di noi fanno «per amore» cose di cui non hanno bisogno e che questo amore occupa un posto troppo importante nelle nostre esistenze

settembre 1976

ho enormi difficoltà a scrivere il «pezzo» che dovrebbe accompagnare i resoconti di colloqui che ho avuto con donne di varia età quest’estate. Conoscere più da vicino le loro esperienze, aiutarle a ricordare, cercare di capire insieme qual’era stato il loro rapporto con il proprio corpo, mi ha nutrito, ho sentito d’aver preso e dato qualcosa in ciascuno di questi incontri. È come se avessi appreso qualcosa che sento di dover comunicare, ma sono bloccata. In parte so che le mie difficoltà nascono da deformazioni professionali. Io mi guadagno la vita insegnando psicologia all’università: i miei condizionamenti accademici mi spingono ad affrontare temi come questo nella loro complessità. Per esempio, ho iniziato ribadendo: «la necessità di affrontare il problema del rapporto della donna con il suo corpo a vari livelli, strutturale, sovra-strutturale e intrapsichico e, nei vari contesti storico sociali in cui questo si è realizzato.

…A livello strutturale ci siamo rese conto che il modo in cui la società è organizzata per produrre e distribuire il reddito influenza il tipo di posizione sociale che la donna occupa, i ruoli che le sono permessi, e dunque anche il modo in cui le viene vietata o permessa una certa esistenza sessuale. Finora si sono visti soprattutto due tipi di sessualità femminile: a) sessualità finalizzata alla procreazione, nella stragrande maggioranza delle società e per quasi tutti gli strati sociali (la donna fattrice di braccia per le crociate e le catene di montaggio) b) la sessualità finalizzata al piacere maschile (dal «riposo del guerriero» cartaginese alle moderne versioni: cali girl; donna oggetto sessuale).

Nella nostra attuale società, ad esempio, la mancanza di sbocchi occupazionali per la donna fa sì che l’81% siano mantenute attraverso il lavoro del marito e del padre che, controllandole economicamente, esercitano anche un controllo sessuale. Se la liberazione sessuale della donna avviene anche attraverso l’emancipazione economica, in Italia occorrerebbe creare circa altri 9 milioni di posti di lavoro solo per raggiungere la parità con gli uomini attualmente occupati (14 milioni). Dato inoltre che il potere è in mano maschile, il modo di concepire i servizi e le strutture essenziali è necessariamente maschilista. Abbiamo ad esempio un’assistenza medica che ci passi-vizza impedendoci di conoscere il nostro corpo, di prevenire le malattie; di poter gestire la nostra salute. Abbiamo un sistema di produzione e distribuzione del cibo che inquina i nostri corpi, ma in compenso abbiamo miriadi di case farmaceutiche che fanno miliardi distribuendo tranquillanti per i nostri nervi e cosmetici per renderci più gradevoli agli occhi maschili. A livello sovrastrutturale, abbiamo i condizionamenti che ci impongono la famiglia, la scuola e la chiesa che tendono a tenerci nell’ignoranza, a incanalare la nostra sessualità, a prepararci ai nostri ruoli. Sono stati scritti torrenti di parole sulla nostra socializzazione ai ruoli di casalinga; moglie, madre, compagna dell’uomo, ispiratrice etc. I gruppi di autocoscienza sono gli strumenti che ci siamo dati per decondizionarci da queste sovrastrutture, capire chi siamo, cosa vogliamo, anche sessualmente. Da qui tutti i nostri discorsi, dibattiti sulla nostra sessualità, maternità, aborto, anticoncezionali, omosessualità, rapporti aperti, bisessuali, monogamia etc. Da qui sono nate anche le nostre battaglie per l’aborto libero, .gratuito e assistito e per i consultori che dovrebbero assistere migliaia di donne, aiutandole a gestire i loro corpi. A livello interiore (intrapsichico), psicoanalisti e psicologi ci hanno dipinte passive e petulanti, deboli e brontolone, incapaci di (grandi voli intellettuali e dedite alla fantasticheria. Noi abbiamo reagito rifiutando le nostre pretese caratteristiche psichiche ed esplorando invece i modi in cui l’oppressione sociale, politica, economica, è stata interiorizzata ed è divenuta parte della nostra psiche».

Tutto quello che ho scritto ieri mi sembra giusto, però scontato. Ormai sono sei anni che ci diciamo che occorre cambiare tutto, perché ogni cosa è legata all’altra; che occorre mutare i rapporti economici e il tipo di gestione del potere.

Sono anni che litighiamo con le non femministe sulla priorità della lotta di sesso e della lotta di classe. Credo che la stragrande maggioranza di noi sia d’accordo che si tratta di procedere in una lotta a vari livelli contemporaneamente.

Questo tipo di analisi è senz’altro corretta ma è come se io la facessi restandone fuori, non coinvolta. E’ utile ma manca. Come se non riuscissi a collegarvi la mia diretta esperienza se non con.uno sforzo d’astrazione. Invece nei colloqui mi sono spesso rispecchiata, ritrovata e ne ho ricavato anche uno stimolo per mutare certe cose nella mia vita. Ad esempio sono andata a parlare con mia madre, ho avuto voglia di conoscere la sua esperienza e abbiamo avuto insieme una delle più intime discussioni sulla nostra sessualità; ho potuta vederla e vedermi in un modo diverso. Intervistando tre donne d’una stessa famiglia, che fra di loro non avevano mai parlato della loro sessualità, ho avuto la precisa sensazione ohe storicizzare la propria evoluzione sessuale e riscoprire quella materna fosse loro utile, fornisse alcuni elementi mancanti alla lóro autocomprensione. Forse un riesame culturale della trasmissione della nostra sessualità, così come si è espressa in ognuna delle nostre storie familiari individuali può aiutare molte di noi a capirsi di più e forse ad avere un rapporto meno frustrante con le nostre madri e le nostre figlie presenti e future.

Un’altro sentimento che ho avuto quest’estate mentre parlavo è stato un certo senso d’impotente scoraggiamento, che mi veniva comunicato da molte donne, le quali affermavano che ormai non potevano fare più niente perché avrebbero dovuto mutare tutto, nella loro vita. Ho pensato ad una mia amica ohe in crisi per molti aspetti, quest’estate è riuscita (attraverso una serie di esercizi fisici e psicologici, respirazione, esplorazione di fantasie, decondizionamenti da paure) a fare all’amore per la prima volta (prima non poteva sopportare l’idea e il sesso le faceva schifo). Questo mutamento l’ha resa così felice e ha liberato le energie che lei prima dedicava a preoccuparsi dei suoi problemi sessuali, ora si è iscritta ad un partito e lavora in un consultorio femminista venti ore la settimana, invece di restare in casa a compiangersi. Ho sentito allora che occorre che noi ci ricordiamo che aver capito che bisogna mutare le cose a più livelli non significa non poter iniziare da subito a fare dei progressi al livello che è più accessibile al mutamento immediato. Spesso mi capita e l’ho riscontrato anche nelle donne intervistate, di riflettere più sugli «errori» passati non facilmente rettificabili (sbagliato scuola, sbagliato uomo, sbagliato …) che di dedicare le mie energie a lottare per ottenere qualcosa di fattibile in un futuro ragionevole. Ho capito che per vincere i nostri scoraggiamenti, la nostra sfiducia di fronte alla mole di mutamenti necessari occorre puntare su qualche piccolo successo iniziale, proprio come ha fatto la mia amica quest’estate, decidendo di lavorare «su un problema alla volta».

Però c’era qualcosa altro che ho provato nei colloqui di quest’estate: un senso di quasi fastidio ogni qualvolta nelle conversazioni riappariva la parola «amore». Molte di noi fanno delle cose di cui non hanno bisogno anzi che le danneggiano «per amore» e questo «amore» occupa un posto grandissimo nelle nostre esistenze. La mancanza di lavoro, di interessi politico-sociali, di altre opportunità di realizzazione sono state offerte da molte femministe come una possibile spiegazione di questo fenomeno. Sarà anche vero che noi donne amiamo troppo e male (contro il nostro e infine l’altrui interesse: vedi ‘moglie appiccicaticcia e madre possessiva), ma gli uomini amano poco o temono d’amare. E come ben dice una delle intervistate forse sbagliamo tutti e due. Va capito perché. Parlando con una donna quest’estate mi è venuto in mente che forse noi donne abbiamo meno difficoltà ad innamorarci di uomini, perché in fondo noi abbiamo amato nella primissima infanzia una donna, e solo più tardi quando eravamo più agguerrite per affrontare meglio una delusione, abbiamo conosciuto l’amore per l’altro sesso. Forse l’uomo teme di abbandonarsi all’amore perché ha paura di riprovare quegli intensi sentimenti negativi e positivi che ha avuto per la madre, da lattante bisognoso e impotente.

Il mio senso di fastidio derivava dalla ambivalenza che i discorsi sull’amore mi suscitavano. Da un lato sentivo la necessità di rivalutare socialmente la nostra capacità di amare, di gioire, di avere rapporti umani intensi e profondi (di curarci più delle persone che delle cose), dall’altra mi sembrava che occorresse ridimensionare quest’aspetto nella vita individuale di quasi tutte noi. Era come se gli innamoramenti, le cotte, gli amori fossero troppo importanti nelle vite delle donne con cui mi confrontavo e questo mi riproponesse il contradditorio problema del posto che io do a questo aspetto nella mia vita. Credo che sia importante per tutte noi capire meglio i meccanismi di questi «innamoramenti», cotte romantiche a cui tante fra noi legano anche l’espressione della propria sessualità. Se vogliamo liberarci dai ruoli oltre cha lottare per mutamenti a livello economico e sociale dobbiamo anche comprendere meglio perché «per amore» l molte donne vi si adagino e scoprire \ altri modi per soddisfare i nostri bisogni d’appartenenza, affetto, identità e sesso.