bombardiamo il comitato centrale
le compagne di A.O. intervengono contro il vecchio modo di fare Politica: NO alla P maiuscola
13, 14, 15, 16 luglio. Assemblea dei delegati di cellula della Federazione Romana di Avanguardia Operaia: ordine del giorno: la situazione politica e i nostri compiti. 13 luglio. Inizia il dibattito. Prendono la parola per primi i compagni romani del Comitato Centrale. Noi donne viviamo un bruciante senso di esclusione da un dibattito per il quale sentiamo di avere tante cose da dire e da esprimere. Ma il linguaggio è quello da «esperti della politica», l’approccio ai problemi, sempre complessivo e generale, diventa per noi generico e astratto. Questa è una sensazione comune. In particolare noi compagne siamo tutte in uno stato di forte tensione, di l’abbia e di emotività. Franca, operaia, dirigente del suo sindacato e di una sezione di AO, si era decisa il giorno precedente a troncare una relazione ormai senza più amore e senza più storia con un compagno, come lei operaio, dirigente politico e sindacale.
Il compagno, di fronte a questa scelta libera e consapevole, l’ha insultata, le ha rinfacciato di non essere una madre amorosa, infine, erano in automobile, ha minacciato di farla scendere in un viale dove abitualmente lavorano delle puttane.
Una discussione politica ad alto livello; una triste e squallida storia di coppia. Apparentemente tra le due cose non c’è alcun nesso, tranne il nostro profondo disagio.
14 luglio. Seconda giornata dei lavori dell’assemblea dei delegati. Dopo una breve riunione, noi donne chiediamo alla presidenza la parola. Parla Anna, annuncia che dobbiamo fare delle testimonianze. Per noi è un grosso rischio. È la prima volta che davanti agli uomini usiamo gli strumenti del femminismo, la testimonianza diretta, l’esplicazione, dal vivo del racconto, di quello che per molti è ancora uno slogan: il personale è politico.
Niente ci assicura che i compagni capiscano, e cosa capiscano. Inoltre si tratta di tirare fuori delle storie personali, che abbiamo vissuto e sofferto; siamo sempre state abituate a privatizzare tutto, a nascondere, a vergognarci. Inizia Rita: parla a voce alta, le mani sui fianchi come la proletaria di San Basilio che fronteggia i celerini nella foto ormai famosa. Poi Marina, Cecilia, Simona, Paola, Franca, Anna; poi le altre.
Abbiamo raccontato storie diverse: i comportamenti dei compagni di AO, di cui tutte abbiamo fatto nome e cognome, hanno entità e gravità differenti.
Ci siamo sforzate però di tirare fuori un tratto comune a tutti: i compagni, e non solo quelli di AO, nella loro vita personale, nel rapporto con le donne, hanno le medesime caratteristiche ideologiche che sostengono di combattere all’esterno, nella società, nel «politico»: l’opportunismo, la vigliaccheria di fronte a situazioni difficili, la gelosia, la chiusura, la strumentalità nei confronti della donna.
Come giudicare altrimenti quel compagno che rifiuta qualunque aiuto o collaborazione alla «sua» donna rimasta incinta, affermando di avere troppi impegni o responsabilità politiche per occuparsi di un aborto?
O quello che chiede il silenzio su una storia da lui pienamente vissuta, perché altrimenti si potrebbero guastare i rapporti politici tra i compagni dei massimi organismi dirigenti, nei quali lui è inserito?
O quello che con la «sua» donna rifiuta di discutere di’ politica, dato che ne parla e ne fa troppa fuori, per cui la donna gli «serve» per riposarsi e rilassarsi soltanto? O quello ancora che usa la compagna femminista nei suoi rapporti personali, perché è avanzata, libera, progressista, ma quando questa stessa libertà esce all’esterno (come nel caso ricordato di occupazioni di case), diventa modo di essere tra le masse, momento di discussione e di vita avanzata sul fronte delle libertà sessuali, della critica alla famiglia patriarcale e autoritaria, allontana la compagna dalla lotta, non affronta i termini politici della questione con lei, liquidandola semplicemente come una «puttana», una che disgrega le sane e salde famiglie proletarie?
Ci viene richiesta quindi una doppia morale: libera sessualmente, progressista e tollerante nel privato; morigerata, conservatrice, alla coda dell’ideologia e della pratica delle masse nel pubblico, all’esterno.
Provo a descrivere il comportamento dei compagni mentre parlavamo. Innanzitutto sbigottimento per un fatto tanto nuovo. Sulla faccia di molti era stampata la domanda: «Ma che c’entra con il dibattito politico, con il partito, con la fase»? Altri, invece, che comprendevano che stavamo intervenendo non solo sulla contraddizione uomo-donna, ma anche sulla lotta all’ideologia borghese, sul rapporto con le masse, sullo stile di lavoro, vivevano estremo interesse, ma anche tanta paura. Temevano che qualcuna si alzasse e parlasse di loro. Poi sono iniziati i mormorii, i commenti a bassa voce. Ne abbiamo percepito uno: «Le femministe hanno fatto il nome di X, dirigente nazionale. Vogliono attaccarlo e schierarsi con Y». Dopo avere invitato chi aveva fatto questa affermazione a rifarla davanti a tutti, ad alta voce, è iniziato il dibattito sull’unità del partito, sul problema del dissenso e delle frazioni. 15-16 luglio. La discussione è continuata. Qualcuno ha fatto riferimento alle nostre testimonianze. Molte compagne, alcune per la prima volta, hanno preso la parola. Altri non hanno saputo né voluto rinunciare ai loro interventi, preparati magari da una settimana, dattiloscritti, che parlavano di tutto. Qualcuno vuol ridare la tessera di Avanguardia Operaia, sostenendo che il sesso non c’entra con la politica e che i panni sporchi si lavano in casa. Qualcuno, ancora, ha ritrovato tensione e passione per l’attività politica, vissuta per troppo tempo in modo stanco, esterno, lontano e distaccato. Poi il dibattito è continuato nelle strutture di base.
Le nostre riflessioni dopo questa esperienza.
Noi femministe di AO vogliamo partecipare in modo attivo all’attuale, acceso dibattito in corso nella nostra organizzazione.
Lavoriamo perché il partito che intendiamo costruire abbia le donne come soggetto attivo di una politica di tipo nuovo, dove organizzazione voglia dire partecipazione e decisione collettiva, democrazia, rifiuto della delega e delle mediazioni della politica «tradizionale».
Cerchiamo di dare una risposta alle tante tantissime compagne che ci chiedono come si riesca a conciliare la nostra militanza femminista con quella di un partito, in particolare del nostro, Avanguardia Operaia, fortemente maschilista.
Ce lo chiedono quelle compagne che rifiutano la «politica», addirittura il voto, perché interno ad una logica di potere maschile, o a quelle che hanno scoperto l’impegno politico con le altre donne, partendo dal proprio per-
sonale, o quelle ancora che lo hanno scoperto uscendo dalle organizzazioni della nuova sinistra; oppure quelle che continuano a rimanere nei loro partiti, ma rifiutano la battaglia interna. Tutte queste compagne intuiscono le tensioni, le contraddizioni, le angosce della «doppia militanza». Per molto tempo nelle riunioni di donne siamo state ascoltate con legittima diffidenza, perché sospettate di essere espressione di una linea politica esterna, elaborata da uomini, in organizzazioni fortemente autoritarie; in modo analogo nelle riunioni di partito siamo state considerate delle «strane», sostanzialmente delle intruse, mai comprese e mai ascoltate fino in fondo, cui bisognava dire sì per opportunismo e per quieto vivere interno. Non è certo finita la fase della doppia militanza; ma noi compagne che dalle organizzazioni non siamo uscite perché riteniamo anche questo un necessario terreno di battaglia femminista, vogliamo chiarire alcune cose. La prima è che il nostro discorso non può essere
rivolto a tutta l’organizzazione politica (che non è un fatto statico né omogeneo), ma essenzialmente alle donne, sia alle militanti, sia alle donne che nel lavoro’ di massa, di scuola, di fabbrica, di quartiere, riusciamo ad avvicinare. Facciamo un po’ di storia senza peli sulla lingua.
Inizialmente, oltre alla grossa, pesante lontananza da tante compagne del movimento, sentivamo, altrettanto pesante e frustrante, la separazione tra noi femministe e le altre donne militanti della nostra stessa organizzazione politica.
Responsabilità le avevamo noi, troppo gelose delle nostre conquiste, delle nostre conoscenze, delle compagne dei nostri piccoli gruppi (un tempo interni oltre che clandestini in AO), finalmente amiche e solidali dopo rapporti soltanto formali, che iniziavano e finivano con le riunioni di cellula, o al massimo con qualche sabato sera insieme in pizzeria.
Responsabilità erano anche delle altre compagne, le «antifemministe», spaventate forse dal pericolo di contagio della pratica femminista, dalla discussione collettiva su tutto, che quando porta a conquiste e a momenti liberatori, incrina abitudini, rapporti, principi apparentemente saldissimi. Oggi molte di queste barriere sono crollate. Innanzitutto è comprensione comune che il movimento delle donne è un movimento politico. Movimento politico di fondamentale importanza, perché non è di settore, essendo le donne, e anche le donne rivoluzionarie, interne e motrici di ogni settore di classe. Questa considerazione, ovvia e banale; già di per sé ci dà credibilità politica; essa è il risultato generale dei nostri sforzi, delle piccole battaglie quotidiane, fatte tra 1 muri delle nostre case, con i nostri compagni, nei posti di lavoro, nelle scuole, quelle nostre e dei nostri figli, nel sindacato, negli ospedali, nei mercati, nelle strade, oggi anche nelle aule dei tribunali. Da questi piccoli ed enormi sforzi è nato il 6 dicembre, il 3 aprile, è nata quella forza, per noi che nella politica, crediamo, e che vogliamo rifondare di conquistare più spazio in un leninismo che sentiamo spesso stretto e fasullo innanzitutto per noi donne, ma anche per i giovani, per i lavoratori, per i compiti storici che abbiamo.
Non è solo l’autocoscienza, il partire dal personale che hanno oggi incrinato lo steccato tra «femministe» e non «femministe» delle organizzazioni, ma forse la consapevolezza che noi femministe riusciamo a praticare certe parole d’ordine che nelle organizzazioni rivoluzionarie sono molto spesso astratte e formali.
Noi abbiamo scoperto e vissuto cos’è la democrazia (l’ascolto e la riflessione sulle opinioni di tutti), il centralismo (la scelta collettiva, cosciente e non autoritaria), cos’è la fiducia nelle masse (niente furbizie o tatticismi, ma sincera identificazione con tutte le donne oppresse dalle istituzioni della società capitalistica, innanzitutto dalla famiglia e dalla sua ideologia), il rifiuto della delega, la vera militanza spinta alla lotta contro condizioni di esistenza direttamente insostenibili, tanto lontana dallo spirito di sacrificio e di missione un po’ cattolico che ancora anima tanti militanti della nostra organizzazione.
Abbiamo cercato tanto i «proletari» da far lottare, senza accorgerci che non era necessario andare lontano; i proletari, la gente che lotta in ogni momento della giornata siamo e dobbiamo essere noi.
Basta intendersi per cosa, per sviluppare quali contraddizioni. Su questa pratica la maggioranza delle militanti di AO è unita e concorde cosciente che gli attuali scompensi interni che derivano dal rifiutare, ad esempio assurdi turni mattutini di volantinaggio (come esterne) a fabbriche e quartieri, diffusioni domenicali del «quotidiano dei lavoratori», quando la domenica è l’unico giorno da dedicare in pieno a noi stesse, ebbene, tutto questo in prospettiva è estremamente salutare, politicamente corretto oggi è semplicemente molto giusto. La pratica femminista è pratica collettiva.
Questo dato di fatto oggi lo riproponiamo dentro AO. Non siamo interne come militanti singole ma come movimento politico, con le sue tematiche il suo linguaggio, il suo rapporto col sociale, il pubblico, ma anche con il privato.
Rivendichiamo la nostra autonomia, i nostri momenti di separatezza e di riflessione fra donne; del resto nessuno potrebbe levarceli.
Ma alla stessa maniera rivendichiamo anzi ci siamo conquistate, il diritto di esistenza in AO, come espressione di un movimento di massa, che è cosa ben diversa da una frazione. Le frazioni sono componenti dei partiti borghesi, espressione di potere di singoli o di gruppi.
Noi le rifiutiamo, non solo perché contraddittorie con un partito comunista, ma perché contraddittorie con il nostro essere donne. Non abbiamo potere da difendere o da conquistare; come .donne abbiamo da perdere le nostre catene soltanto, e un mondo intero, ad iniziare dalla nostra identità da conquistare. E questa è cosa ben diversa dalla conquista di potere.
Sappiamo bene che è una cosa ben difficile, è una lotta. Molti compagni non possono capire, altri rifiutano, altri ancora fraintendono.
Due sono i problemi che qui vogliamo iniziare a discutere: L’analogia tra potere autoritario e gelosia e il rapporto con la massa.
La gelosia
La gelosia non è un generico sentimento, ma è l’espressione del senso di possesso, della proprietà privata su persone che vengono intese come oggetti, è espressione dell’ideologia borghese.
In nome della gelosia oggi si violenta e si uccide.
Non solo per difenderci, ma per iniziare a costruire il nuovo, la lotta alla gelosia non va rimandata al futuro, quando ci saranno diversi rapporti di produzione, ma va affrontata oggi, in ogni momento.
Non solo noi donne, ma, in termini politici, anche molti compagni sono vittime della gelosia.
Quando un dirigente, nel corso di una riunione tesa, protesta e dice: «Ma questi vogliono discutere di tutto» (alludendo ai compagni di base che vogliono partecipare), oppure si rifiuta di semplificare il suo linguaggio, di renderlo comprensibile e patrimonio di tutti, anche questa è gelosia, è attaccamento al potere.
Le scelte politiche in questa maniera rischiano di diventare dei dirigenti, di loro proprietà, chi le vuol capire, discutere, arricchire, chi vuol partecipare è un intruso, un rompiscatole. Lotta alla gelosia per noi vuol dire anche maggiore partecipazione, e con essa trasformazione: vuol dire intaccare quell’orribile, specialistico linguaggio che complica le cose semplici e che diventa uno degli strumenti di detenzione del potere per alcuni, di esclusione per altri.
Il rapporto con le masse, in particolare con quelle proletarie.
Noi lottiamo contro la famiglia patriarcale, per una nuova e libera sessualità. Non vogliamo fermarci alla nostra sessualità; né, d’altronde, intendiamo «dare l’esempio» alle masse «arretrate» sul terreno dei rapporti interpersonali.
Rifiutiamo i vecchi schemi, non ne formuliamo di nuovi, perché a schemi validi per tutti non crediamo affatto. Però, in base alle nostre esperienze, vogliamo intervenire all’esterno. Ci si accusa di non saper rispettare i livelli delle masse, di fare proposte di velleitario avanguardismo, di offendere e disgregare le famiglie proletarie, di dividere le donne dagli uomini. Vengono in mente le sentenze che nel ’69 sputava in tutt’Italia l’Unione dei Comunisti: con conformismo e opportunismo i militanti di quella organizzazione celebravano «matrimoni rossi», facevano molti figli, si tagliavano barbe e capelli se uomini, aborrivano minigonne e pantaloni se donne. Si comportavano così a imitazione del proletariato.
Oggi l’Unione dei Comunisti è morta. È sempre più vitale e in espansione, in-
vece, il movimento delle femministe, allora giudicate «piccole borghesi radicalizzate, pazze, avventuriste e provocatrici», oggi, agli occhi di tutti, movimento che nelle idee come nei comportamenti costruisce il nuovo. Non importa se da parte dei nostri compagni di partito queste riflessioni diventano argomento di pettegolezzo, oppure se il femminismo, per uso opportunista, viene compreso come «libero amore».
Ora, e forse per molto altro tempo, questo sarà inevitabile. Quello che importa invece è che la pesante crosta di conformismo, di separatezza, di abitudine che rischia di soffocare e vanificare quanto di eversivo e rivoluzionario è ancora patrimonio della nuova sinistra, sia spezzata.
Solo noi donne possiamo farlo, più unite e numerose possibili. Non certo per essere le prime della classe, ma per la convinzione profonda che tutte noi militanti abbiamo, che senza partito non può esservi rivoluzione. Ma senza le donne, come forza attiva, protagonista, realmente rinnovatrice, senza le donne liberate non vi sarà né partito, né rivoluzione.