CREATIVITÀ
…e-to-cche-re-bbe-pre-ci-sa-me-nte-a-TE! !
La bella cantilenante «conta» della mia infanzia è tornata di grande attualità; a chi tocca adesso? ma alle donne, naturalmente!
In questo periodo «la donna» si porta molto, specialmente in campo artistico; e allora pittrici e scultrici, vogliamo fare una mostra? non abbiamo che l’imbarazzo della scelta, sono in molti decisi ad organizzarci una mostra, meglio se è di gruppo (di sole donne per capirci) condita perfino di una spruzzatina di femminismo! O no?
chebellochebello !
Per me decisamente no, perché mi viene il sospetto che stiamo per fregarci un’altra volta e per vederci chiaro tento di fare un’analisi sul significato politico dell’arte in questa nostra cultura.
Fino ai nostri giorni l’artista ha bazzicato e ha prosperato esclusivamente presso le corti dei re, dei papi, degli imperatori.
Il suo ruolo di Artista lo ha situato stabilmente tra il potere economico e il potere religioso. Del primo l’opera d’arte asserisce la legittimità, la forza, la grandezza, la continuità;
dal secondo acquista alcune caratteristiche come l’unicità, l’irripetibilità, l’essere la più alta espressione della umanità, ma specialmente la sua caratteristica fondamentale l’ambiguità e cioè la possibilità di significare concetti, diversi ed anche in netta antitesi tra di loro. Questa qualità permette di avere sull’opera un largo spettro interpretativo per adattarla alle modificazioni ideologiche che si vanno via via determinando.
L’opera d’arte è perciò cultura del potere.
Prendiamo come esempio i «grandissimi artisti del nostro rinascimento»; questi passavano con sbalorditiva disinvoltura dal servizio di un principe a quello del Papa, che era nemico del primo, per poi andare ad offrire i loro servigi ad un terzo che poteva anche essere nemico dei due precedenti.
La loro opera assolveva sempre benissimo alla sua funzione primaria che era quella di asserire, al di sopra delle congiure di palazzo, dell’avvicendamento delle casate e delle guerre, la legittimità, la necessità, |a continuità del potere.
E poi essendo l’opera anche ambigua potevano esserne estrapolati quei concetti che meglio si adattavano alle situazioni specifiche. Questa stessa caratteristica ha dato ad alcuni sagaci studiosi d’arte la possibilità di scoprire dopo vari secoli «messaggi» addirittura rivoluzionari in certe opere, dei quali messaggi nessuno dei contemporanei si era accorto. Oggi la situazione nonostante le apparenze è del tutto analoga; basta considerare che il potere ai nostri giorni non si esprime più in una o poche persone, ma in una casta, in quella borghesia cioè nella quale si identifica il nostro sistema. L’opera d’arte non può più configurarsi in un grande ciclo di affreschi o in una cattedrale, ma sarà idealmente scomposta in tanti frammenti, ed ogni frammento andrà ad ognuno di quelli che oggi rappresentano il potere; e come costoro tutti insieme sono il potere, così l’insieme di tutte le sculture, di tutti i quadri di tutti i comportamenti, di tutte le azioni ricomporrà l’omogeneità di questo aspetto della cultura. Nessun artista sfugge a questa logica nel momento in cui «produce» una opera. Qualsiasi opera d’appendere, da sospendere, d’appoggiare, da fotografare, da filmare, può essere collezionata e capitalizzata; qualsiasi opera garantisce al suo proprietario l’appartenenza alla casta dominante, a quella cioè che può permettersi anche il possesso della cultura. Nemmeno gli artisti così detti impegnati sfuggono a questa logica. Essi producono cultura del potere aggiungendo ambiguità ad ambiguità volendo interpretare il popolo, o quello che essi immaginano o vogliono che il popolo sia.
Se per esempio un metalmeccanico vede un’opera che dovrebbe esprimere il suo mondo e non si riconosce o non si piace, può capitare che domandi «signor artista quest’opera non va bene, io non mi ci riconosco non mi piaccio» l’artista può darsi che risponda «tu fai l’artista?» e lui «no, faccio il metalmeccanico», e l’artista di rimando «appunto tu fa il metalmeccanico che io faccio l’artista». Da questo ipotetico dialogo si deduce che la così detta opera d’arte esprime un altro concetto fondamentale della nostra società: quello della necessità della divisione del lavoro. L’opera d’arte contribuisce ampiamente a perpetuare all’infinito la divisione tra chi è intellettuale e chi non lo è e non lo sarà mai, tra chi fa cultura e chi la subisce, tra chi è potere e chi è suddito. Ogni artista è un collaborazionista. A noi donne ci hanno sempre tenute fuori da questo Olimpo per le ragioni sessiste che tutte conosciamo, ma anche perché di noi giustamente non potevano fidarsi. Compito, troppo delicato e di troppa responsabilità quello dell’artista, per poter essere affidato a delle donne, degli esseri cioè imprevedibili (leggi «Persone macerate da una cupa rabbia e da una silenziosa volontà di ribellione»). Ma adesso, proprio quando la rabbia e la ribellione non sono più silenziose ma urlanti e vitali, proprio adesso che la pericolosità delle donne è evidenziata ed esplodente, proprio adesso dicevo, ci permettono anzi ci invitano ad entrare in quell’Olimpo da cui ci hanno sempre precipitate. Sarò anche malignetta, ma certo che a questo punto il sospetto che già avevo mi si è molto rafforzato. E’ il sospetto che si voglia riproporre nel nostro movimento la divisione per ruoli, la divisione tra le poche che saranno la mente e le molte che saranno le braccia, quelle divisioni che noi con tanto accanimento e con tanta fatica cerchiamo di superare. Anche il tentativo di riconquistarci una nostra creatività può servire, se non siamo estremamente chiare, a farci cadere nella trappola. Facendo leva sulla necessità di esprimersi di chi come noi è stato sempre imbavagliato, tentano di farci integrare in quelle strutture che hanno prodotto l’ideologia della nostra schiavitù.
L’arte non è universale, l’arte che noi conosciamo è stato il veicolo principale di una cultura che ci ha oppresso, e non solamente perché fatta da uomini o perché racconta certe storie invece che altre, ma perché è parte integrante di questo sistema che prevede i ruoli, le gerarchie, gli oppressi, gli oppressori.
E non è solo un discorso che riguarda i quadri e le sculture, è un discorso che riguarda anche le capriole; se io faccio una capriola a casa mia o in un prato per la semplice ragione che mi va di farla, questa capriola è una mia espressione non è certo opera d’arte. Invece se voglio che la capriola in questione sia considerata opera d’arte la debbo eseguire in una galleria o in altro luogo purché abbia intorno un apparato che le permetta di essere inserita nel «giusto canale di interpretazione. Dopo di che la capriola verrà fotografata, filmata, le foto e i films saranno venduti, comprati, conservati come spetta ad un’opera d’arte; sulla mia capriola si potranno scrivere articoli dai quali si capirà chiaramente che quella è una capriola d’artista e non certo una banale capriola qualsiasi. A questo punto che altro posso dire?
Solamente che se una donna nonostante tutto vuole entrare nell’Olimpo del potere culturale, lo faccia ma che entri dalla porta principale e non attraverso lo spiraglio aperto dai nuovi ghetti delle mostre per signore». Noi femministe non vogliamo bussare alle porte del potere, noi vogliamo cambiare questo sistema. La nostra riconquistata capacità creativa si esprime ampiamente nella lotta per la nostra liberazione, ed è dalla nostra pratica femminista che potrà nascere, ed è forse già nata, una nostra cultura, un nostro modo di esprimerci che non abbia bisogno di gerarchie di ruoli, di potere, un nostro modo che sia di libertà e non di oppressione.