TESTIMONIANZE

l’aborto terapeutico in Austria

luglio 1975

 

Via crucis di un aborto, ovvero vecchia storia dell’aborto nel racconto di una ragazza austriaca. La sua corsa da un dottore all’altro, sbalzata qua e là dalle diagnosi più strane e contrastanti.

E’ un racconto insieme drammatico e grottesco che, oltre a dare una istantanea chiara del trattamento di una donna che vuole abortire (non solo nel nostro paese) evidenzia in maniera inequivocabile, la leggerezza con cui certi medici sentenziano dopo visite, più che superficiali, addirittura distratte.

Sono nata il 7 marzo 1946 nonostante svariati tentativi di aborto da parte di mia madre, figlia illegittima.

Sono austriaca, e vivo a Vienna. 24 gennaio inizio dell’ultima mestruazione.

7 febbraio concepimento. Fine febbraio, niente mestruazione, sintomi strani tipo una fame rabbiosa, seno ingrossato, qualche nausea, 4 marzo, vado all’ambulatorio di una ginecologa: lei conferma in parte i miei sospetti, dice che con tutta probabilità si tratta di una gravidanza. Progetto di andare, dopo la riscossione dello stipendio, in Francia, con un gruppo di ragazze che vogliono imparare il metodo dell’aspirazione. 28 marzo, torno dalla ginecologa per un controllo (7″ settimana di gravidanza). «L’utero non è affatto aumentato», quindi non si può trattare di gravidanza. La ginecologa mi prescrive una medicina che serve per provocare le mestruazioni. Secondo la dottoressa tutti i sintomi che io accuso sono di natura psichica (gravidanza isterica!). Un altro dottore dà un nome meno drammatico ai miei disturbi: gastrite. Telefono in Francia che non ci vado più. 3 aprile, vado a trovare un’amica che mi consiglia di fare il test di gravidanza. Nicchio un po’ perché costa caro, ma poi mi lascio convincere dalla ragionevolezza del consiglio. Risultato: positivo. Telefono alla ginecologa, le racconto tutto. «Va bene, mi dice, vuol dire che è davvero incinta. Allora torni da me il 15».

Nel frattempo, i soldi per andare in Francia non ce li avevo più. Qualcuno mi disse di una clinica dove si poteva abortire con la cassa-mutua (quando ci sono fondati sospetti che la gravidanza porta gravi disturbi psichici alla donna).

Il medico, chiamiamolo signor Gut, mi scrive un biglietto per un neurologo e questo a sua volta promette il suo aiuto. Tutta la faccenda costa 1100 scellini, 500 per il signor Gut, e 600 per il neurologo.

11 aprile: Al signor Gut in clinica. Gli racconto tutta la mia storia e il motivo per cui non voglio e non posso avere un bambino. Mi risponde che lui non mi può né aiutare né consigliare. (Perché mi ha fatto andare in clinica?). Gli domando se posso mettermi in mutua e mi risponde di sì. Mi visita e dice che l’utero è veramente troppo piccolo e mi prospetta l’ipotesi che il feto sia già morto dentro. Per uscire, mi chiedono ancora 500 scellini. Corro da un altro dottore con la storia del feto già morto e questo mi risponde «mia cara, il suo utero è assolutamente normale per il terzo mese!». Ho quasi perso le speranze di avere un aiuto dalla mutua, anche perché il signor Gut non mi ha rilasciato la richiesta come gli avevo chiesto. Mi faccio prestare 5.000 scellini e decido di partire per Zagabria. Domenica 18 aprile, il mio ragazzo si fa prestare una macchina per accompagnarmi. La mattina però, faccio un altro tentativo alla clinica (una richiesta di aborto per seri motivi psicologici, di darebbe la possibilità di avere l’assistenza mutualistica). Spiego al medico della clinica che il dottor Gut mi ha promesso di farmi abortire se gli procuro la motivazione. Mi domanda se ho depressioni, mi lascia raccontare tutta la mia storia, indaga sui miei pensieri suicidi. Nella stanza ci sono altri due medici, che distrattamente analizzano la mia situazione. Mi domandano alla fine come mai la mia vita sia un tale caos! Mi consigliano di darmi da fare per metterci un po’ di ordine e per trovare dei legami più rassicuranti. Ma mi scrivono la motivazione. Chiamo il signor Gut, gli dico che ho la motivazione richiesta, e chiedo conferma, di poterla usare per abortire con la cassa mutua. Mi dice per telefono di farmi portare in clinica con l’ambulanza all’inizio della settimana e di spedire la prescrizione del neurologo direttamente al suo indirizzo. Non parto più per Zagabria. Lunedì, martedì, mercoledì e giovedì, telefono al signor Gut, per sapere se la prescrizione del neurologo gli è pervenuta, ma mi risponde sempre di no. Pare che questa sia sparita. Mi rivolgo al neurologo e gli racconto di averla perduta e lui mi promette di prepararmene una copia. La vado a prendere venerdì 26 aprile e mi faccio portare coll’ambulanza. Durante il viaggio, questa prescrizione viene letta da una dottoressa, che la fa subito sparire quando si accorge che anch’io l’ho letta.

C’è scritto, schizofrenia depressiva o qualcosa del genere. Dopo quattro ore di attesa nella clinica, viene una dottoressa e mi spiega che l’utero è ormai troppo grande e che posso abortire a patto che firmi una dichiarazione in cui li autorizzo a sterilizzarmi. Vado al reparto del signor Gut e gli chiedo consiglio. Mi risponde che sono un caso molto difficile e che ormai è troppo tardi, per cui l’unica soluzione è l’asportazione dell’utero, quindi la sterilizzazione non è più un problema. Mi sembra che sia tutta una congiura e più spaventata che mai scappo via e il 28 aprile arrivo a Zagabria. Il giorno dopo alle sette di mattina mi presento in una clinica, alle dodici e trenta circa mi viene dato un letto. Ho spostato di una settimana la data dell’ultima regola, in modo da risultare ancora nel terzo mese. L’intervento è incominciato senza narcotico, cioè non aveva ancora fatto effetto quando è incominciato. Gridavo e il dottore che non parlava il tedesco, mi ripeteva spazientito «Frau, Frau». Però l’ospedale era l’esatto opposto del nostro. Non c’era separazione tra partorienti e «assassine», nella mia stanza c’era un’altra donna che aveva abortito come me e una che aveva avuto un bambino. Le infermiere erano simpatiche e scherzavano con noi. Le pazienti, quando sono in grado di farlo, aiutano in cucina, vanno a prendere garze e fasce, aiutano le malate che non possono muoversi. Chi può alzarsi prende i pasti in una sala comune; insomma non si ha l’impressione come spesso nei nostri ospedali che la morte stia per bussare ad ogni porta.