Sylvia Plath, una morte al femminile
Sylvia Plath, una poetessa americana, nata a Boston il 27 ottobre del 1932, di media borghesia americana (suo padre era biologo e morì quando lei aveva nove anni) bruciò l’arco della sua carriera di donna e scrittrice in soli 30 anni, suicidandosi in uno squallido appartamento della periferia inglese, nel febbraio del 1963. Le sue poesie furono pubblicate postume, tranne alcune che uscirono su riviste dell’epoca e la raccolta The Colossus che uscì nel ’60. Le altre: Ariel apparvero nel ’65 e seguirono Winter Trees nel ’71 e Crossing The Water. Fu quasi per caso che lessi le prime righe di una sua poesh: I Tulipani, in una raccolta antologica di poesie contemporanee. Mi colpì subito la lucidità con cui questa giovane donna esprimeva il dramma della esistenza come chi è consapevole della propria follia e la vive fino in fondo, opponendola ad un mondo di falso moralismo e salute mentale. La Plath diceva di guardare la realtà come attraverso le lenti deformanti di una campana di vetro. Era proprio questa campana di vetro, calcata violentemente sulla sua testa, dentro cui si sentiva soffocare, ma anche difesa dall’urto fisico con il mondo, il simbolo di un mal’essere più generale, rintracciabile sotto la leggera pellicola di un mondo tutto volto al positivo e al benessere sociale. Questa esperienza di negatività assoluta, trovò in lei una particolare sintesi espressiva: prese se stessa come campo di indagine inoltrandosi in un vissuto di sconforto, di desiderio di passività assoluta, di staticità emotiva come chi definitivamente depone le armi e trova nella morte una inevitabile parentela. Continuando a leggere, sentivo che questo mondo aveva a che fare con un’area inespressa della mia realtà, mi coinvolgeva: in realtà mi faceva anche paura:
«I Tulipani sono troppo eccitabili, è inverno qui.
Guarda come tutto è bianco, calmo,
sopraffatto di neve.
Mi apro alla quiete, giacendo
da sola calma
Come la luce giace su queste bianche
mura, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno, non ho niente
a che fare con le esplosioni.
Ho consegnato il mio nome
e vestiti alle infermiere
La mia storia all’anestesista,
il mio corpo ai chirurghi».
Ecco come Sylvia Plath riusciva a decifrare il suo vissuto in termini di rinuncia radicale alla vita, pensai in un primo momento. Più tardi capii che non si trattava affatto di una ririnuncia ma una scelta quasi di qualità per la morte, quelle parole parlavano di rinuncia a tutto ciò che l’implicava emotivamente, in fondo, come estrema difesa, estrema liberazione contro una società che le offriva sorridente il velo della positività e dell’efficienza dei valori morali dominanti. Bastò la breve permanenza in un ospedale, la prima di una serie, per farle esprimere quel senso di annullamento della propria identità, dell’assenza del corpo nel fallito controllo della propria malattia che chi è ricoverato vive, e soprattutto, riuscì a tradurre il personale in una esperienza globale in cui molte donne possono riconoscersi. Il suo disagio che si convertiva in desiderio di essere ridotta a sasso o a pietra, di avere problemi di pesantezza e a volte di inevitabile violabilità del proprio corpo, sentivo che anche questo mi riguardava, si riferiva al mio mondo di donna.
Volevo saperne di più: non era una confessione spassionata e solitaria ma una testimonianza di esperienze di molte donne americane degli anni cinquanta. Si stavano saldando proprio in quegli anni in America, le regole del decoro familiare e dell’ipocrisia nei rapporti personali, il tutto in una cornice di falso puritanesimo. Si parlava di guerra fredda e intanto si perfezionavano le tecniche per lo sterminio di migliaia di persone per un nuovo concetto di morte: quello della morte programmata per il genocidio, come risultato di una politica di vasta espansione capitalistica, di dominio e oppressione. La Plath parlava di morte e nausea come chi non riesce a trovare un’alternativa fuori dalle caldi pareti domestiche e della volgarità di rapporti umani basati sul dominio e la competizione.
Chi poteva digerire un discorso così deciso e violento tanto più se proveniva da una donna? Non c’era neppure una traccia dello stereotipo femminile creativo. Mai un accenno al sentimentale, la sua ironia era troppo intelligente per scadere nel puro confessionale. Intanto si profilava già da allora lo spauracchio del caso patologico; ma la sua rabbia era molto più storica, proveniva da decenni di forzato silenzio dove la donna non aveva potuto esprimere nulla del suo vissuto.
E’ bene ricordare quello che scrisse Simone De Beauvoir a proposito dell’interconnessione arte/vita. La donna ha un’esigenza diversa e parte quasi sempre da se stessa perché, quando esiste coscienza delle sue contraddizioni, parte da quelle per riscattare quella parte del «se» reso autentico da una graduale spoliazione di quei canoni che di solito ci si aspetta dalla donna. Ecco perché una donna/autrice difficilmente si distacca da quella realtà cercando di modificarla ponendo se stessa come soggetto creativo. Invece per la Plath risultò qualcosa d’altro: qualcosa da studiare per emarginare, per sottolineare la diversità. Il padre, di origine tedesca, era morto che lei era ancora bambina. La polemica sul complesso di Edipo divenne l’interpretazione base, come se la storia di una donna si riducesse alla problematica del rapporto col padre. Il fatto è che fu troppo poco filiale e troppo sensibile alla violenza dei campi di concentramento e alla ferocia dei persecutori. Identificò il padre, senza risparmiarlo, ad un nazista in una poesia che l’ha resa celebre proprio per sottolineare l’amore e l’odio che l’univa a questo padre. Bollata come figlia fu il rovescio della medaglia dell’aspirante madre. Uno dei temi fondamentali delle sue angosce era la sua posizione di madre. Non c’è nulla di più triste che ritrovarsi nella condizione di madre proprio nel momento in cui si riconosce che non si è scelto in prima persona qualcosa che riguarda così da vicino il tuo esistere fisico. Si è potuto avere lo spazio di essere qualcosa d’altro, quale era l’alternativa? Inevitabilmente l’evento di una maternità non consapevole viene recepito come violazione, svuotamento del proprio essere, sangue e dolore. Sylvia Plath sente una profonda malinconia per una gratificazione materna che le manca totalmente, non solo, ma l’evento è frustrante perché effettivamente doloroso. Perché ci si aspetta sempre che la nascita di un figlio non abbia niente a che vedere col dolore fisico, con lo sconvolgimento doloroso del corpo? Ecco il fatto puramente meccanico dell’orologio dell’amore da cui nasce una «statua», qualcosa di diverso da me, qualcosa la cui estraneità può mettermi in imbarazzo, qualcosa che già non m’appartiene più: «L’amore ti caricò come un grasso orologio d’oro. La levatrice ti batté i piedi e il tuo grido sicuro prese posto fra gli elementi. Nuova statua. In un museo infestato da correnti. La tua nudità getta ombra sulla nostra sicurezza. Noi attorno come vuote pareti». Si unisce a questo un desiderio di passività assoluta, di pietrificazione e desiderio di incorporazione con gli elementi naturali, la bellezza vista nell’assenza di movimento e di tempo. Ecco perché la Plath non era riuscita fino in fondo a rispettare il mito dell’efficienza come tipico modello dell’americanata femminile ma anzi recupera un’area della sua follia per esprimere il deforme che vede e che fa parte della sua esistenzialismo. Si identificava sempre con il più debole, ecco perché era sensibile alla morte programmata, studiata, nei campi di concentramento e tra le vittime della bomba atomica. Ma vediamo più da vicino la sua storia. Va a New York per una borsa di studio. Il suo romanzo autobiografico (The Bell Jar) inizia con la notizia che i Rosenberg stavano per essere portati alla sedia elettrica. Ecco di nuovo l’ossessione per la facilità dell’evento morte procurata socialmente per chi è troppo scomodo alla politica del potere. Ci descrive la relazione tipo col ragazzo americano, il rapporto sessuale come caccia alla preda, la pretesa verginità, i rapporti competitivi fra coetanee. Torna a casa, tenta il suicidio e si nasconde in cantina.
Viene ritrovata tre giorni dopo. Ha solo diciannove anni. Si sposa ancora giovane col poeta Ted Hughes. Qui comincia la sua carriera di donna sposata, ha due figli, il piccolo e chiuso menage familiare è come una prigione in cui tenta di difendersi dalla realtà esterna con i suoi barattoli di marmellata e le pentole di rame, che ironicamente descrive, con nausea. Un critico, l’Alvarez, editore e amico del marito, disse una volta che ignorava come questa moglie deliziosa nascondesse dietro una quasi perfetta regolarità una lacerazione profonda che le faceva da spinta alla creazione poetica come unica e definitiva alternativa alla morte. Le crisi si susseguono, entra in ospedale psichiatrico, dove subisce l’esperienza dell’eletroshock. Indirettamente il libro è una critica spietata a questo metodo curativo.
La tematica dell’internamento sarà decisiva per lei, e descriverà tutta la negatività, la violenza dell’ospedale, l’autorità anonima di chi controlla l’officina, l’urto col metallo. Così una volta uscita, nonostante i suoi sforzi per trovare una stabilità emotiva, fallisce nel tentativo di ricercare sicurezza nel riconoscimento della sua posizione sociale di donna sposata.
Importante il dato biografico che scelse di passare da sola gli ultimi anni della vita sua: infatti poco prima del suicidio si separa dal marito e resta sola a casa con i figli. Nell’ultimo periodo scrive febbrilmente. Si alza la mattina presto, prima che i bambini si sveglino, e compone le sue più belle poesie. Una di queste, scritte forse nella settimana stessa in cui morì, ci lascia l’immagine di una donna che arriva alla perfezione nel momento in cui muore. Le parole sembrano un tragico presentimento, si avverte anche uno strano timore che le venga negata la possibilità stessa di morire. L’ironia raggiunge livelli altissimi quando descrive il modello di bellezza greca i cui canoni erano appunto: armonia, staticità, assenza di passioni, e lei ne deduce la morte. Se questa è la donna, lei sembra dire: eccomi, in una perfezione da cui emerge l’ironia di una illusione storica poiché questa bellezza equivale alla morte. Era questa la bellezza a cui lei voleva arrivare? O si trattava solo di una illusione, di una maschera di perfettibilità che violenta il sorriso femminile rendendolo piatto e sterile per secoli?
Il corpo non è più portatore di vita, ma sembra trascinarsi come un fardello pesante, carico di pietà per una madre che non ha più niente da offrire, il cui sesso rassomiglia ad una rosa avvizzita.
L’insoddisfazione radicale divenne rifiuto per la vita, questa fu la sua alternativa. La sua morte fu l’ultimo anello della catena di una realtà dove la morte psichica diventa dominante dietro l’apparente funzionalità delle istituzioni e delle cose. Fu lì che la Plath seppe coglierne tutta la deformità e adoperò per questo il suo vissuto personale che divenne corpo e carne del suo materiale poetico. Fu anch’essa una morte storicamente determinata dalla frustrazione continua e senza intermediari di un processo di reificazione dove chi è emarginato gioca la parte peggiore nell’evoluzione passiva e oppressiva di chi ha, come unico ruolo sociale, quello di essere oggetto di potenziale sfruttamento.