RICERCA
storie di brigantesse, drude e manutengole
figure di donne che hanno attraversato storie di criminalità, considerate non un esempio “fulgido” hanno rappresentato una terrificante incarnazione del male, da questo forse deriva la rimozione delle loro vite e della loro sofferenza, quella che pubblichiamo è un briciolo di verità strappata alla polvere degli archivi
Strane cose accadono nella lingua italiana: molti sostantivi, indicanti attività o mestieri, sono stati concepiti, nei vari momenti dell’elaborazione conscia e inconscia della lingua, in canoniche ed esclusive desinenze maschili: da “dottore” ad “avvocato”, passando per “brigante”. Termini-confine per campi in cui la presenza della donna era esclusa a priori. Quando poi accaddero mutamenti sociali tali da consentire uno straripamento femminile entro argini inconsueti, le intruse vennero bollate anche linguisticamente, e furono, con un fondo di ironia ed eclatante cacofonia, non le dottore ma le dottoresse, non le avvocate ma le avvocatesse, non le briganti ma le brigantesse. Tali sono gli artifici acrobatici della lingua quando è chiamata a definire qualcosa che la società — cioè il suo substrato — non contempla. Così nacque, in un clima di leggenda, la Papessa, e alla moglie del Doge di Venezia fu affibbiato il ridicolo “Dogaressa”… Lo stesso accade anche quando la scomoda infrazione diventa costume sociale comunemente accettato: la massa imponente delle donne che insegnano non sono dette “professore”, bensì “professoresse”! Ma se le infrazioni a cui si è chiamati a dare un nome sono a volte componibili entro schemi sociali accettabili, altre volte, tutti gli anni del mondo non riusciranno ad escludere l’esecrazione, il disgusto, e la paura. Questa nota è un pretesto per introdurre la vita e la morte rimosse delle rimosse e rifiutate brigantesse, il cui nome pare quasi uno scherzo, e la cui storia fu annullata nella Storia che decise di farle scomparire.
quando l’Italia dichiarò guerra al sud
Nel 1860 viene unificata l’Italia, anche se ci vorranno ancora dieci anni per sciogliere nodi fondamentali, quali ad esempio la Questione Romana. E il Primo Ministro Cavour, prendendo la parola nel primo parlamento unitario, nel ’71, dirà che lo sapevano anche i bambini, che fatta l’Italia bisognava fare gli italiani. Ciò che i bambini ignoravano, poiché nessuno glielo diceva, è che, per imporre il dominio dello Stato Piemontese sul Meridione, non si esitò a dichiarare una nuova guerra: quella per l’egemonizzazione. I soldati italiani furono mandati a placare col sangue i tumulti popolari di quanti, da Roma in giù, non si sentivano rappresentati da uno stato “francese”, che imponeva tasse, obbligava i loro figli al servizio di leva obbligatorio, poneva la sua giurisdizione su tutte le forme amministrative. Se alcune menti liberali “illuminate” fecero inchieste approfondite sui disagi del Sud é se ai problemi del brigantaggio il Parlamento dedicò ore di seduta, la linea che fini col prevalere fu la più dura che si potesse immaginare: la legge Pica istituì tribunali militari, novantamila soldati furono mandati a combattere l’eversione, le province meridionali furono in breve “pacificate”. Fu detto che il brigantaggio era un fenomeno “reazionario”, ispirato e sovvenzionato dalla spodestata dinastia borbonica: in realtà, se questo fu vero, lo fu solo in quanto rifiuto del Governo nuovo e lontano, e fu insieme a molte altre verità: verità contraddittorie, e difficili da ricostruire oggi, dal momento che poche sono le reali testimonianze dei briganti (e non si possono considerare tali quelle estorte negli interrogatori), e gli altri, gli osservatori che allora ne scrissero, agirono sempre nell’ambito di un’ottica criminalizzante, e giustificatoria degli eccidi compiuti dallo Stato. Quello Stato che, come ha scritto Gramsci, “ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio dei briganti”…
Mi affascinava, questa storia tutta da definire e facile da amare. Poi, c’è stata un’intuizione, un attimo, quasi di trance, la sensazione netta di qualcosa che non quadrava, che mancava. Scoprii cosa fosse trovando, in un libro, foto di brigantesse: con il fucile in mano; le espressioni severe, ma non tristi. Tutte le foto erano state scattate dal fotografo dell’esercito, al momento dell’arresto delle donne, e nei loro sguardi, se c’era sfida, non era una sfida “forzata”. Traspariva, invece, una grande naturalezza. Qualcuna poi era stata fotografata dopo l’uccisione, ed era nuda: uno sfregio in più.” una repressione in più, più voglia selvaggia di cancellare. Di questo ebbi presto la conferma: le notizie sulle donne briganti sono poche, difficilissimo è ricrearne un percorso, perché tutti hanno cercato di rimuoverle. Nelle memorie degli ufficiali del tempo, dei cronisti prezzolati, degli pseudo-scienziati, le tracce del loro passaggio sembravano non esistere. Addirittura la smania puntigliosa di Lombroso le estromette: dopo aver analizzati i crani dei briganti caduti per dimostrare i presupposti delle sue teorie fisiognomiche, ebbe a dire, in appena due righe, che fra i briganti c’erano anche delle donne, ma erano talmente bestiali e tremende che è meglio dimenticarle per sempre.
una storia di silenzi
Così ne parlarono, non parlandone. Resero entusiasmante e malinconico lo sforzo di chi, oggi, va a cercarne le tracce umide di sangue ed (arcanamente) di vita. Bisogna chiarire da subito però alcune cose: trovare tracce di vita dimenticata è sempre, per chi fa ricerca, opera affettuosa, quasi di neofita, è un appassionato protendersi su un arco di storia, è un rannicchiarsi, poi. allegro e soddisfatto, come un animale, con la sua preda nella tana. E allora, ritrovare tracce di donne nel brigantaggio meridionale è stato come, che so. trovare gli atti del processo subito da Giordano Bruno? No! Lo specifico, come termine, è ormai abbastanza desueto. Ma ha lasciato tracce nella coscienza: più sentimento che ideologia, è diventato, anche, la matrice da cui nasce la trasognata concretezza della volontà di ricerca. Ed è ricerca anche dolorosa, per superare la fitta fatica della polvere. Storie di donne rimosse: è un episodio, ed è già universale, la coscienza dell’emarginazione delle donne è ormai un’organizzazione mentale, uno schema in cui. continuamente, vanno a confluire i volti decifrati risorti dal nulla.
E tutto. Non è poco e fermiamoci qui. Per carità, non andiamo oltre, non diciamo che. come sostiene Prancamaria Trapani (autrice dell’unico libro dedicato alle brigantesse) “il brigantaggio femminile fu un fenomeno psicologicamente autonomo collaterale e distinto rispetto al brigantaggio maschile… Una prima ribellione femminista allo stato di soggezione atavico e tradizionale della donna… una sorta di suffragismo del subconscio, addirittura un fenomeno di parossismo asociale e anti-legalitario… “.
E violenza ed antistoricismo attribuire categorie postume di esperienze soltanto consce, forse, di “scellerata” coscienza della giustizia. Né compiamo quel terribile, nefasto rito dell’attualizzazione. tracciando paralleli inverosimili e contorti tra le donne briganti di allora e le donne oggi nella lotta armata. Né mi sembra il caso di improvvisare storie di eredità morale, o di continuità ideali che travalichino il semplice, biologico, tremendo costume dell'”attitudine” di subire il silenzio: poiché significherebbe appropriarsi, riutilizzare.
Amo di più l’umiltà maieutica ed esaltante di far nascere qualcosa o qualcuno dalle nostre pieghe più recondite, e poi contemplarlo, con simpatia amorosa. Come quando partoriamo un essere nuovo e lo osserviamo, con curiosità sempre benevola.
michelina morì digrignando i denti
Jacopo Gelli ebbe “la buona ventura di mettere le mani sopra una quantità importante di carte documentarie”, abbondonate da un’organizzatore del brigantaggio. Così scrisse Banditi briganti e brigantesse nell’800: con la prosa in auge nel ’31. e con il filtro delle sue personali interpretazioni.
É lui a parlare di Gioconda Marini. Maria Capitanio e Carolina Casale, catturate con la banda di Giacomo Ciccone: “Le donne vestivano abiti maschili alla foggia brigantesca e come briganti avevano sparato con accanimento contro i nostri soldati, finché, circondate da ogni parte, furono disarmate con la violenza, dimostrandosi decise a non arrendersi. La prima a svelare il suo sesso fu la Gioconda Marini da Cervinara, sorella del capobanda Michele Marini. Sentendosi apostrofare con dileggio da taluni soldati per l’inconsueto sviluppo del ventile disse di essere femmina incinta di sette mesi in procinto di diventar madre per opera del suo amante, Alessandro Pace.
Indicava poi, due altri dei briganti cattatati, al par di lei femmine. Ed erano la Capitanio di San Vittore, amante del brigante Antonio Luongo, rinomata per la risolutezza nell’attaccare e svaligiare le persone, e la crudeltà nell’eseguire le decisioni del capobanda Ciccone, o per soddisfare la propria libidine di sangue la cui vista la esalatava. L’altra era la Casale, di Cervinara, amante del brigante Suppiello, essa pure da quattro mesi nell’attesa della maternità, (…) La ferocia di queste brigantesse era proverbiale. Però la palma spetta a Cristina Cocozza, amante del capobanda Colamattei, catturata il 13 aprile 1868 da una colonna del 68° fanteria. La cattura di questa donna durante l’attacco nei pressi di Vallerotonda, costrinse il Colamattei a costituirsi, lasciando nelle mani dei nostri soldati una quantità di armi e di munizioni, molte vettovaglie e quadrupedi, abbandonati nella fuga dai briganti. Queste donne drude dei malandrini, erano le più sicure confidenti ed informatrici delle bande, pronte a morire piuttosto che tradire i loro. Esse, ora camuffate da briganti, ora da pastori, ora nel loro abito di donna andavano e venivano inosservate, portando notizie precise e sicure sui movimenti delle nostre truppe, o rifornimenti di munizioni, che celavano sotto le ampie sottane, ai compagni”.
Ma non tutte le “drude” avevano questa vocazione alla fedeltà. Gelli ci racconta di Mariannina. la donna di Caruso. Il quale Caruso, al termine di numerose battaglie, “fu preso caldo caldo nel suo nido d’amore, mentre dormiva sotto la vigile custodia della sua Mariannina. Egli è, che la cattura non fu come si suol dire: spontanea. I diavoli della gelosia, o quelli dell’oro o gli altri della vendetta dovevano averci messo lo zampino. Caruso da più giorni scappava, come cervo davanti a muta, all’inseguimento dei nostri soldati, che non gli davano requie. Stanco, sfinito, disfatto, estenuato, dalla fuga perenne e dai continui allarmi cedette al bisogno di riposo, sebbene sapesse i regolari e le guardie nazionali poco lontani dal suo rifugio. Si addormentò, sicuro che la vigile compagna, la cara Mariannina, lo avrebbe svegliato in caso di pericolo. Meglio Caruso non poteva affidarsi!”
La sensibilità maschile di Gelli, peraltro sempre schierato con tutto sé stesso dalla parte dell’esercito e della legge, questa volta ha lievi sussulti di fratellanza. Il bandito tradito dalla donna è un cervo inseguito, è l’unico brigante a ricevere una descrizione “umana”… Per Mariannina, naturalmente, il metro è diverso, e le accuse “femminili”: “Data la passione per la vita avventurosa della Mariannina, non è escluso che abbia consolato tanto il Caruso quanto Nico Nanco (altro celebre bandito dell’epoca, n.d.r.)”. Poco più in là, troveremo data con non-chalance, la notizia che Caruso aveva ucciso il padre di Mariannina. Ed è ozioso discutere se le notizie qui riportate siano tutte false o tutte manipolate: ciò che emerge con chiarezza è l’esistenza di un diverso criterio per descrivere, nell’ambito della stessa “criminalità”, gli uomini e le donne. Per le quali donne la trasgressione è sempre accompagnata da valutazioni di tipo morale, in cui si rintracciano tutte le valutazioni affastellate nello stretto spazio tra le definizioni: madre-moglie-prostituta. Della banda di Schiavone “facevano parte due donne: Filomena Potè, amante titolare, e Rosa Tardagno, diremo amante… supplementare. L’una e l’altra si eguagliavano nella crudeltà, nella temerarietà senza pari e nell’odio dei nostri soldati. Se taluni di questi nostri cari figlioli cadeva nelle mani di quelle due male femmine, era certo di finire i suoi giorni tra le sofferenze più oltraggiose e atroci!” In un’occasione poi il Gelli è costretto a nominare l’esistenza di una capo-brigante. Devono comunque essercene state delle altre, per le quali l’esercizio del comando, rispettato e tenuto in considerazione dai loro compagni, è considerato in qualche modo “Stimmata” di una crudeltà eccessiva tra le eccessive crudeltà dei briganti. Francesco Guerra non era un vero capo: “La sua banda non era numerosa, appena una decina di masnadieri, come lui decisi a tutto, i quali, compreso il Guerra, obbedivano ciecamente ad una donna segaligna, brutta, tutta nervi e volontà, Michelina Di Cesare, da Caspoli, druda del Guerra”. La banda infine affrontò, sul Monte Marrone, la sua ultima battaglia, “alla testa di quell’anima dannata della Michelina”. I colpi dell’esercito stermineranno questo gruppo. “La rea donna aveva combattuto come una leonessa. Colpita al capo, la femmina morì digrignando i denti per la rabbia di essere stata vinta e non per l’orrore dei misfatti compiuti”. Ma la bellezza non ispira più simpatia, anzi, tutt’altro: Maria
Oliverio “passava per essere la più bella del luogo, con il suo abbondante casco di capelli corvini, e con gli occhi nerissimi rispecchianti un’anima altera e decisa. Il Monaco un giorno venne a questione con un proprietario del paese e, in un momento d’ira, imbracciò lo schioppo, sparò e lo uccise. Per sottrarsi all’arresto si immacchiò e quindi si fece brigante, raccogliendo intorno a sé un buon numero di malviventi. Mentre il marito faceva, suo malgrado, uccel di bosco, la moglie venne a conoscere che la sorella era stata amante di lui. Non tollerando che essa avesse vissuto o potesse vivere di nuovo di furto sul suo amore, per gelosia aspra decide di vendicarsi. Con un pretesto fece dormire in casa sua la sorella e durante il sonno la crivellò di ferite con un coltello, onde ne morì. Compiuta la vendetta raggiunse il marito nella macchia e, vestitasi da uomo brigante, in breve divenne la dominatrice di tutta la banda”. Finirà condannata a morte per il tradimento di uno dei suoi.
i misteriosi rapimenti di concetta
La scelta di riportare così ampi stralci delle descrizioni del Gelli nasce da due ordini di considerazioni: il primo è quello di tracciare, prima di andare avanti, praticamente tutto il parnorama delle notizie riportate sulle brigantesse, e delle interpretazioni di esse date, poiché quella del Gelli è l’unica raccolta di “aneddotica” in proposito; il secondo è di far parlare questo testimone così inquadrato e di far raccontare a lui stesso l’infinita malafede della storia, che, se in questo caso esalta all’ennesima potenza il disgusto per le donne, in tutti gli altri casi, negli innumerevoli volumi e saggi scritti sul brigantaggio, ne cancella la presenza.
Così Anna Cartabelotta, Rosa Reginella incinta di sette mesi e condannata a venti anni, Maria Patulli, Generosa Cardomone, Filomena Cianciarullo in procinto di maternità, Chiara Nardi e tante altre, non hanno che il nome e l’indicazione del brigante, che si supponeva loro amante, per disegnar loro un volto umano.
Cercando negli archivi polverosi, massacrandosi gli occhi per decifrare grafie illeggibili e inchiostri stinti dal tempo, si ritrova qualche storia di donna, per quanto almeno è possibile ricostruire la storia dai verbali dei processi, in calce ai quali la croce per firma tracciata con mano tremante da tutto il senso e l’orrore di un’emarginazione antica.
Le briganti che emergono da questi documenti sono molto lontane dalla ferocia che il Gelli attribuisce loro. Per fortuna o per sfortuna non saprei dire, per riprova però, questo si, delle profonde bugie riportate nei tempi. E così Maria Giovanna Simoncelli. contadina, di anni 22, appare in giudizio insieme a Michele Angelo Cipriano di anni 24. Lui dice di essere diventato brigante “peri bistrattamenti ricevuti dal suo padrone Antonio Santoro”, lei invece racconta che “amoreggiando con Cipriano fin dall’aprile 1863 fu poi arrestata come sospetta manutengola e poi mentre stava in paese un tal Michelangelo Majorano andò per ben tre volte a persuaderla perché seguisse il suo innamorato, ma essa essendo restia non voleva”. La storia termina con un rapimento: Maria Giovanna viene attirata in un tranello e portata da Cipriano. E questo è quanto pare, lei ammetta, perché “alle altre domande è negativa”.
Dalle carceri di Castelbaronia, scriveranno all’avvocato fiscale per chiedere direttive: è stato infatti ordinato il trasferimento della Simoncelli ad Avellino, ma “si presenta la difficoltà che è incinta di sette od otto mesi, perciò la prego scrivermi se deve essere tradotta costei in Avellino subito, o se crede meglio attendere l’esito della gravidanza”.
Una nuova lettela, una quindicina di giorni dopo, dichiarava che Maria Giovanna era “impossibilitata a rimanere in carcere”, e chiedeva che “fosse data in consegna fino allo sgravio, poiché veramente soffre delle continue convulsioni”.
Le immagini inedite che trapelano dai verbali sono lontane anni luce da quelle stigmatizzate da Gelli, sono a volte cariche di profondo orrore, quasi sempre delineano delle vittime. E la vittima più orrorifica è senza dubbio Angiolina Somardpni. “druda” di Mauro Mugnolo, e da lui, confessa il “pentito” Curcio, ammazzata. L’autopsia sul suo cadavere rivela una furia scatenata e di segno molto preciso: ha ferite sulla testa, nel viso, sopra la ghiandola mammaria destra, sotto la mammella destra, e nel torace, trasversalmente all’ombelico.
Due vittime, una dei briganti e l’altra della legge, sembrano essere Varchione Concetta e Marri Luigia, imputate “la prima di brigantaggio e la seconda di complicità in detto reato “. Le notizie rintracciabili, specie nel caso di Concetta, appaiono contraddittorie, e difficili da comporre. Ma veniamo al caso. Le guardie circondano il villaggio Castelli per sorprendervi i briganti; arrestano Concetta, di anni 20, mentre fugge dalla casa di Luigia. “onde aveva pernottato la notte coi briganti”, “vestita da uomo con abiti poco comuni in questi paesi”. Segue una serratissima indagine sul conto di Concetta, che già era stata arrestata per nove mesi per quella che oggi si chiamerebbe “partecipazione a banda armata”.
Ma facciamo raccontare i fatti da lei: “Io venni catturata…, dai briganti capitanati da certo Pasquale Riccio che mi deflorò e col quale stetti sette mesi circa finché lui riuscì di fuggire ed andai a presentarmi a Napoli al generale Lamarmora, il quale mi fece processare nelle carceri di Cervinara, come mi fossi sgravata di un bambino, quindi venni tradotta a Campagna (…) indi posta in libertà e diretta con foglio di via a Cervinara venni nuovamente catturata dalla banda di Pasquale Mortone col quale stetti una ventina di giorni… “, ed il racconto prosegue spiegando che il Martone era stato istigato a catturarla da certi suoi conoscenti coi quali aveva avuto a che dire, e la storia, in realtà un po’ fumosa del doppio rapimento, insospettì moltissimo la Corte, ed anche il comandante dì distretto, il quale, parlando di lei. dice che “poco tempo dopo che era uscita dalle carceri si faceva prendere dalla banda Martone… il che fa supporre che vi concorresse la sua volontà”. Ed il giudice Alfonso Rossi di Cervinara è ancora più esplicito: “da tempo veniva ricattata da un ‘orda brigantesca ignorandosi il luogo, e dal capobanda Pasquale Ricci venivale rapito l’onore, e posseduta dallo stesso per più mesi (…). E finalmente non debbo tacere che vuolsi pure che la Varichione (…) volontariamente si associa ad altra banda malfattrice che esisteva in questi monti… ”
Concetta discolpa del tutto Luigia, dicendo che i briganti erano entrati nella sua casa di soppiatto e che lei neanche era presente. La giunta municipale stende i suoi rapportini. E Maria Luigia è “già di pessima condotta sotto ogni rapporto, mentre la pubblica opinione la ritiene come in continuato contatto coi briganti, e che li riceveva a casa propria”.
Infine una serie di testimonianze a lei favorevoli, è l’aiuto di Concetta che, per discolparla totalmente, accusa del reato che Luigia è chiamata a scontare una vedova. Rosa Mischiatello, che però è già riuscita a fuggire, riescono a discolpare totalmente Luigia dall’accusa di “manutengola”, cioè di “fiancheggiatrice” di briganti: una definizione che apre un ampio spaccato femminile in una storia parallela a quella sotterranea dei briganti, e sotterranea ancora più di questa. Manutengolo era chi portava viveri, chi riferiva dei movimenti delle truppe, chi accettava soldi per fare spese per conto dei briganti, chi li nascondeva, chi era insomma loro complice. A scopo “istruttivo”, le pene per queste persone erano fortissime, praticamente pari a quelle per brigantaggio vero e proprio, e le sentenze venivano affisse ai muri dei paesi “al terrore dei malvagi”.
Forse perché molte delle attività che si possono svolgere per aiutare un gruppo clandestino senza parteciparvi attivamente sono spiccatamente femminili, (dal lavare i panni all’essere, come più d’una volta alludevano i verbali, “donna di piacere”), le “manutengole” superano di gran lunga i “manutengoli”, e l’inquisizione scatenata contro di loro non dimentica mai di avere a che fare con donne…
Così Lucia Pisaniello. minore di anni 21. è costretta a scrivere questo aberrante “discarico”: “…Vieneaccagionata di essere stata donna di piacere dell’estinto famigerato Calabrese, e da una voce che circola anche fra gli ufficiali della guarnigione che risiede in Cervinara, che asseriscono che, il detto brigante Calbrese, dopo essere ucciso, fu trovato affetto da mali venerei. La supplicante per questo fatto domanda una perizia per mezzo di professori sanitari, i quali osserveranno la richiedente se trovasi pure infetta, ovvero conservi tuttora il pieno stato virginale”. Le saranno dati dieci anni, in considerazione della sua età. Sua madre ne prenderà venti.
La parentela con briganti, poi, è una sorta di predestinazione. Per esempio, quando fu arrestata Maria Maddalena Taddeo, il municipio del suo paese scrisse sul suo conto: “deve ritenersi di pessima condotta in quanto ai fatti di complicità al brigantaggio, perché essendo la stessa figlia e nipote dei briganti Taddeo non ha mancato fornirgli del bisognevole seguendoli per le montagne giusta la voce pubblica”. Maria Maddalena Taddeo era una donna perversa di anni 13! Alle parenti “più parenti”, cioè alle
madri, si chiede, per amore o per forza, la delazione, in maniera, però, alquanto contraddittoria, poiché se Carmina Riccio, madre di Michele Cillo. “ha promesso’ sempre all’autorità di farlo presentare, ma giammai si è verificato, in conseguenza si crede che vi abbia avuto corrispondenza e connivenza”, Cioffi Diamante, madre dei Taddei. “è sempre stata negativa far presentare i figli, ed imprecava la madre di Cillo che voleva far presentare il figlio , quindi si presume connivenza” Anche per tre donne di Bisaccia, Grazia Gervasio. Lucia Gentile e Antonia Fierro. si mobilita tutta la potenza inquisitoria. La sentenza le giudica favoreggiatrici, non senza aver scrutato con occhi maligni e attenti tutta la loro vita. Probabilmente tutta la volontà di scandagliare le loro esistenze nasce dal fatto che. nel 1861, Francesco Gentile si era dato al brigantaggio. Ciò che è sicuro però è che nessuna sfera della loro esistenza sfugge all’analisi più impietosa. Nell’atto d’accusa contro di loro gli indizi sono già “prove”. Grazie alla testimonianza di un vedovo quarantenne, di un possidente di 63 anni, di un luogotenente della guardia nazionale e di un Economo Curato, si accerta dunque che “le imputate, le quali prima che il Francesco Gentile si desse nel 1861 al brigantaggio si trovavano nella estrema miseria, ebbero dopo tale epoca a condurre una vita comoda e agiata relativamente al loro stato; che la madre e la figlia Gentile si assentavano di sovente sul far della notte portandosi alla campagna d’onde non erano di ritorno che al mattino di buon’ora; che tali incursioni notturne venivano pur fatte dalla Fierro Antonia per portarsi a trovare il fratello brigante, ed il Francesco Gentile suo cognato, con cui faceva commercio adulterino; che le imputate furono vedute a lavare e fare asciugare camicie ed abiti da uomo, mentre non erano pubbliche lavandaie, e non avevano in casa uomini, cui potessero appartenere dette camicie ed abiti; che mentre prima del brigantaggio non riuscivano a pagare la pigione di casa, dopo tale epoca ebbero a pagare nel 1862 ducati 49 quale prezzo di una casa avuta in affitto… “.
Brigantesse. manutengole e drude che fossero, le donne di quei luoghi e di quegli anni parteciparono attivamente al brigantaggio. E tanta partecipazione non può che dimostrare che la loro fu una adesione viscerale, profonda, di donne, sprezzante, di emarginate, incazzata, di donne che amano, e non c’è da scandalizzarsi… a patto che non sia solo l’amore, troppo spesso sacrificale, a ricordare la lotta silenziosa, massiccia e vinta che esse portarono avanti. Trasmettendo la cultura.,portarono in se stesse questo amore e lo tramandarono, amore che può diventare anche un disperato, dolente odio.