di ritorno alla Cina, riflessioni di una compagna
Dall’esperienza di un mio viaggio in Cina ho tratto argomento per alcune riflessioni sulla condizione della donna cinese e mi sono posta alcuni problemi su cui sarebbe possibile aprire il dibattito in un momento di riflessione del femminismo perché esso non diventi l’eletto rifugio-ghetto delle nostre sofferenze e frustrazioni provocate dalle laceranti contraddizioni del capitale, ed inconsapevole strumento della borghesia, che farebbe della liberazione della donna solo il privilegio di un suo strato scelto e perché le conquiste raggiunte negli ultimi anni non vengano vanificate.
Ciò che mi ha colpito subito nella donna cinese è la profonda sicurezza che ha di se stessa, che le deriva dalla coscienza di poter essere per la prima volta soggetto storico della società in cui vive. A Wu-Han, nella provincia del Hu-bei, abbiamo assistito ad un’operazione di tumore alla gola con l’uso dell’anestesia per agopuntura elettrica da parte di un’equipe di sei chirurgo-donne: l’armonia e l’equilibrio che intercorrevano nel loro lavoro comune non sottintendeva nessun rapporto gerarchico, nessuna «catena di montaggio da sala operatoria», solo la preoccupazione per la salute della paziente. La liberazione della donna cinese è però ancora tutta in fase di costruzione: i cinesi tengono presente questa situazione, e li abbiamo sentiti ripetere spesso che, soprattutto in questo momento della lotta di classe in Cina, le donne sono particolarmente attive nella critica a Confucio in quanto, a causa della secolare influenza della tradizione confuciana, avevano sviluppato un forte complesso di inferiorità e insicurezza che impedisce loro talvolta ancora oggi il pieno inserimento nella società.
Il Comitato Rivoluzionario nella fabbrica di gomma di Chang-Sha, per esempio, è formato solo per 1/3 da donne e nella fabbrica di ricambi della stessa città le ricamatrici sono ancora le donne, mentre i pittori, creatori dei disegni da eseguire, sono uomini. Bisogna però ricordare che questo lavoro, per tradizione secolare, prerogativa delle donne, era eseguito a domicilio e solo nel 1956 fu costruita questa fabbrica su base cooperativa. Sono sempre più frequenti, poi, i casi di ragazzi che portano a termine l’apprendistato del ricamo, mentre le operaie sono in fase di lotta per eliminare sempre di più la divisione nel lavoro fra la fase decisionale e l’esecuzione.
Negli asili di quartiere le maestre sono in parte donne anziane, ex-casalinghe, e in parte giovani diplomate delle magistrali e delle scuole superiori. Ci colpisce lo spirito di collaborazione che esiste fra di loro e la mancanza di «professionismo» nella concezione cinese dell’educazione: non esiste il mito dell’«esperto», «moda» così in voga da noi anche in una certa ala progressista. I bambini non danno l’impressione di essere «timidi», ne di ripetere stupidamente gli atteggiamenti degli «adulti». Anch’essi sembrano essere sicuri di sé, spontanei ed autonomi. È la prima volta che ho il privilegio di incontrare dei bambini «liberi» e si impone subito il contrasto con i bambini da noi, oppressi dai genitori castranti, vittima a loro volta della medesima oppressione.
Visitiamo anche un ambulatorio di strada, parliamo con le tre dottoresse «dai piedi scalzi»: prima del 1970 erano delle casalinghe; in quell’anno frequentarono per due mesi un corso all’ospedale dove impararono a praticare l’agopuntura ed a fare massaggi ed iniezioni. Lavorano insieme cinque o sei ore al giorno. Loro compito principale è la prevenzione delle malattie. D’inverno curano soprattutto casi di morbillo, d’estate malattie infettive all’intestino. Fanno anche le vaccinazioni. In autunno vanno alla periferia della città a raccogliere erbe medicinali da cui ricavano pomate con cui curano l’influenza e i raffreddori.
La produzione in Cina è vista come mezzo di liberazione dai bisogni materiali e come arma di riscatto dall’emarginazione e dalla discriminazione. I gruppi produttivi di vicolo, le fabbriche di strada e di quartiere sono la realizzazione concreta di questa scelta di sviluppo industriale che organizza anche le casalinghe e i pensionati nel lavoro produttivo e che si basa sulla conoscenza dei bisogni reali delle persone. La donna cinese, mediante il suo inserimento nei processo produttivo, acquisisce una conoscenza globale della realtà, di cui era del tutto priva a causa della secolare ghettizzazione nelle case, con l’apprendimento di nuovi mestieri e la pratica di esperienze diversificate. Ha quindi la possibilità concreta di «relativizzare» l’amore e la famiglia, rapportandoli alle proprie attività. La società cinese non sembra essere «asessuata» per il solo fatto che sono assenti quelle forme di manifestazioni esteriori che da noi abbondano: non esiste quella forma di sessualità così comune da noi, intesa come compensazione e «divertimento» per dimenticare l’alienazione della vita quotidiana, così funzionale, tutto sommato, al capitale «progressista». In Cina base essenziale del rapporto uomo-donna oggi è il concetto di monogamia, conquistato dopo secoli di unioni imposte, di molte concubine subite (bisogna ricordare che nella Cina feudale la monogamia era segno di «povertà»), di troppi rapporti non vissuti. Il rapporto interpersonale diventa quindi il momento «intimo» di un rapporto più allargato dell’individuo rispetto alla società, in una costruzione quotidiana di vissuto collettivo. Questo tipo di rapporto monogamico sembra avvicinarsi al concetto di «unione libera» fondata sull’amore, che, comunque, per realizzarsi veramente, dovrebbe avere come condizione la conquista di una società diversa in cui venga eliminata la funzione economica della famiglia.
La frustrazione e la nevrosi della casalinga occidentale, priva della coscienza di effettuare un lavoro non retribuito funzionale al capitale, si può collegare ad un discorso di frustrazione di tanti individui costretti ad un lavoro alienante, con la differenza che, tramite l’incontro nell’alienazione sul lavoro, avviene la ribellione e la possibilità reale di lotta.
Forse la donna occidentale, pur vivendo in una società fondata su di un processo produttivo alienato ed alienante, basato sul profitto, a cui sono essenziali le sacche di disoccupazione e l’emarginazione di precise categorie per la propria sopravvivenza, in cui essa è vista sempre come forza lavoro di riserva, deve innanzitutto lottare per imporre il proprio diritto al lavoro retribuito e collettivizzato, che le permetta l’autonomia economica, come tappa essenziale sulla strada della sua liberazione. Il movimento ha sottolineato giustamente la carenza di una soluzione puramente economicista, ma non credo sia possibile prescindere da essa per una reale nostra liberazione al di là della creazione di illusori ghetti di libertà fittizia nell’ambito del movimento. L’autonomia del movimento mi sembra essenziale per la sua portata d’attacco ed incisività di discorso, ma altra è la sua diversificazione da un discorso articolato di classe: il problema sembra essere come il movimento debba rapportarsi al ventaglio della problematica della lotta di classe. Le donne, nell’ambito del movimento, si sono abituate ad una creatività dell’agire «politico», responsabilizzandosi in prima persona; ora mi chiedo come questo processo possa continuare con l’inserimento delle donne negli aspetti globali di lotta di questa realtà. Asserire che il privato è politico è una strategia che credo giusta per cercare di superare l’alienazione nei rapporti interpersonali, ma alcune teorizzazioni del «rapporto libero», «rapporto aperto», alternativa alla famiglia», «la comune» sono forse solamente una ricerca di sopravvivenza all’inquietudine, al malessere, alla solitudine, in cui non si aggiunge altro che precarietà, insicurezza e consumo dei rapporti interpersonali stessi. Sono forse soltanto manifestazioni disperate di una società in dissoluzione, che non contengono potenzialità di risposta e costruzione. Il «rapporto libero» è forse solo un rapporto in cui ancora una volta la donna riveste il suo ruolo di oggetto sessuale con l’unica differenza di essere consumato più in fretta, è forse solo un rapporto di non-responsabilità, un non-rapporto verso P«altro» e, allargando il discorso, un non-rapporto verso gli anziani, i malati, i bambini, come già avviene in paesi occidentali a tecnologia avanzata dove le riforme sociali in tal senso non sembrano aver eliminato, ma semmai accentuato, l’angoscia della solitudine.