alimentazione

belli e pericolosi

luglio 1975

 

Perché un discorso sull’alimentazione, su Effe? Perché le donne, vestali della cucina, angeli del fornello e del frigorifero, sono quelle che fanno la spesa, a cui è delegato il compito di scegliere cosa e come mangiare. Perché le donne sono il bersaglio prioritario di una pubblicità ossessiva, basata sulla vorace spinta al profitto (il problema della difesa del consumatore, si sa, non esiste). Perché le donne sono quindi usate come strumento per perpetuare, anche nel settore dell’alimentazione, un tipo di produzione funzionale al sistema, ma nociva all’individuo, uomo o donna che sia. Infine, perché le donne mangiano, come tutti quanti, e hanno diritto di sapere come e perché sono avvelenate, in massa, insieme ai loro uomini e ai loro bambini, pagando oltretutto sempre più salato questa lenta erosione della propria salute fisica e psichica, per il vantaggio dei pochi che prosperano sullo sfruttamento e sull’inganno quotidiano dei molti, cioè tutte noi che non abbiamo il potere (per ora…). Effe, comunque, non intende fare un discorso di pura denuncia (che intendiamo, tra l’altro, documentare nei prossimi numeri con analisi fatte in laboratorio di alimenti di largo consumo, come succhi di frutta, marmellate, formaggini etc.) ma dare indicazioni alternative perché le nostre lettrici possano portare un contributo a una diversa «politica dell’alimentazione». Ci aspettiamo anche che voi stesse ci scriviate, segnalandoci gli aspetti che più vi interessa esplorare in questo settore.

 

Lo sapevate che quasi 200 sostanze chimiche, sono attualmente aggiunte ai cibi per migliorarne le qualità di conservazione, per proteggerne le proprietà nutritive e, ancora, per migliorarne l’aspetto? Infatti la caratteristica essenziale dei consumi alimentari del nostro tempo è forse rappresentata dell’estensione e dalla varietà dei trattamenti tecnologici ai quali è sottoposta la maggior parte dei prodotti destinati all’alimentazione umana. In realtà, questi trattamenti hanno origini rudimentali ed empiriche. Già i popoli antichi avevano appreso alcuni procedimenti di particolare convenienza per aumentare la loro conservazione e di conseguenza la continuità della loro sussitenza. L’essiccamento, ad esempio, ai raggi del sole o al calore del fuoco è senza dubbio il più antico metodo di conservazione degli alimenti da parte dell’uomo; antico è anche il mantenimento dei cibi mediante il congelamento, applicato comunemente dagli indiani del Nord America e dagli eschimesi fin dai tempi più antichi. Soltanto nella seconda metà del secolo scorso, in seguito al grande sviluppo delle scienze ed alla industrializzazione, nacque la tecnologia alimentre e, con il progredire della tecnica e per effetto della competizione commerciale, questi procedimenti si sono sempre più sviluppati e perfezionati. I grandi progressi della chimica, della biologia e della medicina sono stati fattori determinanti nei processi di trattamento degli alimenti.

Queste scienze hanno consentito di stabilire gli scopi e le norme del trattamento ed hanno indicato i metodi di valutazione e di controllo. Un ruolo di fondamentale importanza per l’orientamento di questo processo di espansione è stato assunto dalla scienza dell’alimentazione, che si è posta tra l’agricoltura, come fonte di alimenti e la salute umana come finalità per studiare il valore nutritivo degli alimenti in rapporto ai bisogni alimentari dell’uomo, fornendo preziosi insegnamenti e utili indirizzi alle tecniche di produzione di trattamento. Nel dicembre del 1956, a Roma, si riunì per la prima volta il Comitato misto della FAO-OMS stabilì un elenco di additivi (antifermentativi, coloranti, antiossidanti etc.) formulando dei principi relativi alla loro utilizzazione.

Perché una qualunque sostanza fosse utilizzata come additivo, avrebbe dovuto rispondere a due requisiti: l’efficacia tecnica e la sicurezza d’uso. I grandi commerci internazionali hanno portato nei vari paesi a una certa omogeneità nel campo degli additivi permessi e considerati innocui per evitare che un alimento contente un certo additivo potesse essere respinto da un altro paese, in cui l’uso di tale additivo fosse vietato. Gli additivi usati in Italia sono quelli approvati a livello di Comunità Europea. Inoltre la commissione del Cod. Alimentare (una organizzazione internazionale creata per proteggere la salute dei consumatori la cui segreteria Italiana si trova presso l’Istituto Nazionale per la Nutrizione) ha stabilito una lista di principi generali inerenti l’uso degli additivi alimentari. Se l’uso di questi ultimi è desiderabile in certi casi e per determinati fini, diventa indesiderabile e dannoso, quindi da evitare, per altri casi e altri fini. Quando si tratta di un miglioramento delle qualità di conservazione e di stabilità delle derrate alimentari, con conseguente riduzione degli scarti, l’impiego degli additivi è giustificati necessari per preservare il prodotto finito dal naturale deterioramento al quale andrebbe incontro ogni alimento quando, dal luogo di produzione, dovesse raggiungere i mercati, coprendo distanze considerevoli.

Indubbiamente, tutto ciò mortifica il tradizionale concetto di genuinità, ma esalta, d’altra parte, le caratteristiche di conservabilità, a tutto vantaggio dell’economia generale della società: costa troppo caro procurarsi il cibo per permettere ad agenti naturali, secondo leggi naturali ineluttabili, di distruggerlo, cioè di sottrarlo al consumo umano immediato per restituirlo a un proprio ciclo spontaneo dì ritorno a forme organiche di decomposizione, pur tanto utili nel complesso dell’ambiente naturale. Purtroppo gli additivi possono anche servire a scopi decisamente meno nobili di quelli succitati un fatto noto a pochi, passato sotto silenzio con la massima cura in modo che resti ignoto alle masse dei consumatori. I produttori poco scrupolosi si possono servire degli additivi per far durare più a lungo merci della più scadente qualità, in qualche caso imbellettandoli, per farle apparire migliori di quelle che sono. Per esempio: si possono così mascherare efficacemente tutte quelle tecniche difettose di fabbricazione e di preparazione producendo in tal caso alimenti più scadenti per ingannare il consumatore sulla qualità del prodotto che acquista. L’impiego di aromatizzanti serve a camuffare un’incipiente putrefazione, quello dei coloranti associati a quello degli addensanti (la gomma arabica, la gelatina, la pectina) può far passare per carne ciò che carne non è, come per marmellata un prodotto nel quale c’è anche un po’ di frutta, o per succo di frutta un prodotto acquoso dolcificato zeppo di addensanti, coloranti, aromatizzanti.

L’impiego di alcuni additivi può provocare una distruzione dei principi attivi nutritivi per esempio, la sostituzione di un agente di ispessimento, come lo zucchero, generalmente utilizzato in notevole quantità con un additivo non nutritivo, porta ad una diminuzione del valore nutritivo. Tra gli inganni l’uso di coloranti che danno alle marmellate, alle caramelle e a tanti altri prodotti un aspetto naturale, vedi la tanto celebrata «marmellata della nonna». A proposito di marmellate occhio a quella di fragole: quando è troppo rossa, vuol dire che c’è una dose eccessiva di coloranti dato che le fragole, dopo la cottura, scoloriscono.

Oppure quelli aggiunti al mangime delle galline per restituire al tuorlo d’uovo un colore gradevole, camuffando quello bianchiccio o giallo pallido determinato dall’uso di mangimi industriali. Il produttore si giustifica affermando che il consumatore non solo vuole prodotti in regola dal punto di vista del loro valore alimentare, ma anche da quello delle proprietà organolettiche (colore, sapore odore). Così ai surrogati o ai prodotti che stanno a metà strada tra il prodotto naturale e il surrogato (per esempio quelli usati nei cioccolati) si conferiscono proprietà organolettiche il più-possibile vicine a quelle dei prodotti genuini di più elevato valore intrinseco. Così, con l’aiuto di una psicologia che ha rinunciato a affrontare i problemi reali della persona amplificando al massimo i consumi alimentari indotti, sì inganna il consumatore con sempre nuovi tipi di lecca-lecca (coloranti + zucchero) gomme americane, caramelle per i bambini, le merendine, bibite gassate e non, per i teenagers e per gli adulti con un calendario serrato di Natali, Pasque, Feste del Papà della Mamma di S. Valentini e via dicendo. Una domanda molto inquietante è questa: tutti gli additivi che sono usati in Italia e praticamente in tutti i paesi industrializzati sono innocui? L’innocuità degli additivi dovrebbe essere una condizione fondamentale, anzi, secondo il Codex essa rappresenta il principio informatore più significativo. Allora come giustificare i casi di quegli additivi, un tempo ritenuti innocui, rivelatisi assolutamente dannosi e addirittura cancerogeni? Evidente mente, non è possibile stabilire in senso assoluto l’innocuità di un dato additivo nei confronti di tutti gli individui, in tutte le proporzioni e in tutte le possibili condizioni d’impiego. Molti degli additivi permessi presentano per natura una tossicità potenziale: per cui esiste sempre un ragionevole dubbio sugli effetti causati dalla ingestione di piccole quantità di additivi per la durata dell’intera vita.

Il problema dell’innocuità degli additivi appare tanto più serio se si considera che essi entrano nella dieta quotidiana di ogni individuo e che molti individui, in conseguenza di uno stato fisiologico particolare (es. donne incinte, persone sotto forte stress) o di certe malattie di tipo organico, (carenze alimentari sistematiche), sono particolarmente sensibilizzati nei confronti di una data sostanza. E mentre è facile identificare e escludere dalla dieta un determinato alimento non idoneo per certi malati cronici gli additivi entrano misteriosamente nell’organismo ad insaputa del consumatore. Si pensi ad esempio ad un cardiopatico che eviti il caffè e poi prende traquillamente una Coca-cola (che contiene una quantità significativa di caffeina). Occorre infine tener presenti le eventuali interazioni di più additivi /usati contemporaneamente nello stesso alimento. Nel migliore dei casi, nel nostro paese, la tossicità delle sostanze aggiunte nei nostri cibi è valutata singolarmente, una per una, non tutte insieme. Il che, impedendo di constatare le eventuali interazioni, può risultare pericoloso per la salute del consumatore e rassicurante per il profitto del produttore.

I giudizi di innocuità o meno dovrebbero basarsi su una accurata analisi, rivolta ai fini della protezione della salute umana e non orientata prevalentemente a scopi di profitto. I concetti fin qui esposti, apparentemente dogmatici, possono essere spiegati con gli esempi seguenti. Negli insaccati (salsicce salumi etc.) e negli scatolami si tollera oggi l’aggiunta di una certa quantità di nitriti e nitrati, la cui innocuità viene ripetutamente messa in dubbio da dati scientifici. Queste sostanze sono responsabili del bel colore rosso delle salsicce e dei salami (più allettante del marroncino, naturale, che il consumatore tende oggi a considerare malsano). È però il caso di vedere cosa costa in termini di salute indulgere troppo alla estetica. Un pregio, in verità, queste sostanze ce l’hanno: impediscono la contaminazione di un germe (Clostridium botulinum) che produce una tossina letale per. l’uomo. Tuttavia, la quantità aggiunta agli alimenti eccede sempre quella necessaria perché questa protezione si verifichi ed è invece proporzionale all’interesse del produttore di ridare all’alimento i colori di una perduta freschezza. Se fossero innocui non sarebbe un gran male. Ma non lo sono; anzi sono i peggiori indiziati come agenti causanti tumori maligni. E allora perché si tollera tutto ciò? Lo stato che dovrebbe vigilare e salvaguardare la nostra salute che fa? Quale politica sanitaria attua? Il consumatore è praticamente lasciato in balla di questi continui inganni. Come ci si può difendere, in attesa (naturalmente non passiva), di un cambiamento radicale della società che porti anche a una politica di difesa della salute? Quali strumenti usare oggi? Per prima cosa, l’informazione: aiutando il consumatore a capire che cosa acquista, quale il valore nutritivo di un alimento, come può riconoscere ed evitare gli additivi (per esempio diffidate da tutto ciò che è troppo colorato, troppo profumato, troppo «imbellettato»). Naturalmente si dovrebbe cominciare dalla scuola: l’ora di osservazioni scientifiche e applicazioni tecniche potrebbe benissimo essere sfruttata anche per spiegare ai ragazzi gli aspetti tecnici e scientifici del mondo della produzione e del consumo, per far capire come si legge l’etichetta d’una merce, come ci si difende dal subdolo messaggio pubblicitario. Si tratta naturalmente di un discorso se non utopistico scarsamente attuabile nella società in cui viviamo, perché il potere economico che condiziona la nostra società farà di tutto per non avere un’interlocutore in grado di ficcare il naso nei fatti suoi, di chiedere che cosa l’industria fa e come la fa. Si potrebbero anche formare organizzazioni di consumatori che esercitino pressioni e controlli sui produttori. Una terza via sarebbe quella di ottenere leggi più chiare: per esempio perché non si spiega che significa «olio di semi», che differenza passa tra burro e margarina e così via?.

Qualcosa, comunque, si sta muovendo seppure con ritardo. Soltanto ora le cooperative cominciano ad avvertire la necessità di una corretta informazione alimentare, atta a difendere il consumatore dal potere persuasivo di disinformazione e di diseducazione del messaggio pubblicitario. La Coop ha infatti in programma una serie di films da proiettare su circuiti nazionali, nei luoghi di lavoro etc, opuscoli da diffondere presso i consumatori in cui venga spiegato a chiare lettere come comprare gli alimenti, come leggere le etichette, come riconoscere i prodotti di qualità migliore.

Dal canto suo lo Stato, ha passato una legge (4 agosto 1971, n. 592, conversione in legge con modificazione del decreto 5 luglio 1971, n. 432) concernente gli interventi in favore dell’agricoltura. L’art. 2 di tale legge dice che il Ministero dell’Agricoltura è autorizzato ad attuare programmi organici per campagne promozionali dei prodotti agricoli e di propaganda alimenta re. Inoltre può promuovere la educazione alimentare dei consumatori, sia sotto il profilo delle condizioni dietetiche, sia per la conoscenza dei marchi di qualità, standards qualitativi etc. nonché per orientare la domanda verso generi alimentari che uniscano un alto valore nutritivo a condizioni favorevoli di acquisto. La cifra stanziata allo scopo è di tre miliardi. Come sono stati spesi questi tre miliardi? Invece di svolgere una reale politica dell’alimentazione in favore dei consumatori, si è pensato solo a reclamizzare alcuni alimenti «caratteristici» del nostro paese. Infatti, nel 1972, la penisola è stata percorsa in lungo e in largo da una carovana di pullmini che propagandavano questi prodotti. Si è fatta anche una campagna a favore del latte, all’insegna dello slogan «Bevete più latte» di felliniana memoria, ma senza spiegare perché mai si debba bere più latte e che benefici ne derivino all’organismo. La questione è stata quindi affrontata in modo superficiale e disorganico. Oggi, a 4 anni dal passaggio delle legge, la situazione è tutt’altro che migliorata. Lo stanziamento è stato raddoppiato, ma si continua a procedere lungo i sentieri dell’improvvisazione e della superficialità. Finora si è fatta solo una campagna pubblicitaria a favore del pollo, in seguito sarà varata quella delle carni sostitutive, del pesce azzurro, della trota, del latte e dei latticini. Quindi l’obiettivo prioritario, cioè l’educazione alimentare, dì massa, è stato nuovamente messo in secondo piano. Su Effe, comunque, tenteremo, nei limiti del possibile, di continuare questo discorso che è tabù per la maggior parte della stampa e del tutto ignoto alle masse che vengono avvelenate in nome del profitto.